Di Admin (del 11/05/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2622 volte)
STORIA DI NAPOLI ILLUSTRATA. Una terra si racconta.
(Aa.vv. In 6 fascicoli: 1° Dai popoli preellenici al mito della Sirena. 2° Da Cuma alla fondazione di Neapolis. 3° La città greca. 4° Napoli romana. 5° Napoli romana seconda parte. 6° Napoli bizantina e il ducato autonomo. Ed. Altrastampa 1997, fascicoli In-folio, brossure, ca. 50 pp. a fascicolo)
ERRICO RUOTOLO "Mercato" tecnica mista 24x36 cm. 1997
Non so se l'interesse degli italiani per la storia sarà ridestato, nel lungo periodo, dalla riforma con cui il ministro Berlinguer ha introdotto un ruolo particolare di questa disciplina (segnatamente per le vicende contemporanee) nel contesto dell'insegnamento scolastico. So per certo che iniziative come quelle di Altrastampa Edizione sulla storia di Napoli vanno nella direzione giusta per tutta una serie di ragioni che cercherò di illustrare nei limiti di spazio consentiti:
a) - perché si tratta di avvenimenti, personaggi, testimonianze artistiche culturali ed umane di grande bellezza e di straordinario fascino, se non altro per il fatto che la nostra città conta quasi trenta secoli di ininterrotta, prodigiosa presenza come non si può dire neppure per Roma né per qualsiasi altra metropoli dell'antichità;
QUINTINO SCOLAVINO "Tempio di Hera alla foce del Sele", tecnica mista 36x24 cm. 1997
b) - perché è importante che i lettori napoletani di ogni età, e particolarmente i più giovani, apprendano la storia della loro città come un modo serio, profondo, emozionante di ritrovare le loro radici, di appropriarsi della loro identità, di dare un contenuto alla loro appartenenza. Personalmente ho sempre deplorato e continuo a deplorare l'assenza di una cattedra di storia di Napoli all'interno della Facoltà di Lettere;
c) - perché è giusto che i lettori italiani di tutte le regioni, comprese ovviamente quelle influenzate dalla delirante predicazione secessionista della Lega padana, imparino a conoscere, a rispettare e ad apprezzare l'enorme patrimonio storico e culturale dell'antica capitale del regno delle Due Sicilie;
MARIO PERSICO "Diotimo dà inizio alla gara", tecnica mista 36x24 cm. 1997
d) - perché l'iniziativa di Storia di Napoli Illustrata coincide con un recupero da parte di Napoli e dei napoletani della consapevolezza e dell'orgoglio della loro storia, quel recupero a proposito del quale si è parlato addirittura di una rinascenza;
e) - finalmente e soprattutto perché il piano editoriale dell'opera ideato da un editore coraggioso e curato da un esperto ed intelligente scrittore quale è Nino Leone, è stato concepito e realizzato con una visione globale della storia napoletana, sia per il corredo iconografico coordinato da un'autorità del settore, il professore Gianni Pisani, direttore dell'Accademia di Belle Arti di Napoli, sia per la ricchezza dell'analisi condotta in forma divulgativa ma aperta a tutti gli aspetti della vita cittadina che in ogni periodo hanno contribuito sostanzialmente a determinare la sorte, il costume, la moralità stessa degli abitanti.
SALVATORE VITAGLIANO "Il Teatro", tecnica mista 36x24 cm. 1997
È un criterio storiografico molto moderno e sagace, anche perché ci richiama ad una verità indiscutibile e cioè che a fare la storia non sono soltanto gli uomini grandi, i conquistatori, i potenti, ma tutti gli uomini e le donne, dalla più umile condizione alla più eccelsa. Buona lettura, dunque, e buon divertimento (nel senso più ampio e nobile della parola) a chi si accinge a tuffarsi nei fascicoli di Storia di Napoli Illustrata. ANTONIO GHIRELLI
CARMINE DI RUGGIERO "San Gennà aiutaci tu...", tecnica mista 40x30 cm. 1997
Di Admin (del 13/04/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2733 volte)
{autore=capaldo rubens}
Uomo serio, attento, affronta i problemi dell'arte con umiltà e senza mai fermarsi a contemplare il già fatto, come in uno specchio. (Angelo Trimarco).
L'opera è firmata e datata in basso a sinistra: "Capaldo R. 1964 Roma ". A tergo: cartiglio e timbro Galleria Mediterranea e cartiglio Mostra Promotrice "Salvator Rosa" del 1965. [...] mi soffermo nella "Piazza del Popolo" che mi appare, nella sua fosca colorazione come una scena dove dovrà svolgersi un dramma e, per associazione di idee, mi ricordo di Scipione. (Pietro Girace).
L'opera è firmata e datata: "Capaldo R. 1965 ". Cartiglio e timbro Galleria Mediterranea a tergo. InRubens Capaldo, si nota una robusta compattezza formale. Le figure dominano interamente il diagramma immaginativo, ne sono il motivo di centro. (Elia Bruno).
Rubens Capaldo, uno dei pittori napoletani più personali della sua generazione, è di quelli che sono restati fedeli alla loro originaria ispirazione e che, col passare degli anni, vanno sempre meglio affinando e approfondendo senza mai scostarsene con l'intento di seguire altre vie che non siano quelle proprie e individuali.
Egli ha assorbito dalla cultura di oggi soltanto quegli stimoli e quegli apporti più idonei a nutrire la sua stessa ispirazione.
Così che la sua figurazione (da autentico e consistente pittore figurativo) pur essendo quella di sempre presenta un suo spicco più intenso ed intimo. Nelle sue opere alle formulazioni plastiche (dove rivivono le patine dei bronzi ercolanensi, appena variegati dalla salsedine marina) corrisponde un chiaroscuro intriso di colori in un rovello di segni che paiono scavati col bulino.
Capaldo così rileva più da presso l'immagine identificandola con il fondo mediante l'identico trattamento cromatico, dove la luce e i valori atmosferici avviluppano la scena senza il minimo distacco.
Così che è raggiunta, in quel fluido di ruggine dorata, una vibrante unificazione plasmata in una forma fremente di accenti colorati e di elementi chiaroscurali.
Si avverte ancora, in Capaldo l'inseparabile legame con la scuola napoletana (Mancini) a cui si accompagna la presenza della fermentante tavolozza di Luigi Crisconio, con l'esito talvolta di personali innovazioni dovute ad altra temperie emotiva.
Nei paesaggi poi, nelle vedute di contrade marine, nelle nature morte, nei fiori, Capaldo investe il suo innato naturalismo con un velo d'aria e con un arretramento più di tempo che di spazio, conferendo alla natura un magico sentimento nostalgico, in cui l'attuale definizione di luoghi è trasposta in un'età traslata e tanto più amabile di quella attuale.
C'è da attendersi nell'opera e nell'impegno di questo pittore un processo di sublimazione così dei ricordi come delle forme attuali in stretta corrispondenza con il suo temperamento poetico, nella sempre più avvincente intesa tra il mondo della percezione e quello della fantasia.
La sua posizione è forse la più singolare di quelle dell'attuale panorama della pittura napoletana ed è rivolta all'avvenire senza per questo rinnegare le acquisizioni di un recente passato anzi fornendole di un affettuoso consenso nella sua propria testimonianza di consanguineità, di partecipazione, pur essendo egli ben fermo nelle sue spiccate singolarità.
L'opera è firmata in basso a sinistra: "A. Chiancone". Firma e data a tergo.
"Ho sempre considerato Alberto Chiancone una specie di Gioacchino Toma dei tempi nostri; ma egli alla spiritualità dell’autore della «Sanfelice in carcere» aggiunge qualcos’altro, e cioè una modernità di accenti ed una spontanea eleganza, virtù coteste che gli consentono di affrontare qualsiasi «motivo», sia pure i più comuni del vedutismo napoletano, senza farlo mai cadere nella banalità del vero o del «pittoresco» o del volutamente cerebrale, che è poi un altro aspetto dell’insincerità artistica. Sono tanti anni che conosco e seguo Chiancone: non l’ho visto mai, nemmeno nei momenti di crisi o di sfiducia, deviare dal suo cammino: ne abiurare la tradizione per apparire «aggiornato» o come suol dirsi, stupidamente, «pittore del proprio tempo». Come se il pittore, dice bene Oppo, subisse il proprio tempo soltanto da un lato esteriore ed ottico. Il suo impressionismo, sorretto dal senso della forma come quello di alcuni grandi pittori dell’ottocento italiano e francese (Fattori, Renoir, Degas) si è arricchito di mano in mano dal punto di vista sia della luce che della bella materia pittorica, realizzando, quel che più conta, atmosfere spirituali e poetiche che potrebbero trovare il loro riscontro nelle pagine di uno scrittore intensamente meditativo. Alberto Chiancone è un uomo attento e pensoso; e tale è anche la sua pittura, che tende a penetrare, con un gusto quasi psicologico, personaggi e paesi, mettendone in luce soprattutto gli aspetti interiori, e certe particolarità del carattere come la tendenza al sogno o alla meditazione, all’idillio o alla nostalgia. Prende delle «signorinelle» napoletane, e ne fa le protagoniste di un romanzo o di un racconto che forse Guy de Maupassant avrebbe scritto; le sorprende in un club esistenzialista, tutte intente a prodigarsi in un ballo sfrenato, oppure in un momento di riposo o di abbandono alla malinconia, e tali ce le ripresenta sulle sue tele, non senza qualche lieve accenno all’ironia ed alla caricatura. Comprende profondamente la loro tristezza e la loro ansia di vivere. Quasi con uno stesso sentimento egli affronta i paesaggi, sia quelli di Napoli che dei dintorni; poiché i «paesi» per lui sono «personaggi» che hanno i loro umori buoni o cattivi, e che potrebbero raccontare storie di giornate di sole o di pioggia, di esultanza e di tedio. Qui Chiancone opera nel suo elemento, con una libertà illimitata, e descrive ed accenna con la vena di un poeta elegiaco, illuminando cieli densi di nebbia, velieri nel porto, contadini intenti alla potatura, trattorie di campagna, mattinate estive, ove circola sempre quel sottilissimo filo di poesia crepuscolare che riesce a tramutare un «paese» in un personaggio".
Piero Girace, dalla presentazione al catalogo della personale alla galleriaMediterranea, Napoli, 1962.
Ad eccezione di qualche orientamento di massima ricevuto agli inizi da Francesco Galante, la formazione artistica di Enrico Aprile è venuta svolgendosi in termini essenzialmente autodidattici, sulla base di una naturale predisposizione che nel corso degli anni - attraverso un impegno costante e appassionato - gli ha consentito l'acquisizione di peculiari capacità espressive nelle quali si esplicita un innato talento. Fra i vari indirizzi estetici potenzialmente eligibili, nelle scelte del giovane Aprile veniva privilegiato - ed è poi rimasto immutato - quello che si aggancia alla tradizione figurativa che, specie nella tematica paesaggistica, affonda le proprie radici nell'antica Scuola di Posillipo: la natura osservata nel suo essere e fedelmente trasposta sulla tela nelle componenti di verità ma anche di poesia, realizzandosi in tal modo non un mero processo trascrittivo (che al più evidenzierebbe abilità artigianale, ma resterebbe irrilevante sul piano dell'arte), bensì la sensibile interpretazione di una realtà che si offre allo sguardo in tutta la ricchezza dei suoi aspetti cangianti, correlati alle diverse angolazioni prospettiche e al mutare dei giochi luministici. Condizioni, queste, che da sempre caratterizzano l'ambiente in cui l'artista si è trovato ad operare, in un pregnante contesto di notazioni, di spunti, di suggerimenti - e di suggestioni -, di infiniti reperti che ovunque a Napoli affiorano dalla storia, dal costume, dalla letteratura, dalle pietre, dalla viva umanità. È, tutto ciò, una realtà a un tempo concreta e fantastica, che Aprile non manca di percepire - probabilmente a livello di intuito istintivo, non certo di recepimento culturale -, cogliendo lo spirito delle cose, l'atmosfera dei momenti, il sentimento dei personaggi che popolano le sue tele. Traspare anzi talvolta (ed è particolarmente evidente in certi ritratti e in certe composizioni) un'accentuata capacità introspettiva per effetto della quale il mondo interiore dei soggetti sembra venire in superficie, egemonizzando l'economia rappresentativa e spostandola in un senso nettamente romantico, che fa riandare la mente a taluni titoli di Celentano o di Altamura. La consueta trama compositiva attiene peraltro a una tematica più epidermica, volta all'osservazione della vita quotidiana nei suoi ricorrenti e non problematici aspetti (scene di mercati, processioni, vedute, interni, nature), resi con immediatezza di tocco, efficacia espressiva, vivacità cromatica. Ma la tavolozza di Aprile conosce anche le raffinate armonie dei grigi (quei grigi nei quali si espressero magistralmente Gioacchino Toma e Francesco Galante), sulla cui gamma vanno stemperandosi lontane prospettive di paesaggi e dove indubbiamente l'artista realizza il meglio di sé.
Negli anni trenta, diplomatosi in pittura all'Accademia di B.A. di Napoli dopo aver messo a punto una salda preparazione, Carlo Striccoli - smilzo, bruno, capelli nerissimi - iniziava la sua carriera artistica nel gruppo bohémien del «Quartiere latino» di via Rosaroll, rivelandosi una specie di tzigano per il modo di suonare il violino, che allora lo appassionava forse quanto la pittura. In quegli anni giovanili mostrava un riserbo inquieto e un'ansia nascosta: e, pur affascinato dalla tradizione locale del luminismo chiaroscurale (viva dal Seicento a Mancini), avvertiva sin da allora l'esigenza dell'attualità. Perciò la sua pittura è entrata nel presente artistico attraverso il sentimento attivo e la ricerca incessante di una modernità intesa però positivamente, senza avventure (e con tali connotati Striccoli ha partecipato per invito a varie Biennali veneziane, alle Internazionali di Barcellona e di Parigi, alle Quadriennali di Roma, alle Nazionali di Milano, Firenze, Napoli, mentre alle sue opere toccavano prestigiose collocazioni). Le sue immagini, espressive di una bellezza intima e naturale, sono rivestite di intensità e caratterizzate da un'energia istintiva, scintillante e scultoreamente sintetica. Un vigore particolare sostiene le raffigurazioni degli aspetti tipici e dei personaggi della sua terra (Costumi pugliesi, Contadini di Altamura), come se il calore di quella terra si trasfondesse nella sua pittura, facendo emergere dal profondo notazioni proprie di un temperamento meridionale - diremmo anzi rurale - che in quei contesti tematici è portato ad esprimere il meglio di sé e che, all'aria aperta, realizza appieno il proprio talento. Più di altri pittori Striccoli guadagna quando è se stesso, ad onta di qualche accidentale esuberanza in cui talvolta incorre (ma ciò è la riprova dell'esistenza di qualità di fondo e di una salda strutturazione che, anche in quei casi, consentono il recupero di valori e il ristabilimento di equilibri tonali). In realtà, per Striccoli essere se stesso significa operare in una condizione di costante concitazione, di nervosismo, di inquietudine, di insofferenza, dipingere con un fare sciolto, senz'altre risorse che quelle del proprio istinto, con pennellate graffianti che strappano e fissano sulla tela brandelli di «vero» luminoso: e in tal modo riesce ad essere concisamente frammentario, splendido, vibrante, abbozzando - ma con tratti che sono definitivi e compiuti - inquadrature urbane ove campeggiano monumenti o dove il tema è essenzialmente il gioco chiaroscurale, o delineando figure femminili nelle quali è più evidente lo sforzo di una ricerca condotta nell'area della sensibilità moderna e della problematica che vi si connette, senza per ciò venir meno a una qualificante fedeltà stilistica.
Con la fama esigua di pittore solitario e schivo, Biagio Mercadante si spense all’età di settantotto anni.
Ma il velo cinereo dell’oblio non cadrà sulla sua opera, la quale - come tutta l’arte vissuta, sofferta e goduta con sincerità e amore - non sarà dimenticata.
I dati biografici di Biagio Mercadante, e il curriculum della sua vita d’artista, sono molto scarsi: egli non ebbe una vita avventurosa, movimentata o ricca di episodi, di viaggi in Italia o in altre parti del mondo. La sua arte si può dire caratterizzata da una evoluzione semplice e costante, che riflette il viso delle cose attraverso una pittura che scende dall’occhio giù nell’anima. Ed è proprio in virtù di tale consistenza che l’opera sua permane nella nostra memoria con immagini che, libere da complicanze intellettualistiche, trovano origini in una tradizione d’arte concreta ricca di comunicativa e volta a quella visione lirica del « vero » che fu l’immenso modello naturale per tutti coloro che, con la loro immaginazione, hanno realizzato le opere più belle della pittura moderna.
Nato a Torraca, nel Cilento, Biagio Mercadante non fu come tanti provinciali i quali, una volta respirata l’aria dei grandi centri d’arte e di cultura, dimenticarono il paese d’origine e si affrettarono a snobbare il meglio della tradizione che li aveva fatti artisti. Quanto lontano, Mercadante, da simili insulsi atteggiamenti estetici o politici, che non potevano certo essergli congeniali!
Egli amava la sua terra, la sua gente e la collina che dall’alto dominava il mare di Policastro. E, fin dall’infanzia felice, amò la pittura che rifletteva la vita di quel paesaggio natio, la sua bellezza, la gente dei campi: anche se, coi passar del tempo, la gioia di vivere in quell’ambiente si era tramutata in uno stato angoscioso, dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale e poi per l'incombere dell'altra minaccia, non meno grave, rappresentata dalla speculazione edilizia. Già in un suo scritto aveva parlato della tradizione dei « Cordici » che andava lentamente spegnendosi: l’ascensione dei pellegrini sull’ameno colle registrava ogni anno una sempre minore affluenza, anche se forse la fede era ancor viva nei cuori. E ciò che più lo angustiava era quel lento scomparire della vita georgica, il diradarsi delle millenarie pastorizie e la graduale, inarrestabile sparizione delle stradette, dei vicoli, delle case di contadini sparse sul pendio, quasi nascosto nel verde.
Ai piedi dei « Cordici », nella storica e laboriosa cittadina di Sapri protesa sull’azzurro mare, Biagio Mercadante (dopo che l’appartamento di Napoli fu danneggiato dai bombardamenti) allestì lo studio con annesso deposito di centinaia di opere finite o rimaste abbozzate. Non voleva ingombri nel luogo ove lavorava: la tela sul cavalletto era sempre l’ultima che dipingeva, a lato della modella in posa sullo sfondo delle pareti chiare e disadorne.
A dodici anni, col manifestarsi della vocazione artistica, fu iscritto all’Istituto di Belle Arti di Napoli, ove nel 1902 Vincenzo Volpe aveva sostituito il suo maestro Domenico Morelli alla cattedra di pittura. La scomparsa di Morelli (preceduta da quella di Palizzi, di Toma e di Stanislao Lista, autentici apostoli dell’insegnamento) segnò per l’Istituto di via Costantinopoli al fine di un lungo periodo di splendore che aveva posto Napoli all’avanguardia delle scuole di pittura, come fu storicamente documentato in occasione della prima Esposizione di Firenze del 1862.
In quei primi anni del Novecento, l’arte più viva che si faceva a Napoli era ancora quella dei superstiti maestri della grande scuola del secolo precedente, comprendente gli artisti della generazione di Michetti, Mancini, Migliaio, Caprile, Pratella, coevi di Salvatore Postiglione, Irolli, Casciano, Scoppetta; fra gli scultori, in prima linea erano Gemito, D’Orsi, Cifariello, Giuseppe Renda. Seguì poi la fiorita artistica dei più giovani, nati tra il ’70 e 1’ 80: Luca Postiglione, Carlo Siviero, Ricchizzi, Viti, Villani, Galante, primeggianti insieme agli scultori Giovanni de Martirio e Saverio Gatto (questi ultimi usciti dallo studio di D’Orsi). Dopo la scomparsa dei due grandi innovatori Morelli e Palizzi, con Cammarano fu istituita la scuola serale del Nudo a bianco e nero, che poteva essere frequentata anche da alunni esterni. Da Michele Cammarano, formidabile interprete della realtà e della natura, i giovani del tempo (da Siviero a Ricchizzi, da Viti a Villani) impararono a costruire la figura umana, a rendere l’anatomia degli alberi, a modellare le rocce e le montagne stagliate su cieli martellati d’azzurro; appresero altresì la legge dei contrasti, la saldezza del tono - luce, la natura specifica di un elemento: stoffa o pietra, albero o terreno. Fra gli ultimi allievi, frequentarono la sua scuola di nudo Crisconio e Mercadante, prima che l’ottantenne glorioso maestro abbandonasse l’insegnamento, indignato dalla irriverente condotta di alcuni allievi.
Biagio Mercadante intuiva che la vocazione artistica era condizionata alla buona volontà di studiare e, soprattutto, al rispetto per i maestri che - come il Cammarano - rappresentavano la parte vitale della tradizione, dalla quale prendeva fisionomia l’opera d’arte, pur recando l’impronta personale dell’artista.
È sempre una gioia degli occhi e un godimento dello spirito trovarsi alla presenza di una bella pittura: il piacere diventa intenso se si può gustare la ricchezza della materia, la sostanza del tessuto di una superficie, lo spirito di una pennellata e, insomma, attraverso tutte codeste doti di resa, parlare direttamente con l’artista che diede forma e sentimento all’opera. E Biagio Mercadante (che non aveva potuto giovarsi della guida di Lista e di Toma) parlava con entusiasmo di quel poco che aveva potuto apprendere da Cammarano.
Per le prime esercitazioni, il maestro suggeriva lo studio dei bianchi e dei neri: non che questi offrissero difficoltà facilmente superabili, ma perché conducevano, non importava se per vie faticose, alla conquista delle vibrazioni più imponderabili del colore e a sviluppare la sensibilità dei mezzi toni. Tutte le modulazioni intorno a un bianco dipendono da esso, in esso sono riflesse: un bianco pone la scala cromatica nel giusto registro dei valori, a condizione che perda la qualità sorda della materia e diventi esso stesso colore. E così il nero: può giungere alle più profonde espressioni e può diventare il più sottile o canoro strumento (come quello del diabolico Paganini) e svolgere, intrecciare, modulare e rendere le più ricche variazioni della tavolozza. Il nero sarà sempre apprezzato, e i veri pittori non se ne staccano, anche se nei primi tempi possano giudicarlo ingombrante e fastidioso. Per tal motivo Mercadante (e con lui Crisconio, Striccolí, Víti) furono affascinati, oltre che dal nero di Cammarano, dai neri di Morelli e di Mancini, come si può giudicare da certi loro ritratti e mezzefigure.
Intorno agli anni Venti, subito dopo il primo conflitto mondiale, incontravo sovente Biagio Mercadante: io frequentavo il suo studio al Rettifilo (ove aveva anche l’abitazione), ed egli veniva a trovarmi nel Brio studio, a Villa Lucia. Ebbi modo, così, di seguire i suoi sviluppi, che si realizzavano in quell’ambiente domestico nel quale si coltivava la musica e il canto: e c’era quasi una sincronia tra le sue pennellate e le note delle opere di Verdi, di Donizetti o di Puccini.
Nel 1920 partecipammo entrambi per la prima volta a un’importante rassegna: l’Esposizione d’Arte Giovanile Napoletana, allestita nella Galleria Principe di Napoli. La giuria aveva accettato i nostri lavori, ma il pensiero di dovere affrontare il giudizio della critica e del pubblico ci teneva in grande ansia. Ricordo peraltro la favorevole accoglienza riservata ai tre dipinti di Mercadante: Angolo di Napoli, Barche e Ritratto di uno scultore i quali, nel contesto di tutte le altre opere di pittura e di scultura - comprese quelle dei maestri, che di buon grado avevano accolto l’invito di affiancarsi ai giovani - evidenziavano, quale nota essenziale dell’uomo e dell’artista, la sincerità. (Del resto, gli artisti veri furono sempre sinceri: che anima ci può essere nell’opera d’arte se manca la sincerità?).
Nella primavera dell’anno successivo partecipò a un’altra grande collettiva, inaugurata da Vittorio Emanuele III: ed allestita alla Floridiana dalla Promotrice « Salvator Rosa », che allora non aveva ancora la sua « casa dell’arte ». (In proposito, rimase proverbiale ciò che Luca Postiglione disse in una procellosa assemblea: « Toglietevelo dalla testa! Il palazzo dell’arte non l’avremo mai, perché dimenticarono di costruirlo i Borboni! »). Il sovrano, col suo seguito di uomini in tuba e redingote, aveva da poco lasciato la villa quando, tra i quadri intonatissimi allineati sulle pareti, risuonò una nota stonata che fece trasecolare i visitatori: con, stridente verbosità polemica, un « contestatore » indirizzò una ingiuriosa protesta alla giuria di accettazione, di cui facevano parte Gemito e Casciaro. Si udirono parole fino ad allora inusitate nel vocabolario artistico: una terminologia presa confusamente a prestito dalla dialettica di certi fautori di nuove correnti estetiche, che riecheggiavano gli sproloqui delle prime battaglie futuristiche d’anteguerra.
Allora Biagio Mercadante, sgusciando tra le persone che commentavano ironicamente l’accaduto, mi prese sottobraccio e uscimmo a respirare l’aria frizzante della primavera. Percorrendo lentamente i viali fiancheggiati da aiuole fiorite, ci avviammo verso il bianco tempietto di Venere, a picco sul ciglio della montagna di tufo, ciascuno ruminando i propri pensieri. Ci sedemmo su un sedile di pietra, lasciato appena libero da una coppia di innamorati. Biagio accese una sigaretta ed io caricai la mia pipa. Poi egli sbottò, con la sua voce asciutta di artista non chiacchierone ma ponderato e riflessivo: « Non ne ho potuto più di udire quelle bestemmie! Ma che vogliono, quei forsennati rifiuti dell’arte? Tu ci capisci qualcosa?... ».
Ne seguì una ... ortodossa conversazione sulla conoscenza tecnica, sull’efficienza che permette di realizzare una forma d’arte la quale, prescindendo dalle gratuite teorie del cosiddetto « nuovo », sarà sempre da pregiarsi come una ispirata rappresentazione intuitiva della realtà. I tentativi dei pittori « dell’avvenire » rivelano spesso una sorta d’improduttività pittorica: mancano i valori, mancano i rapporti tonali nei loro quadri sterili, dalle superfici piatte e grigie, quando non sono invece esasperatamente colorate. Si potrà dire, di questo o quel pittore dell’Ottocento, che è debole, mediocre, sentimentale, sciatto o corrivo, ma non si può tacciarlo d’improntitudine o di falsità, che sono vizi recenti. L’anima di un pittore ottocentista appare spesso simile alla fiamma ilare del focolare domestico, che mal s’accorda con le vampe chimiche su cui taluni artisti del nostro secolo mettono a bollire le loro torbide miscele, che mandano un puzzo d’inferno... Se consideriamo il cammino della nostra arte, troveremo sempre i medesimi fattori che, sotto apparenze varie e con alterne vicende, ne costituiscono l’essenza. Ciò che con parola generica chiamiamo « disegno » è in realtà un trinomio che comprende qualità lineare, qualità cromatiche e densità delle ombre del rilievo. E nel concepire la forma, non possiamo prescindere da questi presupposti del « vero » tutte le volte che alludiamo al mezzo di espressione. I passaggi semitonali consentono finezze di modellato e di colore, e rendono più acuti i caratteri della verità: quei caratteri che Mercadante seppe ottenere senza però abusarne, perché li sorvegliava con accorta tensione visiva.
Frattanto, nel 1922, nacque la prima - ed unica - Biennale d’Arte Nazionale in Palazzo Reale (un avvenimento che, a Napoli, ebbe un solo precedente: l’Esposizione del 1877). Alla grande mostra parteciparono i più noti artisti italiani: Mancini trionfò con la sua stupenda personale, trasferita l’anno successivo all’Esposizione Internazionale di Venezia. Ad onta però di quei lusinghieri inizi, la seconda Biennale di Napoli non si fece: il presidente, duca Giovane di Girasole, si dimise con tutto il comitato esecutivo a seguito di attacchi inconsulti da parte di un manipolo di artisti locali che li aveva tacciati, fra l’altro, di incompetenza. Allora uno dei consiglieri, il poeta Salvatore Di Giacomo, organizzò una retrospettiva, rimasta famosa, della pittura napoletana dell’Ottocento, per sottolineare quanto - pur attraverso gli antagonismi delle scuole - si era fatto in quel secolo per affidare l’arte alla storia.
Sulla soglia dell’esposizione, Mercadante ed io ci salutammo: il giorno dopo avrei lasciato Napoli per Milano, restando alcuni anni lontano dalla nostra città. Nel 1924, con l’incarico di corrispondente del quindicinale milanese « Le Arti plastiche » e della rivista « Varietas », mi recai a Parigi, fissando la mia dimora a Montparnasse. La città non era più quella che avevo imparato a conoscere ed amare attraverso Murger: tutta una falsa bohème di artisti stranieri carichi di dollari, di marchi, di fiorini; « La Rotonde », che in origine era stato il bistrott di Verlaine, rammodernato e ingrandito rigurgitava di strani individui che fecevano cerchio intorno al giapponese Fujita e ad altri artisti alla moda; era già spenta l’eco della tragica fine di Modigliani, e il furboe istrionico Picasso aveva trovato nella babele parigina l’ambiente più opportuno per il suo famoso « Epater les bourgeois ».
Tornato a Napoli nel ’27, vi trovai la collettività artistica operante in una nuova strutturazione: non più Società Promotrice di Belle Arti « Salvator Rosa », ma Interprovinciali e Sindacali fasciste. Eccezion fatta per il « Premio Cremona »; il cui tema doveva riferirsi alle realizzazioni del regime, per altre mostre si dipingeva e si scolpiva con libertà d’intenti e di ispirazione.
Ma la sorpresa più grande la ebbi nei pressi di Portacapuana, alla prima traversa Rosaroll, ove su un grande terrazzo dell’ultimo piano un gruppo di artisti aveva installato il proprio studio, creando una specie di villaggio artistico; detto poi « piccolo Quartiere Latino ». L’idea del « Villaggio » era venuta al pittore Giuseppe Uva, un tardo, seguace di Ruoppolo e di Belvedere, che già da tempo aveva su quel terrazzo il suo studio-abitazione e il suo pollaio. Uva convinse il proprietario a costruire - in legno e muratura - altri dieci locali, da concedere in fitto ad altrettanti pittori per dodici lire mensili. I primi occupanti furono Bresciani, Buonoconto, Vincenzo Ciardo, Ettore Lalli, Biagio Mercadante, Paolo Prisciandaro, Rispoli, Carlo Striccoli. Dopo qualche tempo Bresciani mi cedette il suo studio, adiacente a quello di Mercadante, che dava sul pianerottolo e faceva angolo col quartinostudio di Peppino Uva. [...]
Col sopravvenire dell’ultimo conflitto, Mercadante si trasferì nel Cilento, dedicandosi al lavoro nel suo studio di Sapri. Nell’immediato dopoguerra riprendemmo a vederci allorché un comune e grande amico, amatore d’arte, bibliofilo e collezionista di raro intuito - Biagio D’Angelo - volle tentare la rinascita della Promotrice « Salvator Rosa », il cui archivio storico e le annate dei cataloghi delle esposizioni erano andati distrutti. In tale compito volle avere accanto Biagio Mercadante, come guida e collaboratore. La prima mostra della risorta Promotrice ebbe luogo in un locale di via dei Mille. Ma ogni anno bisognava trovare un nuovo locale: e questa ricorrente difficoltà, unita alla adesione imprevedibilmente scarsa di nuovi soci, finì con lo scoraggiare il buon Biagio D’Angelo, che cedette la presidenza della società all’avvocato Gaetano Vecchione. Anche Mercadante, deluso e amareggiato, se ne tornò a lavorare nella pace del suo studio di Sapri. Frattanto, nel 1953, invitato da Carlo Siviero, aveva partecipato alla « Mostra dell’Arte nella vita del Mezzogiorno d’Italia », presentando Paesaggio autunnale e Interno rustico, acquistati poi dallo Stato.
L’ultimo incontro con Biagio Mercadante avvenne qualche anno fa, in occasione di una delle mostre d’arte contemporanea al Circolo Artistico Politecnico, ov’egli espose un’opera recente. La sua volontà e la sua tenacia avevano largamente agito sullo svolgimento della sua tendenza originaria e la sua pittura, di costituzione campana, rivelava come una seconda giovinezza, riflettendo quella dote rara, e al giorno d’oggi spregiata, che in etica si chiama « modestia » e in estetica « sincerità ».
Ci appartammo in una sala, comodamente seduti su un divano, a rievocare tante cose dei nostri anni passati: sembrava un secolo!
Indossava, come sempre, un vestito grigio chiaro fatto su misura, una cravatta intonata, i capelli ingrigiti tagliati a spazzola, e per la prima volta aveva inforcato gli occhiali sul viso segaligno sbarbato di fresco; fumava ora una sigaretta con filtro.
- Vieni a trovarmi a Sapri, vedrai che incanto dal mio balcone che domina il golfo! ... Vieni, ti farò il ritratto che ti avevo tante volte promesso al « Quartiere Latino ».
E, fissandomi, si sorprese che mancava qualcosa di integrante della mia fisionomia: - Ma come, non fumi più la pipa?... Sai, Felice D’Angelo mi ha invogliato a fare una personale delle mie opere... Ho insistito per non farla: a che serve? Mi costerebbe una fatica enorme per selezionare il meglio... E io non so giudicare me stesso...
ALFREDO SCHETTINI
ESTEMPORANEA DI PITTURA
Biagio Mercadante ha reso, con il nitore e la grazia che gli sono propri, l’aspetto rustico e appartato dell’isolotto di San Martino (che è stato congiunto alla terraferma).
Il Mattino, 19-8-63
Biagio Mercadante nella sua pittura è, infatti, un sereno narratore che intravede scorci di vita, aspetti della natura, sentimenti ed affetti umani. Egli ci prende per mano e ci guida verso l’idealizzazione del reale che trasfigura con una tecnica ove l’immagine balza parlante ed i colori sono festa di luci, di gamme delicate, di tenue trasparenze in un mirabile intreccio ed in toni vivi di perfetta aderenza. Egli dà forma alle cose che prendono consistenza ed anima, con aspetti rivelatori originali, dai quali traluce la potenza creatrice di un’arte personale e suadente.
Vincenzo Mauro
Se Mercadante non opera da un punto di vista polemico, o esclusivo, è perché non vuole limitare le sue svariate possibilità pittoriche, alla monotonia di certi stillicidi individuali, che non hanno importanza quando non implicano il sacrificio e la rinunzia...
La verità delle cose, la vita stessa costituiscono per il nostro pittore un mondo in cui può spaziare all’infinito, osservando solo ciò che vale la pena di osservare ed interpretare, senza cadere nell’errore comune dei motivi detestabili.
Alfredo Schettini (Corriere di Napoli)
Biagio Mercadante, artista idilliaco ed agreste, è rimasto fedele alla sua poetica: non è poco.
I suoi paesaggi, i suoi interni, hanno la freschezza e laimmediatezza delle pagine di un diario.
È una voce carica di sentimenti.
Piero Girace (Roma)
Quella sua intima sincerità assume e conserva una validità umana, nel senso che esprime sensazioni genuine monde da ogni artificiosa sofisticazione.
In certi paesaggi del Salernitano e della Lucania, nei quali anche lo spettacolo della natura sembra rispecchiare la povertà delle case e degli uomini, Mercadante esprime la sua migliore vena con la garbata commozione che informa la versione pittorica.
Armando Miele (Il Tempo)
RICORDO DI BIAGIO MERCADANTE
La sua improvvisa scomparsa, avvenuta a Torraca, dove nacque nel 1893, me lo fa ricordare quale sempre lo vidi, con quel sorriso increspato sulle labbra sottili nel viso segaligno e ben rasato, di pittore pulito, nient’affatto posatore loquace, ma dignitosamente riservato e borghese, non espansivo, non allegro, anzi guardingo con gli amici e colleghi. Ultimamente inforcava un paio di grossi occhiali a stanghetta che puntualizzavano la sua serietà di artista che amava starsene lontano, lavorare in pace nel suo paese, in quella pace dei campi, respirando l’aria salubre dei monti.
Biagio Mercadante fu allievo dell’Istituto di Belle Arti di Napoli al tempo in cui Volpe aveva sostituito il suo Maestro Morelli alla Scuola di Pittura.
Temperamento, noviziato, studio e passione formarono la base della sua arte semplice e sentimentale. Come pochi altri artisti della sua generazione, non osò contestare e sovvertire in malo modo il concetto del « vero » ostentando di sostituirlo con altri criteri in una libertà che nega il limite e la condizione di quella verità che fu il campo delle più geniali ricerche e l’immenso modello naturale a cui convergevano, dai più diversi punti di vista, gli sguardi dei pittori esclusivamente compresi dal sentimento e dalla Natura.
Biagio Mercadante fu appunto uno di quelli. Per lui, all’infuori del suo piccolo mondo provinciale, non esistevano altre possibilità di ispirazione artistica: perché egli sinceramente amava quello che ancora gli poteva offrire di bello la vita dei campi, le cose a lui care e familiari: i contadini, gli interni rustici, gli interni di chiesa, le caratteristiche case coloniche, il paesaggio, resi in una gamma di colori sobri e delicati di toni grigio-perla, di bianchi, di verdi di azzurri di una luminosa freschezza di visione.
Per tutta la sua vita operosa e schiva da rumori reclamistici, Mercadante si mantenne fedele a sé stesso nell’ambito della sana tradizione ottocentesca, dipingendo con un fare largo ed unito, semplificando gli elementi della sua pittura, serbando la impronta di una meridionalità, grazie alla quale egli è potuto istintivamente sfuggire alle trappole delle molte dialettiche, rinnovando - di volta in volta - le proprie sensazioni del vero e realizzarle pittoricamente.
Alfredo Schettini (Corriere di Napoli settembre 1971)
Nei pressi di Portacapuana, alla prima traversa Rosaroll, su un grande terrazzo dell’ultimo piano, un gruppo di artisti aveva installato il proprio studio, creando una specie di villaggio artistico, detto poi « piccolo Quartiere Latino ». L’idea del « Villaggio » era venuta al pittoreGiuseppe Uva, un tardo, seguace di Ruoppolo e di Belvedere, che già da tempo aveva su quel terrazzo il suo studio-abitazione e il suo pollaio. Uva convinse il proprietario a costruire - in legno e muratura - altri dieci locali, da concedere in fitto ad altrettanti pittori per dodici lire mensili. I primi occupanti furono Bresciani, Buonoconto, Vincenzo Ciardo, Ettore Lalli, Biagio Mercadante, Paolo Prisciandaro, Rispoli, Carlo Striccoli. Dopo qualche tempo Bresciani mi cedette il suo studio, adiacente a quello di Mercadante, che dava sul pianerottolo e faceva angolo col quartinostudio di Peppino Uva. Come Ciardo ricorda in « Quasi un diario », la notizia non tardò a diffondersi per la città. Un giorno venne a trovarci Libero Lo Sardo, che fu il primo giornalista ad affrontare i sei piani, senza ascensore del casamento: l’indomani il « Roma » pubblicava in buona evidenza: « Ho scoperto il "Quartiere Latino" di Napoli... ». Su quel terrazzo, d’estate si squagliava dal caldo, d’inverno si moriva dal freddo; quando pioveva, l’acqua scorreva da tutte le parti. Eppure, malgrado tutto, si era spensierati e di buon umore. Nel nostro « quartiere » - che andava suscitando una crescente curiosità - organizzavamo piccole mostre personali e non mancavano gli oratori che dissertavano intorno ai vari espositori. Spesso ci allietava la presenza del poeta Pasquale Ruocco, che prendeva gusto a tratteggiare i personaggi del « Quartiere » in versi impeccabili o in una prosa brillante e colorita. E venivano anche gli « intenditori », a fiutare in quale di quegli studi ci fosse odore di futuri geni. Peppino Uva era forse il personaggio più pittoresco: rinsecchito dagli anni e dall’accanito lavoro, era diventato tutto naso, angoli, zigomi, e per una specie di mimetismo somigliava al più vecchio dei suoi gallinacci. Tutto sbrindellato, col camice bianco chiazzato di colori, a mezzogiorno in punto usciva a dare il becchime ai suoi pennuti: li chiamava per nome ed essi gli correvano incontro. Prisciandaro era invece un personaggio tra Bergerac e il murgeriano « Marcello »: il lungo naso, il pizzetto, la pipa, il cappello a larghe tese, la cravatta nera da anarchico, dipingeva fiori ed era un tipo loquace e allegro. Striccoli aveva anch’egli un tocco romantico: dipingeva e suonava il violino, per placare i suoi furori d’arte e d’amore per la modella, che gli posava nuda o in costume. Le sue pitture erano plasticamente sode e costruite. Il più posato fra i componenti del « Quartiere » era Ciardo, che con Lalli divideva l’arte e l’amore per la modella. Ciardo era enorme, un pallore biondastro, gli occhi grigi inespressivi, il volto quadrato. Cifariello gli aveva appioppato il nomignolo di « Testa di vitello bollito ». Rispoli - un pittore della categoria di Peppe Uva - aveva una particolare clientela di mercanti di esportazione. La sua pittura di scene popolari e di costumi o di figure terzine aggraziate, nude o vestite, rispecchiava pulitamente la brillantezza dei suoi abiti e del suo sorriso cordiale. Mercadante poteva essere scambiato per un bravo borghese: abito grigio fatto su misura, sempre probo, nessuna nota stonata, i capelli tagliati a spazzola, labbra sottili talvolta abbozzanti un sorriso ironico, mai loquace né espansivo, non si impicciava degli altri quartieristi, non era curioso di quello che dipingevano, raramente li frequentava. Insomma, Biagio Mercadante era il più serio e riservato. Si chiudeva nel suo studio con la modella e lavorava con tutte le comodità. Tuttavia, il quadro da mandare a questa o a quella esposizione sindacale di Napoli o al concorso del Premio Cremona (da lui vinto due volte) si compiaceva di mostrarlo agli amici del « quartiere » che più stimava e nella sincerità del cui giudizio egli credeva: e così, ogni tanto; si brindava al suo successo con quel vinello del Cilento di cui aveva in riserva qualche bottiglia. Nel 1938, la morte di Peppino Uva segnò anche la fine del « Quartiere Latino ». L’un dopo l’altro sloggiammo. Vi rimase solo Ettore Lalli, che la sera veniva al Circolo Artistico, ove incontrava Mercadante e gli altri amici per l’abituale partita di biliardo.
Mario Ricciardi inizia la sua attività di produttore di immagini e scultore sin dal 1968. Dal 1981 rivolge la sua attenzione ai linguaggi. Il suo rapporto con la materia diventa così ragione e consapevolezza di un tempo nuovo delle arti, teso al riconoscimento di una scienza del vedere che resta ancora attualmente il suo impegno primo.
“L’arte non è una montagna da scalare, è una conca da perlustrare, un vuoto da percorrere, lo spazio senza fine, il tempo dell’azione, l’estraneità delle cose, la separazione dell’esistenza.” Mri
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Compiuti gli studi all'Accademia di Belle Arti di Napoli, iniziò fin dal 1927 la sua attività artistica, partecipando alle maggiori mostre nazionali ed internazionali (Biennali di Venezia, Quadriennali di Roma, ecc). Ha insegnato all'Istituto d'Arte di Napoli. Sue opere si trovano nella pinacoteca del comune di Pescara, Galleria comunale di Teramo ed in altre pinacoteche pubbliche e private. È il pittore delle stalle, delle mucche al pascolo, dei contadini e dei carrettieri d'Abruzzo, colti sulle grandi strade maestre, fra i monti e il mare. Una rappresentazione realizzata con un sicuro impianto disegnativi, un robusto impasto cromatico, una capacità di sintesi che costituiscono le doti più proprie di Verdecchia, al quale va riconosciuto il merito di essersi costruito una propria identità ed un proprio linguaggio. (Novecento Italiano, De Agostini Ed.)