Con la fama esigua di pittore solitario e schivo, Biagio Mercadante si spense all’età di settantotto anni.
Ma il velo cinereo dell’oblio non cadrà sulla sua opera, la quale - come tutta l’arte vissuta, sofferta e goduta con sincerità e amore - non sarà dimenticata.
I dati biografici di Biagio Mercadante, e il curriculum della sua vita d’artista, sono molto scarsi: egli non ebbe una vita avventurosa, movimentata o ricca di episodi, di viaggi in Italia o in altre parti del mondo. La sua arte si può dire caratterizzata da una evoluzione semplice e costante, che riflette il viso delle cose attraverso una pittura che scende dall’occhio giù nell’anima. Ed è proprio in virtù di tale consistenza che l’opera sua permane nella nostra memoria con immagini che, libere da complicanze intellettualistiche, trovano origini in una tradizione d’arte concreta ricca di comunicativa e volta a quella visione lirica del « vero » che fu l’immenso modello naturale per tutti coloro che, con la loro immaginazione, hanno realizzato le opere più belle della pittura moderna.
Nato a Torraca, nel Cilento, Biagio Mercadante non fu come tanti provinciali i quali, una volta respirata l’aria dei grandi centri d’arte e di cultura, dimenticarono il paese d’origine e si affrettarono a snobbare il meglio della tradizione che li aveva fatti artisti. Quanto lontano, Mercadante, da simili insulsi atteggiamenti estetici o politici, che non potevano certo essergli congeniali!
Egli amava la sua terra, la sua gente e la collina che dall’alto dominava il mare di Policastro. E, fin dall’infanzia felice, amò la pittura che rifletteva la vita di quel paesaggio natio, la sua bellezza, la gente dei campi: anche se, coi passar del tempo, la gioia di vivere in quell’ambiente si era tramutata in uno stato angoscioso, dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale e poi per l'incombere dell'altra minaccia, non meno grave, rappresentata dalla speculazione edilizia. Già in un suo scritto aveva parlato della tradizione dei « Cordici » che andava lentamente spegnendosi: l’ascensione dei pellegrini sull’ameno colle registrava ogni anno una sempre minore affluenza, anche se forse la fede era ancor viva nei cuori. E ciò che più lo angustiava era quel lento scomparire della vita georgica, il diradarsi delle millenarie pastorizie e la graduale, inarrestabile sparizione delle stradette, dei vicoli, delle case di contadini sparse sul pendio, quasi nascosto nel verde.
Ai piedi dei « Cordici », nella storica e laboriosa cittadina di Sapri protesa sull’azzurro mare, Biagio Mercadante (dopo che l’appartamento di Napoli fu danneggiato dai bombardamenti) allestì lo studio con annesso deposito di centinaia di opere finite o rimaste abbozzate. Non voleva ingombri nel luogo ove lavorava: la tela sul cavalletto era sempre l’ultima che dipingeva, a lato della modella in posa sullo sfondo delle pareti chiare e disadorne.
A dodici anni, col manifestarsi della vocazione artistica, fu iscritto all’Istituto di Belle Arti di Napoli, ove nel 1902 Vincenzo Volpe aveva sostituito il suo maestro Domenico Morelli alla cattedra di pittura. La scomparsa di Morelli (preceduta da quella di Palizzi, di Toma e di Stanislao Lista, autentici apostoli dell’insegnamento) segnò per l’Istituto di via Costantinopoli al fine di un lungo periodo di splendore che aveva posto Napoli all’avanguardia delle scuole di pittura, come fu storicamente documentato in occasione della prima Esposizione di Firenze del 1862.
In quei primi anni del Novecento, l’arte più viva che si faceva a Napoli era ancora quella dei superstiti maestri della grande scuola del secolo precedente, comprendente gli artisti della generazione di Michetti, Mancini, Migliaio, Caprile, Pratella, coevi di Salvatore Postiglione, Irolli, Casciano, Scoppetta; fra gli scultori, in prima linea erano Gemito, D’Orsi, Cifariello, Giuseppe Renda. Seguì poi la fiorita artistica dei più giovani, nati tra il ’70 e 1’ 80: Luca Postiglione, Carlo Siviero, Ricchizzi, Viti, Villani, Galante, primeggianti insieme agli scultori Giovanni de Martirio e Saverio Gatto (questi ultimi usciti dallo studio di D’Orsi). Dopo la scomparsa dei due grandi innovatori Morelli e Palizzi, con Cammarano fu istituita la scuola serale del Nudo a bianco e nero, che poteva essere frequentata anche da alunni esterni. Da Michele Cammarano, formidabile interprete della realtà e della natura, i giovani del tempo (da Siviero a Ricchizzi, da Viti a Villani) impararono a costruire la figura umana, a rendere l’anatomia degli alberi, a modellare le rocce e le montagne stagliate su cieli martellati d’azzurro; appresero altresì la legge dei contrasti, la saldezza del tono - luce, la natura specifica di un elemento: stoffa o pietra, albero o terreno. Fra gli ultimi allievi, frequentarono la sua scuola di nudo Crisconio e Mercadante, prima che l’ottantenne glorioso maestro abbandonasse l’insegnamento, indignato dalla irriverente condotta di alcuni allievi.
Biagio Mercadante intuiva che la vocazione artistica era condizionata alla buona volontà di studiare e, soprattutto, al rispetto per i maestri che - come il Cammarano - rappresentavano la parte vitale della tradizione, dalla quale prendeva fisionomia l’opera d’arte, pur recando l’impronta personale dell’artista.
È sempre una gioia degli occhi e un godimento dello spirito trovarsi alla presenza di una bella pittura: il piacere diventa intenso se si può gustare la ricchezza della materia, la sostanza del tessuto di una superficie, lo spirito di una pennellata e, insomma, attraverso tutte codeste doti di resa, parlare direttamente con l’artista che diede forma e sentimento all’opera. E Biagio Mercadante (che non aveva potuto giovarsi della guida di Lista e di Toma) parlava con entusiasmo di quel poco che aveva potuto apprendere da Cammarano.
Per le prime esercitazioni, il maestro suggeriva lo studio dei bianchi e dei neri: non che questi offrissero difficoltà facilmente superabili, ma perché conducevano, non importava se per vie faticose, alla conquista delle vibrazioni più imponderabili del colore e a sviluppare la sensibilità dei mezzi toni. Tutte le modulazioni intorno a un bianco dipendono da esso, in esso sono riflesse: un bianco pone la scala cromatica nel giusto registro dei valori, a condizione che perda la qualità sorda della materia e diventi esso stesso colore. E così il nero: può giungere alle più profonde espressioni e può diventare il più sottile o canoro strumento (come quello del diabolico Paganini) e svolgere, intrecciare, modulare e rendere le più ricche variazioni della tavolozza. Il nero sarà sempre apprezzato, e i veri pittori non se ne staccano, anche se nei primi tempi possano giudicarlo ingombrante e fastidioso. Per tal motivo Mercadante (e con lui Crisconio, Striccolí, Víti) furono affascinati, oltre che dal nero di Cammarano, dai neri di Morelli e di Mancini, come si può giudicare da certi loro ritratti e mezzefigure.
Intorno agli anni Venti, subito dopo il primo conflitto mondiale, incontravo sovente Biagio Mercadante: io frequentavo il suo studio al Rettifilo (ove aveva anche l’abitazione), ed egli veniva a trovarmi nel Brio studio, a Villa Lucia. Ebbi modo, così, di seguire i suoi sviluppi, che si realizzavano in quell’ambiente domestico nel quale si coltivava la musica e il canto: e c’era quasi una sincronia tra le sue pennellate e le note delle opere di Verdi, di Donizetti o di Puccini.
Nel 1920 partecipammo entrambi per la prima volta a un’importante rassegna: l’Esposizione d’Arte Giovanile Napoletana, allestita nella Galleria Principe di Napoli. La giuria aveva accettato i nostri lavori, ma il pensiero di dovere affrontare il giudizio della critica e del pubblico ci teneva in grande ansia. Ricordo peraltro la favorevole accoglienza riservata ai tre dipinti di Mercadante: Angolo di Napoli, Barche e Ritratto di uno scultore i quali, nel contesto di tutte le altre opere di pittura e di scultura - comprese quelle dei maestri, che di buon grado avevano accolto l’invito di affiancarsi ai giovani - evidenziavano, quale nota essenziale dell’uomo e dell’artista, la sincerità. (Del resto, gli artisti veri furono sempre sinceri: che anima ci può essere nell’opera d’arte se manca la sincerità?).
Nella primavera dell’anno successivo partecipò a un’altra grande collettiva, inaugurata da Vittorio Emanuele III: ed allestita alla Floridiana dalla Promotrice « Salvator Rosa », che allora non aveva ancora la sua « casa dell’arte ». (In proposito, rimase proverbiale ciò che Luca Postiglione disse in una procellosa assemblea: « Toglietevelo dalla testa! Il palazzo dell’arte non l’avremo mai, perché dimenticarono di costruirlo i Borboni! »). Il sovrano, col suo seguito di uomini in tuba e redingote, aveva da poco lasciato la villa quando, tra i quadri intonatissimi allineati sulle pareti, risuonò una nota stonata che fece trasecolare i visitatori: con, stridente verbosità polemica, un « contestatore » indirizzò una ingiuriosa protesta alla giuria di accettazione, di cui facevano parte Gemito e Casciaro. Si udirono parole fino ad allora inusitate nel vocabolario artistico: una terminologia presa confusamente a prestito dalla dialettica di certi fautori di nuove correnti estetiche, che riecheggiavano gli sproloqui delle prime battaglie futuristiche d’anteguerra.
Allora Biagio Mercadante, sgusciando tra le persone che commentavano ironicamente l’accaduto, mi prese sottobraccio e uscimmo a respirare l’aria frizzante della primavera. Percorrendo lentamente i viali fiancheggiati da aiuole fiorite, ci avviammo verso il bianco tempietto di Venere, a picco sul ciglio della montagna di tufo, ciascuno ruminando i propri pensieri. Ci sedemmo su un sedile di pietra, lasciato appena libero da una coppia di innamorati. Biagio accese una sigaretta ed io caricai la mia pipa. Poi egli sbottò, con la sua voce asciutta di artista non chiacchierone ma ponderato e riflessivo: « Non ne ho potuto più di udire quelle bestemmie! Ma che vogliono, quei forsennati rifiuti dell’arte? Tu ci capisci qualcosa?... ».
Ne seguì una ... ortodossa conversazione sulla conoscenza tecnica, sull’efficienza che permette di realizzare una forma d’arte la quale, prescindendo dalle gratuite teorie del cosiddetto « nuovo », sarà sempre da pregiarsi come una ispirata rappresentazione intuitiva della realtà. I tentativi dei pittori « dell’avvenire » rivelano spesso una sorta d’improduttività pittorica: mancano i valori, mancano i rapporti tonali nei loro quadri sterili, dalle superfici piatte e grigie, quando non sono invece esasperatamente colorate. Si potrà dire, di questo o quel pittore dell’Ottocento, che è debole, mediocre, sentimentale, sciatto o corrivo, ma non si può tacciarlo d’improntitudine o di falsità, che sono vizi recenti. L’anima di un pittore ottocentista appare spesso simile alla fiamma ilare del focolare domestico, che mal s’accorda con le vampe chimiche su cui taluni artisti del nostro secolo mettono a bollire le loro torbide miscele, che mandano un puzzo d’inferno... Se consideriamo il cammino della nostra arte, troveremo sempre i medesimi fattori che, sotto apparenze varie e con alterne vicende, ne costituiscono l’essenza. Ciò che con parola generica chiamiamo « disegno » è in realtà un trinomio che comprende qualità lineare, qualità cromatiche e densità delle ombre del rilievo. E nel concepire la forma, non possiamo prescindere da questi presupposti del « vero » tutte le volte che alludiamo al mezzo di espressione. I passaggi semitonali consentono finezze di modellato e di colore, e rendono più acuti i caratteri della verità: quei caratteri che Mercadante seppe ottenere senza però abusarne, perché li sorvegliava con accorta tensione visiva.
Frattanto, nel 1922, nacque la prima - ed unica - Biennale d’Arte Nazionale in Palazzo Reale (un avvenimento che, a Napoli, ebbe un solo precedente: l’Esposizione del 1877). Alla grande mostra parteciparono i più noti artisti italiani: Mancini trionfò con la sua stupenda personale, trasferita l’anno successivo all’Esposizione Internazionale di Venezia. Ad onta però di quei lusinghieri inizi, la seconda Biennale di Napoli non si fece: il presidente, duca Giovane di Girasole, si dimise con tutto il comitato esecutivo a seguito di attacchi inconsulti da parte di un manipolo di artisti locali che li aveva tacciati, fra l’altro, di incompetenza. Allora uno dei consiglieri, il poeta Salvatore Di Giacomo, organizzò una retrospettiva, rimasta famosa, della pittura napoletana dell’Ottocento, per sottolineare quanto - pur attraverso gli antagonismi delle scuole - si era fatto in quel secolo per affidare l’arte alla storia.
Sulla soglia dell’esposizione, Mercadante ed io ci salutammo: il giorno dopo avrei lasciato Napoli per Milano, restando alcuni anni lontano dalla nostra città. Nel 1924, con l’incarico di corrispondente del quindicinale milanese « Le Arti plastiche » e della rivista « Varietas », mi recai a Parigi, fissando la mia dimora a Montparnasse. La città non era più quella che avevo imparato a conoscere ed amare attraverso Murger: tutta una falsa bohème di artisti stranieri carichi di dollari, di marchi, di fiorini; « La Rotonde », che in origine era stato il bistrott di Verlaine, rammodernato e ingrandito rigurgitava di strani individui che fecevano cerchio intorno al giapponese Fujita e ad altri artisti alla moda; era già spenta l’eco della tragica fine di Modigliani, e il furboe istrionico Picasso aveva trovato nella babele parigina l’ambiente più opportuno per il suo famoso « Epater les bourgeois ».
Tornato a Napoli nel ’27, vi trovai la collettività artistica operante in una nuova strutturazione: non più Società Promotrice di Belle Arti « Salvator Rosa », ma Interprovinciali e Sindacali fasciste. Eccezion fatta per il « Premio Cremona »; il cui tema doveva riferirsi alle realizzazioni del regime, per altre mostre si dipingeva e si scolpiva con libertà d’intenti e di ispirazione.
Ma la sorpresa più grande la ebbi nei pressi di Portacapuana, alla prima traversa Rosaroll, ove su un grande terrazzo dell’ultimo piano un gruppo di artisti aveva installato il proprio studio, creando una specie di villaggio artistico; detto poi « piccolo Quartiere Latino ». L’idea del « Villaggio » era venuta al pittore Giuseppe Uva, un tardo, seguace di Ruoppolo e di Belvedere, che già da tempo aveva su quel terrazzo il suo studio-abitazione e il suo pollaio. Uva convinse il proprietario a costruire - in legno e muratura - altri dieci locali, da concedere in fitto ad altrettanti pittori per dodici lire mensili. I primi occupanti furono Bresciani, Buonoconto, Vincenzo Ciardo, Ettore Lalli, Biagio Mercadante, Paolo Prisciandaro, Rispoli, Carlo Striccoli. Dopo qualche tempo Bresciani mi cedette il suo studio, adiacente a quello di Mercadante, che dava sul pianerottolo e faceva angolo col quartinostudio di Peppino Uva. [...]
Col sopravvenire dell’ultimo conflitto, Mercadante si trasferì nel Cilento, dedicandosi al lavoro nel suo studio di Sapri. Nell’immediato dopoguerra riprendemmo a vederci allorché un comune e grande amico, amatore d’arte, bibliofilo e collezionista di raro intuito - Biagio D’Angelo - volle tentare la rinascita della Promotrice « Salvator Rosa », il cui archivio storico e le annate dei cataloghi delle esposizioni erano andati distrutti. In tale compito volle avere accanto Biagio Mercadante, come guida e collaboratore. La prima mostra della risorta Promotrice ebbe luogo in un locale di via dei Mille. Ma ogni anno bisognava trovare un nuovo locale: e questa ricorrente difficoltà, unita alla adesione imprevedibilmente scarsa di nuovi soci, finì con lo scoraggiare il buon Biagio D’Angelo, che cedette la presidenza della società all’avvocato Gaetano Vecchione. Anche Mercadante, deluso e amareggiato, se ne tornò a lavorare nella pace del suo studio di Sapri. Frattanto, nel 1953, invitato da Carlo Siviero, aveva partecipato alla « Mostra dell’Arte nella vita del Mezzogiorno d’Italia », presentando Paesaggio autunnale e Interno rustico, acquistati poi dallo Stato.
L’ultimo incontro con Biagio Mercadante avvenne qualche anno fa, in occasione di una delle mostre d’arte contemporanea al Circolo Artistico Politecnico, ov’egli espose un’opera recente. La sua volontà e la sua tenacia avevano largamente agito sullo svolgimento della sua tendenza originaria e la sua pittura, di costituzione campana, rivelava come una seconda giovinezza, riflettendo quella dote rara, e al giorno d’oggi spregiata, che in etica si chiama « modestia » e in estetica « sincerità ».
Ci appartammo in una sala, comodamente seduti su un divano, a rievocare tante cose dei nostri anni passati: sembrava un secolo!
Indossava, come sempre, un vestito grigio chiaro fatto su misura, una cravatta intonata, i capelli ingrigiti tagliati a spazzola, e per la prima volta aveva inforcato gli occhiali sul viso segaligno sbarbato di fresco; fumava ora una sigaretta con filtro.
- Vieni a trovarmi a Sapri, vedrai che incanto dal mio balcone che domina il golfo! ... Vieni, ti farò il ritratto che ti avevo tante volte promesso al « Quartiere Latino ».
E, fissandomi, si sorprese che mancava qualcosa di integrante della mia fisionomia: - Ma come, non fumi più la pipa?... Sai, Felice D’Angelo mi ha invogliato a fare una personale delle mie opere... Ho insistito per non farla: a che serve? Mi costerebbe una fatica enorme per selezionare il meglio... E io non so giudicare me stesso...
ALFREDO SCHETTINI
ESTEMPORANEA DI PITTURA
Biagio Mercadante ha reso, con il nitore e la grazia che gli sono propri, l’aspetto rustico e appartato dell’isolotto di San Martino (che è stato congiunto alla terraferma).
Il Mattino, 19-8-63
Biagio Mercadante nella sua pittura è, infatti, un sereno narratore che intravede scorci di vita, aspetti della natura, sentimenti ed affetti umani. Egli ci prende per mano e ci guida verso l’idealizzazione del reale che trasfigura con una tecnica ove l’immagine balza parlante ed i colori sono festa di luci, di gamme delicate, di tenue trasparenze in un mirabile intreccio ed in toni vivi di perfetta aderenza. Egli dà forma alle cose che prendono consistenza ed anima, con aspetti rivelatori originali, dai quali traluce la potenza creatrice di un’arte personale e suadente.
Vincenzo Mauro
Se Mercadante non opera da un punto di vista polemico, o esclusivo, è perché non vuole limitare le sue svariate possibilità pittoriche, alla monotonia di certi stillicidi individuali, che non hanno importanza quando non implicano il sacrificio e la rinunzia...
La verità delle cose, la vita stessa costituiscono per il nostro pittore un mondo in cui può spaziare all’infinito, osservando solo ciò che vale la pena di osservare ed interpretare, senza cadere nell’errore comune dei motivi detestabili.
Alfredo Schettini (Corriere di Napoli)
Biagio Mercadante, artista idilliaco ed agreste, è rimasto fedele alla sua poetica: non è poco.
I suoi paesaggi, i suoi interni, hanno la freschezza e laimmediatezza delle pagine di un diario.
È una voce carica di sentimenti.
Piero Girace (Roma)
Quella sua intima sincerità assume e conserva una validità umana, nel senso che esprime sensazioni genuine monde da ogni artificiosa sofisticazione.
In certi paesaggi del Salernitano e della Lucania, nei quali anche lo spettacolo della natura sembra rispecchiare la povertà delle case e degli uomini, Mercadante esprime la sua migliore vena con la garbata commozione che informa la versione pittorica.
Armando Miele (Il Tempo)
RICORDO DI BIAGIO MERCADANTE
La sua improvvisa scomparsa, avvenuta a Torraca, dove nacque nel 1893, me lo fa ricordare quale sempre lo vidi, con quel sorriso increspato sulle labbra sottili nel viso segaligno e ben rasato, di pittore pulito, nient’affatto posatore loquace, ma dignitosamente riservato e borghese, non espansivo, non allegro, anzi guardingo con gli amici e colleghi. Ultimamente inforcava un paio di grossi occhiali a stanghetta che puntualizzavano la sua serietà di artista che amava starsene lontano, lavorare in pace nel suo paese, in quella pace dei campi, respirando l’aria salubre dei monti.
Biagio Mercadante fu allievo dell’Istituto di Belle Arti di Napoli al tempo in cui Volpe aveva sostituito il suo Maestro Morelli alla Scuola di Pittura.
Temperamento, noviziato, studio e passione formarono la base della sua arte semplice e sentimentale. Come pochi altri artisti della sua generazione, non osò contestare e sovvertire in malo modo il concetto del « vero » ostentando di sostituirlo con altri criteri in una libertà che nega il limite e la condizione di quella verità che fu il campo delle più geniali ricerche e l’immenso modello naturale a cui convergevano, dai più diversi punti di vista, gli sguardi dei pittori esclusivamente compresi dal sentimento e dalla Natura.
Biagio Mercadante fu appunto uno di quelli. Per lui, all’infuori del suo piccolo mondo provinciale, non esistevano altre possibilità di ispirazione artistica: perché egli sinceramente amava quello che ancora gli poteva offrire di bello la vita dei campi, le cose a lui care e familiari: i contadini, gli interni rustici, gli interni di chiesa, le caratteristiche case coloniche, il paesaggio, resi in una gamma di colori sobri e delicati di toni grigio-perla, di bianchi, di verdi di azzurri di una luminosa freschezza di visione.
Per tutta la sua vita operosa e schiva da rumori reclamistici, Mercadante si mantenne fedele a sé stesso nell’ambito della sana tradizione ottocentesca, dipingendo con un fare largo ed unito, semplificando gli elementi della sua pittura, serbando la impronta di una meridionalità, grazie alla quale egli è potuto istintivamente sfuggire alle trappole delle molte dialettiche, rinnovando - di volta in volta - le proprie sensazioni del vero e realizzarle pittoricamente.
Alfredo Schettini (Corriere di Napoli settembre 1971)