Di Admin (del 26/07/2013 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 3761 volte)
Dopo l'unità d'Italia si acuirono i contrasti fra le varie scuole pittoriche fino allo scontro frontale, alla guerra aperta. A Napoli, gli artisti piu aperti e sensibili, insoddi-sfatti del potere assoluto di Morelli e dei suoi seguaci, riconoscevano a Filippo Palizzi di non aver mai ammai-nato la «bandiera della verità», essendosi mantenuto fedele al realismo, anzi al naturalismo. Al Palizzi, alla onesta e rigorosa ricerca del vero (caratteristica fondamentale della Scuola di Resina), si richiameranno tutti i giovani pittori della generazione post-unitaria: Michele Cammarano, Marco De Gregorio, Federico Rossano, Eduardo Dalbono, Vincenzo Caprile, Antonino Leto, Consalvo Carelli, Alceste Campriani (che nel '60 avevano tra i 20 e i 30 anni).
marco de gregorio
vincenzo caprile
eduardo dalbono
Marco De Gregorio (1829-1875), garibaldino, repubbli-cano e anarchico, appese al chiodo, dopo l'impresa dei Mille, la sua camicia rossa e tornò alla pittura. Egli viveva a Resina, dove era nato, in una casa ricavata dai piani superiori della Reggia di Portici. Nella zona viveva anche Consalvo Carelli, ultimo esponente della Scuola di Posillipo-, presso il quale De Gregorio e i suoi amici Giuseppe De Nittis e Federico Rossano poterono vedere gli acque-relli di Giacinto Gigante e avere la rivelazione di una pittura di diretta ispirazione naturalistica e fondata sulla unità tra colore e luce. A Portici capitò poi, venuto da Firenze, Adriano Cecioni, il quale era stato fortemente colpito da alcune tavolette del De Nittis, viste alla «Promotrice» del '64. Dall'unione di questi «scontenti» si costituì il gruppo della cosiddetta Scuola di Resina, che fu battezzata, con ironica catti-veria, Repubblica di Portici, quasi a definirne il carattere rivoluzionario e illegale. Cecioni era portatore della teoria della macchia, che trovò a Napoli, secondo il suo giudizio, in De Nittis e in De Gregorio i piu avanzati e sicuri interpreti di quel linguaggio, che egli giudicava esclusivamente toscano e che invece, attraverso l'ormai accertato ruolo di mediatore dell'Altamura, aveva radici anche napoletane risalendo in parte a Palizzi e addirittura a Gigante.
"Marina con Castel dell'Ovo. Opera autentica. [...] Schizzo del maestro, come era solito fare il folle pittore, volutamente abbozzato e pertanto privo delle caratteristiche vigorose della pittura più nota del grande artista romano/napoletano". Alfredo Avitabile. Titolo: MARINA CON CASTEL DELL'OVO Tecnica e superficie: OLIO SU TAVOLETTA Dimensioni: 16 x 21 cm L'opera è firmata Mancini in basso a destra. Con autentica di Alfredo Avitabile (di cui sopra è riportato un passaggio). La cornice antica è databile alla prima metà del XIX secolo.
Sebbene nato a Roma, Mancini è da considerarsi essenzialmente e solamente creatura del sole di Napoli: per educazione artistica, per atteggiamenti pittorici, per spontaneità plastica, egli è napoletano. Napoli suscitò nella sua anima uno dei sogni più alti e più prodigiosi dell'arte italiana. Anzitutto, a Napoli Mancini fu attratto dalla luce atmosferica che determinò in lui giovanetto, appena iscritto all'Istituto di Belle Arti, la prontezza dell'intuito e la perfetta percezione dei valori tonali. Non diverso da Gemito e da Michetti, già nei primi saggi enuncia i caratteri essenziali di un temperamento artistico di razza e i segni inconfondibili d'un superiore talento.
Nel suo incantato stupore, il giovane Mancini non sapeva spiegarsi come nella città partenopea ogni cosa s'amalgamasse così finemente all'atmosfera, da dare a questa le più squisite e delicate colorazioni. Così nella sua anima sensibile non tardò ad apparire l’impressionista precoce, luminosamente plastico e sobrio. In tal modo, dal 1863-64 fino al 1870-72, ed anche più tardi, il Mancini paesista involontariamente risolve, in intensità di sintesi e di volumi, il problema di una pittura «en plein-air», resa costruttiva ed unitaria nei giochi di luci, di piani, di prospettive. Tra i suoi quadri di figure o ritratti e la sua pittura di paesaggio c'è in comune la necessità sentimentale e poetica dello svolgimento del tema realistico; e c'è qualcosa di intimo e profondo che si rivela attraverso una pittura più contenuta e più ferma, con un sentimento di mestizia raccolta nell’espressione del soggetto umano: generalmente sono i bimbi poveri o malati, o estasiati nella visione di qualche cosa che li attira e che si riflette nel loro sguardo; sono monelli o scolaretti o pretini: quasi sempre gli stessi bimbi e ragazzi della strada che si baloccano con bambole e pulcinelli. Arte senza finalità, senza scopi moralistici educativi o sociali, che ha la purezza delle cose donate senza secondi fini.
A sedici anni Mancini creò il suo primo capolavoro: Lo scugnizzo. Nell’83, appena dimesso dal manicomio — dopo il suo ritorno definitivo da Parigi — ritrovò Mariuccia, la bionda esile modella, con la quale dipinse La preghiera, l’ultimo capolavoro della sua prima fase pittorica che suggellò un lungo periodo di sentimentalità e di bellezza spirituale e patetica. La sua tormentata giovinezza napoletana era stata interrotta da due soggiorni a Parigi insieme con Gemito e Fabron: ne era tornato più povero di prima, disperato e pazzo, ma non «pariginizzato».
Concluso il periodo napoletano del «pittore degli stracci» — come egli stesso amava definirsi —, iniziava una seconda fase, voluminosa e orchestrale, pesante di materialità sonora. Con Il ciociaroMancini dava l'avvio alla sua nuova pittura, ed è significativa l'immagine di quel piccolo mandriano rubizzo e capelluto che si scappella ridendo, con ardito gesto da moschettiere, come in una taverna caravaggesca. Il buon umore selvatico del contadinello si ripercuote nei sensi del pittore che sente intorno aleggiare lo spirito beone di Frans Hals. I valori chiaroscurali che potentemente contraddistinguono il Seicento pittorico napoletano rimanevano sin verso il 1890-95 in Antonio Mancini, che con il sistema del doppio reticolato realizzò il ciclo grandioso delle tonalità squillanti e orchestrali.
La pittura per Mancini fu principalmente un fatto ottico: la materia della sua arte — avrebbe detto Delacroix — era in ciò che pensavano i suoi occhi. Mancini, in definitiva, fu l’anticipatore spontaneo e istintivo di formule e di trovate modernissime, quale quella degli ingredienti estranei alla tavolozza. Attraverso le infinite realizzazioni della sua arte affiorano problemi fugacemente impostati, e in parte non risolti, dalla pittura napoletana di tutti i tempi: espressione di un mondo di sensazioni da lui nutrite e svolte nei modi più imprevedibili.
Di Admin (del 13/05/2013 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 6204 volte)
{autore=viti eugenio} Eugenio Viti mostra di ricongiungersi al nostro seicento. Si è nutrito di esso, ne ha derivato profondità di ombre e succosità di impasti; ma senza smarrire il senso della personalità. Così è moderno, pur dipingendo con saporosità antica: ironico, brutale un poco, efficacissimo. (Efisio Campana. Venezia, 1930)
Autore: EUGENIO VITI (1881 - 1952) Titolo: CONTROLUCE Tecnica e superficie: OLIO SU CARTONE Dimensioni: 16 x 10 cm L'immagine è della stessa grandezza dell'originale L'opera è firmata Eugenio Viti in basso a sinistra. Titolo a tergo.
Eugenio Viti, Napoli 1881 - 1952. Frequenta l'Istituto di Belle Arti di Napoli, allievo di Michele Cammarano. Promotore della "Secessione dei 23", è tra i protagonisti del rinnovamento artistico partenopeo di inizio secolo. Nel corso degli anni Dieci la sua attività si divide fra lavori decorativi, pittura religiosa e dipinti sperimentali (opere "secessioniste"), partecipa anche all'esperienza futurista con gli amici Curcio, Terracina e Uccella. Negli anni Venti e Trenta svolge un'intensa attività espositiva in Italia (Quadriennali romane, Biennali veneziane, personali alla "Pesaro" e alla "Vinciana" di Milano) e all'estero. Nel 1938 tiene una personale al Circolo Artistico Politecnico di Napoli. Memore della tradizione della pittura del Seicento napoletano e della lezione di Mancini e Cammarano, negli anni della "Secessione dei 23" raggiunge eccezionali effetti luminosi. Le sue sperimentazioni cromatiche lo portano alla realizzazione di opere di gusto secessionista; alla fine degli anni Venti partecipa a pieno titolo all'esperienza di "Novecento".
Autore: EUGENIO VITI (1881 - 1952) Titolo: FOGLIE Tecnica e superficie: MATITA SU CARTONCINO Dimensioni: 30 x 45 cm L'opera è firmata Eugenio Viti in basso a sinistra.
La storica importanza di questo pittore della più vecchia generazione del nostro secolo, che ebbe le radici ben radicate nell'Ottocento, consiste nell'essere egli stesso il tramite forse più convinto e pregevole della riforma del Novecento nella cultura artistica del tempo a Napoli. Senza però la spavalderia e le illusorie ambizioni di taluni, e rifacendosi a Cammarano ed ai secentisti, con uno spirito equilibrato ed una passione dell'ordine e della disciplina, tra noi inconsueti. La fermezza stessa e lo smalto del colore, unitamente alla squadrata partitura delle ombre, trattengono ad un certo punto lo slancio creativo, come di chi temesse d'abbandonarsi troppo alla magia dell'ispirazione, e volesse controllarla in uno specchiato ordine metrico, si trattasse di un paesaggio o di una figura, di un nudo o di una natura morta. (Carlo Barbieri. Napoli, 1947)
Di Admin (del 07/05/2013 @ 10:00:00, in dBlog, linkato 1415 volte)
Siamo in silenzio. Col dolore nel cuore per quello che stanno passando i nostri amici e vicini. Una tragedia che ha colpito la nostra città in un giorno di festa. Una tragedia, stavolta, troppo vicina a noi! E' dura dover lavorare in questo stato d'animo. Preghiamo per le famiglie coinvolte.
Negli anni '30 e '40 frequentava la Penisola sorrentina un pittore di ritratti e di paesaggi dall'aspetto bohémien, originale, piuttosto schivo e un pò rude nei modi. Poche persone ultraottantenni lo ricordano, altri, un pò meno anziani, hanno sentito raccontare aneddoti su questo personaggio da familiari o da amici e anch'io sono tra questi. Ha sempre colpito la mia fantasia di adolescente e suscitava in me viva emozione, entrando nella casa di famiglia, un'intera parete tappezzata di quadri di varia dimensione, quasi tutti di media grandezza, raffiguranti, con colori scuri e pastosi, nature morte, paesaggi appena schizzati con tratto indefinito e, predominante su tutti, l'autoritratto del pittore, che, con occhi penetranti e sguardo severo, fissa lo spettatore. In un'altra stanza un ritratto di anziana signora, Margherita Cappiello, che, in posa accanto ad una consolle, esprime serenità e la soddisfazione di essere immortalata sulla tela. L'autore di tante pregevoli opere è Luigi Crisconio, pittore napoletano, ma metese di adozione per molti mesi all'anno, soprattutto nel periodo bellico. Produttore instancabile di tele di ogni dimensione, dipingeva freneticamente durante il giorno e a volte anche di notte, per rispondere a un suo profondo impulso creativo, ma anche per provvedere al suo sostentamento, che non era sempre scontato, nel rispetto della migliore tradizione per gli artisti che non vengono adeguatamente valutati in vita. A questo proposito si racconta che un gruppo di professionisti metesi e sorrentini incoraggiavano la sua produzione acquistando e commissionandogli tele che l'artista eseguiva per lo più nei generi che privilegiava. Erano Luigi Cappiello, Antonino laccarino, Manlio Longobardi, Vittorio Trapani, Raffaele De Martino, Gios Astarita, Raffaele Guida, Salvatore Cacace, Mariano Moresca, i fratelli Cafiero ed altri, tra Meta e Piano, i mecenati di Crisconio, che con la sua cassetta di colori era sempre in giro per le strade, nei giardini, nei cortiletti delle tipiche case metesi, in cerca dei suoi modelli. I temi preferiti e più ricorrenti della sua produzione in penisola sono ritratti di amici, figure femminili riprese di fronte o di profilo, barche nei porticcioli, marine, scolaretti compostamente seduti, ma anche scugnizzi e figli di pescatori, bevitori nelle taverne, artigiani nella loro bottega, nature morte con pesci o frutta, scorci di stradine sotto il sole o in un giorno d'inverno, angoli di aranceti, sagrestie, carrozzelle, carretti. A Sorrento era diventato suo fisso accompagnatore il giovanissimo Domenico Fiorentino, oggi affermato pittore ottantacinquenne. L'incontro con Luigi Crisconio fu casuale e Mimì, che aveva solo diciassette anni, cominciò a seguirlo passo passo nelle stradine e nelle campagne sorrentine, dove sostavano scegliendo angoli e scorci suggestivi, che spesso dipingevano insieme. Fiorentino, con un sorriso e tanta nostalgia, ricorda lucidamente di aver frequentato Crisconio dal luglio 1939 fino al 1946. Il pittore napoletano a Sorrento era ospite della pensione Zì Teresa, nel quartiere di Marano, e il giovane Domenico, che abitava lì accanto, lo conobbe frequentando la famiglia Galano che gestiva il piccolo albergo. Questo occupava in quegli anni un suolo del fondo Rubinacci, dove oggi c'è Viale Nizza (uno dei ritratti di Crisconio rappresenta Bebè Rubinacci, evidentemente conosciuto sul posto). Sul soggiorno di Luigi Crisconio alla Zì Teresa circola un gustoso aneddoto: pare che il pittore si allontanò dalla pensione senza preavviso, lasciando lì una cassa piena di tele e tavolette dipinte. Non essendosi fatto più vivo, la padrona usava i quadri come ventagli per alimentare il fuoco e, quando le tavole erano irrimediabilmente annerite, finivano bruciate. È facile immaginare lo stupore e la rabbia della signora Galano quando un mercante d'arte di passaggio le disse che quelle tele avevano un discreto valore, ormai andato in fumo. A Sorrento i luoghi preferiti per dipingere erano il borgo di Marina Grande, i ruderi del convento di S. Renato, la strada che costeggia il museo Correale nell'angolo prospiciente il mare. Spesso Crisconio e Fiorentino si fermavano nel chiostro di S. Francesco, dove incontravano il professore Roberto Pane, all'epoca preside dell'Istituto d'Arte; poi giravano per i paesi limitrofi, specialmente a Meta, dove Crisconio trovava molti spunti creativi. Domenico Fiorentino parla con entusiasmo di quel periodo, in cui era avido di apprendere nuove tecniche, e mostra orgoglioso la cartolina che il pittore gli inviò da Sant'Angelo dei Lombardi, nel settembre del 1942, per chiedergli informazioni su un alloggio che voleva prendere in fitto a Sorrento in Piazza Tasso. L'artista lo incitava sempre ad esercitarsi nel disegno dal vero, e la copia a carboncino di una testa di Bruto fu un lavoro molto apprezzato da Crisconio, che vi apportò qualche modifica di propria mano, controfirmando il disegno custodito con cura da Fiorentino. Ma cerchiamo di sapere qualcosa in più su Luigi Crisconio, pittore stravagante che aveva scelto la penisola come una delle mete preferite per le sue scorribande artistiche, oltre a Capri, Ischia, Positano, Amalfi, Ravello e in estate l'Irpinia. Era nato a Napoli il 25 agosto 1893 da una famiglia borghese. Suo padre Francesco gestiva, nella centrale Piazza della Borsa allora appena inaugurata, un negozio di cartoleria dove il giovane Luigi, già allievo dell'Accademia, si sentiva prigioniero e passava lunghe ore dipingendo furiosamente ogni persona o cosa che gli capitava a tiro. A 18 anni rimase orfano di padre e, insieme alla madre Anna Calise, originaria di Seiano, divenne titolare del negozio. Tra i due vi furono continui conflitti nella gestione della cartoleria, che ben presto fu chiusa per la profonda insofferenza del giovane Luigi che voleva solo dipingere e si ribellava agli stereotipi onorevoli e borghesi che la madre sognava per lui. In più, le amicizie della signora Anna (come Vincenzo Serpone, pittore e attore noto all'epoca negli ambienti artistici cittadini) avrebbero dovuto introdurre il figlio nei salotti della Napoli bene. Lì sarebbe stato un rispettato professore di pittura e un ritrattista alla moda, con lo studio pieno di velluti, tappeti e altre cianfrusaglie esotiche che D'Annunzio aveva lanciato nello stile dell'arredamento. Le idee di Crisconio erano però diametralmente opposte a quelle della madre e rigettavano ogni regola di apparenza e convenzioni borghesi, al punto che gli scontri con la signora Anna furono violenti ed insanabili fino alla morte. L'artista con i baffoni neri, il naso adunco, l'occhio di fuoco dallo sguardo penetrante, le grosse scarpe sempre infangate, il cappello calato sugli occhi, l'andatura guardinga e un pò felina era anticonformista, ironico, insofferente dei difetti della società in cui viveva, anelante alla libertà e all'indipendenza. Aveva accettato un pò a malincuore di iscriversi ai corsi di pittura dell'Istituto di Belle Arti e, nonostante la sua scarsa considerazione per la pittura ufficiale, nutrì una grande ammirazione per il vecchio pittore Michele Cammarano, forse anche perché questi era estraneo al giro governativo della pittura italiana e poco considerato dalla critica ufficiale. Quando Crisconio, ormai diplomato all'Accademia, presentò un nudo alla Biennale di Venezia, il suo lavoro fu respinto e per molte settimane questa cocente delusione gli impedì di lavorare, provocandogli una violenta crisi di nervi che lo spinse a distruggere il dipinto incriminato. Non si dimentichi, però, che anche una raccolta di opere di Cézanne (28 per l'esattezza), presentata nel 1920 all'esposizione veneziana, era stata ignorata dalla critica italiana. Dopo quell'esperienza, Crisconio finì per non dare più importanza al responso delle giurie o agli inviti alle esposizioni, così importanti per altri pittori, assumendo nei riguardi di queste competizioni un atteggiamento di ironia e distacco. Ma perché Crisconio non trovava nell'ambiente artistico-culturale del suo tempo la valutazione che pienamente gli era dovuta? E non parliamo solo di Roma, Milano o Venezia, ma di Napoli, città in cui nacque e lavorò tutta la vita. Paolo Ricci, nel 1964, così scrive: «Generalmente l'atteggiamento di diffidenza, spesso venato di ironia, verso l'opera crisconiana nasce da un curioso complesso di superiorità, di tipo avanguardistico e provinciale, comune, ai giorni d'oggi, alla maggior parte della critica ufficiale, e al personale propagandistico del mercato d'arte. Com'è noto, questa critica considera semplicemente inesistente ogni espressione d'arte non rispondente ai canoni estetici del prodotto mercantile alla moda». Inoltre, aggiunge lo stesso critico, «in quel momento storico, in cui i valori estetici sono condizionati e falsati dalle esigenze del mercato, possiamo comprendere meglio perché Crisconio, artista che non propone soluzioni figurative stravaganti, essendo anzi legato alla figuratività più schietta, rispettando scrupolosamente la visione del reale quale si è configurata da Caravaggio a Cézanne e Picasso, diventa un artista di rottura e anticonformista. Crisconio è solo un pittore autentico, sincero, appassionato, costantemente impegnato nel senso di un'alta coscienza morale e civile, lontano da ogni forma di accademismo e di maniera. Egli tende alla costruzione dell'oggetto aderendo alla tradizione secentista meridionale, a Micco Spadaro. Non si può negare l'influenza che sulle sue opere giovanili ebbero la scuola di Posillipo e quellaPorticese, ma Crisconio preferiva istintivamente l'aperta, inquieta e libera ricerca realistica». Lo stesso Ricci, nel suo saggio, osserva che per analoghi motivi la cultura ufficiale italiana per decenni ha rifiutato Raffaele Viviani e il suo teatro. I rappresentanti della pseudocultura fascista, infatti, furono incapaci di cogliere il sapore acre e pungente del realismo vivianesco, così come non compresero il linguaggio popolare di Crisconio, che usciva fuori dagli schemi convenzionali e folkloristici delle scuole regionali. Entrambi gli artisti, rimanendo fedeli alla realtà umana di Napoli, nella coscienza della universalità di quelle condizioni di vita, crearono opere singolari con un forte potere di rottura. Ma torniamo agli estimatori autentici di Crisconio. A Napoli un gruppo di intellettuali si riuniva abitualmente al Caffè Gambrinus intorno a Paolo Ricci e un giorno qualcuno raccontò di un pittore sconosciuto che aveva allestito una mostra in alcuni scantinati della Via dei Mille. Si era nel 1926, i gusti pittorici erano tutti presi da Cézanne e Picasso e grande era lo scetticismo per la pittura locale. Alcuni, incuriositi, decisero di andare a vedere l'esposizione e furono colpiti dalla forza ed originalità di quei dipinti dai toni un pò cupi, in cui la rappresentazione dei dati reali seguiva una precisa impostazione volumetrica. Le pennellate brevi, corpose, verticali, costruivano l'immagine con energia e potenza chiaroscurale, esaltando trionfalmente il colore. La tavolozza di Crisconio variava tra le terre, i bruni intensi, i neri e gli azzurri cupi e profondi. Sua modella esclusiva dal 1927 fu Elisa, i cui nudi espressivi egli dipingeva "illegalmente", in quanto la relazione era osteggiata dalla madre e da alcuni amici che si erano proposti un'azione moralizzatrice nei riguardi dell'artista. Ma dopo duri scontri con la madre, il pittore nel 1936 sposò Elisa Amato, con la quale andò ad abitare a Portici, dove la signora Anna già risiedeva. A causa della difficile coabitazione si fecero più frequenti i soggiorni in Irpinia (a Sant'Angelo dei Lombardi, specie in estate), poi in Sicilia, a Venezia e soprattutto in Penisola sorrentina (anche se prediligeva Meta, non disdegnava puntate a Capri, Amalfi, Ravello e Positano). E qui senza sosta dipingeva paesaggi e faceva ritratti di notevole qualità ai suoi amici che erano con lui sempre prodighi di ospitalità. In Penisola i seguaci di Crisconio erano soprannominati "i pagani", in riferimento alla loro laicità e alle simpatie per i temi sociali e politici "di sinistra", li si poteva vedere spesso intrattenersi nello storico Caffè Marianiello, in Piazza Cota a Piano di Sorrento. I quadri, che alcune famiglie metesi e sorrentine conservano con cura, trattano i temi più ricorrenti di Crisconio, quelli familiari e affettivi, quelli di protesta e di denunzia. Elisa è colta in ogni atteggiamento, scrutata, analizzata, a volte con rabbia, a volte con classica serenità, che raramente l'animo inquieto di Crisconio raggiungeva. Poi ci sono i ritratti degli amici, dei bambini del popolo, degli artigiani al lavoro (un fabbro in particolare suscita la sua ammirazione), le vedute, le carrette coi cavalli che scalpitano, le nature morte in cui frequentemente compaiono pesci; quasi sempre è presente un suo autoritratto con gli occhi vivaci e fulminanti. I colori: giallo acceso, rosso bronzeo, toni brillanti che si fondono nel sole, usati con un linguaggio pittorico liberissimo, impetuoso, sapiente, proprio dell'uomo sanguigno, tormentato, alla continua ricerca di un equilibrio interiore ed estetico. La produzione napoletana e porticese denuncia la sua costante ricerca e sensibilità per i temi sociali: lo studio dove Crisconio lavorava a Napoli aveva un balcone che affacciava su una fabbrica di tabacchi, in una traversa del Rettifilo. Era la Napoli "interna", definita da Matilde Serao "la città dietro il paravento del Risanamento". Infatti la facciata squallida di quella fabbrica fa da sfondo a molte figure dipinte dal 1924 al 1934, anno in cui lasciò Napoli per Portici. Qui abitò una casa che affacciava sul mare, verso il Granatello, luogo che divenne uno dei motivi ricorrenti nella sua produzione. Purtroppo la sua pittura tumultuosa, dove i colori erano buttati con violenza sulla tela, era un genere impossibile per il mercato napoletano di allora e le sue opere trovavano amatori per lo più nella media borghesia, a cui le cedeva a poco prezzo. Spesso Crisconio si lamentava di non avere abbastanza tempo per dedicarsi alla sua pittura preferita, quella tumultuosa, in cui trovava pace alle sue inquietudini e tregua alle sue amarezze, perché obbligato alla produzione di scene di genere che non rispondevano alla sua natura, ma erano più commerciabili. Sebbene ufficialmente non sia stato considerato tale, Crisconio fu protagonista assoluto della pittura napoletana dal 1920 al 1946, quando a soli 54 anni improvvisamente morì a Portici, per congestione cerebrale. Era il 27 gennaio e scompariva dalla scena napoletana un artista significativo che purtroppo ebbe una vita difficile; aveva sempre seguito la sua ispirazione, ma spesso la malediceva perché gli aveva complicato l'esistenza e alienato l'affetto della madre, che lo accusava di aver ridotto la famiglia alla povertà. Dopo la morte ricevette da parte della critica quell'attenzione che non aveva ricevuto in vita. Seguì un altro periodo di oblio, ma negli ultimi decenni del Novecento fu rivalutato e considerato da alcuni come il più grande pittore napoletano del XX secolo. Su uno dei siti Internet dedicati a Luigi Crisconio si legge che nel 1926 tenne la sua prima mostra personale a Milano, a cui ne seguirono altre in diverse città. Nel 1946 se ne contano parecchie a Napoli, ma la più importante e ricca fu certamente quella del 1964, voluta dalla Società Promotrice di Belle Arti "Salvator Rosa", dove furono esposte ben 221 opere, dalle prime esperienze agli ultimi anni. Sul già citato catalogo della mostra scrisse anche Renato Guttuso, che così definisce il nostro pittore: «Crisconio è una voce di cui va dato conto nella pittura dei primi quaranta anni di questo secolo, una voce più forte di altre, più pura e più vera, anche se non fu futurista, metafisico o altro, ma solo un vero pittore, legato agli uomini che conosceva, alla terra, alle cose, al paesaggio che conosceva».
Allievo del padre Giuseppe, esordisce nel 1920 all’Esposizione d’Arte Giovanile di Napoli e alla I Biennale di Roma, svolgendo da allora un’intensa attività espositiva in Italia e all’estero, partecipando a sei edizioni delle Biennali veneziane tra il 1934 e il 1948, a tutte le mostre del Sindacato fascista, nonché alle Quadriennali romane. Inizia la sua attività come paesista, indagando gli aspetti meno oleografici della città, con pennellate rapide e vibranti che gli permettono di raggiungere esiti espressionistici e antigraziosi, non immemori, poi, della lezione di un De Pisis o di un Crisconio. Oltre ai paesaggi, moderni per taglio e tavolozza, sono da ricordare anche le sontuose nature morte, dai colori densi e brillanti. (Novecento Italiano 1998/1999 De Agostini)
Autore: GUIDO CASCIARO (1900 - 1963) Titolo: BAIA Tecnica e superficie: OLIO SU TAVOLA Dimensioni: 50 x 60 cm Anno: 1930
A tergo si legge un cartiglio recente (in sostituzione dell'originale deteriorato) che vi indica l'esposizione alla Prima Quadriennale di Roma del 1931. Questa notizia è confermata sulla monografia "Guido Casciaro" curata da Rosario Caputo di Vincent Edizioni nel 2006 che cita testualmente: "[...] E' ovvio che il vero vantaggio di distinguersi alle Biennali di Venezia e quello di appartenere al Sindacato degli Artisti, consisteva prevalentemente nell'opportunità di poter esporre o essere invitati alle Quadriennali romane [...]. Come detto, Casciaro partecipò alle prime quattro edizioni: alla I Quadriennale del '31, presentò un olio intitolato Baia [...]"
Guido Casciaro, nato a Napoli nel luglio del 1900 dal geniale pastellista Giuseppe, fin dall’infanzia rivelò la sua precoce inclinazione all’arte; e se nelle opere giovanili è ancora visibile l’influenza degli insegnamenti paterni, a partire dalla metà degli anni venti egli se ne discostò, cercando un linguaggio autonomo. Guido infatti, pur mantenendo vivi i legami con la tradizione pittorica partenopea di cui sono prova i dipinti di grande formato che si pongono nelle solida linea pittorica del Seicento con ricchi impasti e luci penetranti e pur risentendo l’influenza della scuola di Portici e negli anni della maturità di pittori come Antonio Mancini e Michele Cammarano, seppe approfondire gli esiti della pittura post-impressionista e in particolare quella di Paul Cezanne e Claude Monet . Ben presto egli iniziò ad esporre in tutta Italia, partecipando a numerose edizioni delle Biennali veneziane (dal 1934 al 1948) e alle Quadriennali romane (dal 1931 al 1943) nonché a numerose mostre organizzate con il Gruppo Flegreo che egli stesso fondò nel 1927 insieme ad altri artisti (Leon Giuseppe Buono, Giovanni Brancaccio, Vincenzo Ciardo, Francesco Galante, Vincenzo Irolli, Biagio Mercadante, Luca Postiglione, Gennaro Villani, Eugenio Viti ed altri ancora; tra i soci onorari Vincenzo Gemito, Antonio Mancini, Achille D’Orsi e Lionello Balestrieri) e il cui testo di lancio redatto dallo stesso Guido sottolineava tra le finalità del gruppo quella di “ …fiancheggiare tutto ciò che di buono voglia farsi in favore dell’arte napoletana”. Durante gli anni Trenta prese parte alle importanti mostre d’arte italiana all’estero (Praga, Varsavia 1934 - Cracovia, Sofia, Bucarest e Bruxelles 1935 - Varsavia, Helsinki, Knaus, Riga, Tallin e San Paolo del Brasile 1937 - Tokio e Rio de Janeiro). Espose anche a tutte le Sindacali della Campania, facendo in alcune parte della giuria nonché alle tre Intersindacali di Firenze, Napoli e Milano. Dal 1945 continuò la sua attività espositiva in ambito nazionale e fu anima operativa e generosa del Gruppo del Vomero .
"Scelse soggetti antidecorativi per eccellenza: scene urbane, fabbricati e strade in costruzione, cantieri, baracche, indagando gli aspetti meno oleografici della città e raggiungendo con pennellate rapide e vibranti esiti espressionistici. Paesaggi moderni per soggetto e materia pittorica, documenti preziosi di una città che rapidamente mutava in ordine alle nuove esigenze di espansione." (Mariantonietta Picone Petrusa) (fonte: vincentgalleria.it)
GIUSEPPE CASCIARO. Ortelle (Lecce), 9 marzo 1863 — Napoli, 20 ottobre 1945.
Allievo di Lista, Palizzi e Morelli all Accademia napoletana, ebbe legami di amicizia con Mancini, Michetti e Dalbono, avvertendone l'influenza pur nella personale grafia del colore arruffato (segnatamente nel pastello, la tecnica che predilesse) del suo paesismo naturalistico. La produzione abbondantissima (oltre 4000 i soli pastelli) e agevolmente reperibile ha mercato nazionale, per tempere e pastelli di qualità, da 2.500.000 lire a 6/8 milioni, raramente oltre per opere d insolito impegno. I più accurati oli di dimensioni medie e grandi costano da 6/8 a 15/20 milioni. Particolare cautela va posta nell'acquisto dei pastelli più confusi (reperibili a prezzi anche intorno al milione), per i quali esiste un fiorente artigianato della contraffazione. All'artista è stata dedicata una retrospettiva a Milano (Centro «Cultura e Costume», ottobre 1984). Record d'asta per l'autore: un grande olio del 1917 ha ottenuto 25,3 milioni in una vendita romana del marzo 1992. Da "IL VALORE DEI DIPINTI DELL'OTTOCENTO E DEL PRIMO NOVECENTO" X Edizione (1992-93), Umberto Allemandi & C. Editore
Salvatore di Giacomo: ”Disegni di ogni sorta di atteggiamenti, d'ogni più suggestivo ornamento di colore, d'ogni verità e d'ogni gentilezza hanno percorso in que' conosciuti pastelli, d'una grazia e d'un sapore da nessuno più superati, migliaia di tele, in ognuna delle quali è sempre una musica e un profumo. E questa colorita melodia da per tutto aleggia, or triste, or tenera e dolce. Ora s'intona all'asprezza delle rupi e ai sibili della tempesta, ora modula, tra quelle macchie e que' contorni dalle più delicate sfumature, come una languida arietta del bel secolo metastasiano. Un pastello di Casciaro ha del Bach e del Mozart; e talvolta è tragico e profondo, anche, come una commossa voce beethoveniana. Quest'eleganza è deliziosa: questo spirito, questo gusto son rari: questa forza piacevole e sicura, non vi opprime ma vi trascina. E la voce di questo adorabile artista ha tutti gli accenti: e ha la foga e il sospiro, l'impeto e la tenerezza, un grido e un sussurro...”
Di Admin (del 28/03/2013 @ 00:00:01, in Auguri, linkato 2742 volte)
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Scuola italiana del XVII secolo, "Crocifissione", olio su tela 47 x 39 cm
AUGURI DI BUONA PASQUA
Il dipinto proposto in immagine è stato acquistato in un asta diversi decenni orsono. E' corredato da una lettera dell'epoca che paragona questa con altre opere analoghe di Guido Reni. Di seguito la copia della lettera e a seguire la trascrizione leggibile della stessa:
Acquistato da Roberto Negrini di via Fondazza: olio su tela 39x47 cm. Il dipinto è rintelato ai bordi, forse per guadagnare il massimo la tela. Proviene dall’asta ADMA dove era citato come “Maestro italiano del XVII secolo”. Porta dietro, sul telaio in alto, un sigillo di ceralacca di collezione (era protetto con trasparente), applicato – nel mezzo così sembra - nella carta vecchia, utilizzata per coprire il legno del telaio, e forse applicato al tempo della rintelatura. Il timbro è in parte rovinato: su quello che resta si potrebbe leggere le iniziali “M H” intrecciate. Il dipinto mostra la “Crocifissione”, con il Cristo in Croce e ai suoi piedi la Maddalena inginocchiata, e ai lati la Madonna e San Giovanni. Il tema è antico, ma in questa disposizione appare nel Seicento in raffigurazioni italiane e straniere. Di Scuola Italiana celebre è la raffigurazione di Guido Reni (1575 – 1642), meglio nota come “Crocefisso dei Cappuccini” (397 x 266 cm), ora nella Pinacoteca Nazionale di Bologna (vedi n°79 del Catalogo su G. R. dei Classici d’Arte Rizzoli): è datata al 1616. [Il Reni ha ripetuto il tema, senza la Maddalena (“Crocefisso fra la Madonna e San Giovanni”, n°133 Catalogo Rizzoli, e n°32 nel Catalogo Mostra su G. R. di Bologna 1954), con il solo Cristo in Croce, o la sola testa del Cristo, della Maddalena e di San Giovanni (vedi): la raffigurazione n°32 nel Catalogo su G. R. del 1954 è ritenuta, anziché una replica, un lavoro autonomo (vedi): inoltre, su questa iconografia, la Crocifissione è stata ripetuta in numerose immagini dal ’600 ad oggi]. Un’altra “Crocefissione” di Maestro seicentesco bolognese è quella del Guercino (Giovanni Battista Barbieri, 1591 – 1666) della Chiesa del SS Rosario di Cento (vedi n°19, “Omaggio al Guercino”, Pinacoteca Comunale di Cento, 1967. La raffigurazione è molto simile a quella del Reni: diversi, la disposizione di San Giovanni e gli atteggiamenti della Madonna e San Giovanni. Altre raffigurazioni di Scuola italiana del ‘600 (Carracci, del Reni, … ) della Crocefissione si discostano da quella.. Di Scuola italiana, una raffigurazione seicentesca che si avvicina a quella del Reni, è la “Crocefissione” del Louvre (vedi n°150 del Catalogo Grande su A. van Dyck dei Classici d’Arte Rizzoli) attribuita ad una collaborazione P. P. Rubens (1574 – 1640) e A. van Dyck (1599 – 1641): è datata agli anni 1616 – 1617. [Anche Rubens e van Dyck ripeterono la “Crocefissione” con iconografie diverse, totali o parziali, ed è noto che van Dyck copiò spesso i quadri di Rubens]. Entrando ora in merito a questo dipinto, si può anzitutto osservare come la Madonna e San Giovanni (la Maddalena si vede solo di schiena) abbiano uno sguardo più “dolce e mediterraneo” rispetto agli stessi personaggi dipinti dai pittori fiamminghi di cui sopra. Anche la figura del Cristo è più “nostrana” e non presenta “l’eleganza e la flessuosità” del Cristo dei fiamminghi, specie di van Dyck. A forme di Rubens – van Dyck potrebbero essere le mani intrecciate della Madonna (che si riscontrano nei dipinti di questi autori – vedi i Cataloghi) ma questo non è un elemento discriminatorio in quanto il San Giovanni della “Crocefissione” n°133 Catalogo Rizzoli del G. Reni ha pure le mani intrecciate, in un atteggiamento simile a quello assunto dalla Madonna in questo quadro. Queste preliminari considerazioni escluderebbero l’origine di un autore “d’oltralpe” per il dipinto in questione, e si accorderebbero con la stima del Catalogo di vendita (Maestro italiano del XVII secolo). Fra i pittori italiani del ’600 sopracitati (Reni, Guercino), le seguenti considerazioni propendono per il Reni o Scuola.
La raffigurazione “manca” di quella “precisione ed eleganza” della “Crocefissione” del Guercino.
Lo sguardo della Madonna e di San Giovanni si accordano con quelli dell’“Addolorata” (n° 79 Catalogo Rizzoli) e di “San Giovanni (Evangelista leggente)” (n°XXXII Catalogo Rizzoli) di Guido Reni.
Il Cristo in Croce non ha la “luminosità” del Cristo in Croce nelle diverse raffigurazioni del Reni (n°193, 196 e 197 del Catalogo Rizzoli) ma ha tonalità brune e una luce fioca e sommersa, giocata sul contrasto dell’alone di fondo. Inoltre, il Cristo non è visto di fronte, come nelle raffigurazioni di cui sopra, ma di fianco, e assume pertanto una corposità che è assente nelle raffigurazioni di cui sopra, e meglio si accosta al Cristo della “Flagellazione” ((n°212 del Catalogo Rizzoli) e al Cristo “Crocefisso…” (XV dello stesso Catalogo).
L’alone luminoso dietro la Croce e attorno al capo di Cristo si accorda con quello del “Crocefisso fra la Maddalena e San Giovanni” (n°133), il “Crocefisso” (n°193 e 197) e il “Crocefisso con i Santi Caterina d’Alessandria e Giulio (XV del Catalogo Rizzoli).
Il craquelé, presente su tutta la tela, sottile e diffuso, è molto simile a quello presente nella tavola a colori LII, riproducente un particolare della “Circoncisione” (n°172 Catalogo Rizzoli) del Guido Reni.
Il panneggio dei personaggi si accorda con quello di “Fanciulla con corona” (n°210 e tavola LXIV) e con quello del pastore che si copre gli occhi e la Madonna nella tavola a colori LX del particolare dell’”Adorazione dei Pastori” (n°201° Catalogo Rizzoli su Guido Reni). Anche i colori sono simili.
A favore del Reni sta anche il fatto che il pittore eseguì nel suo ultimo periodo alcune opere, meglio note come “bozzi” (in quanto ritenute originariamente incomplete), perché eseguite con pennellata veloce e sommaria, così come è anche in questo dipinto. Esse sono riprodotte e descritte ai n°61, 62, 63, 64, 65, 66 del Catalogo della mostra del 1954, e inoltre ai n°212, 213, 214 del Catalogo Rizzoli. Alcune di esse (n°67, 213 e 214) furono dipinte per il conte Marcantonio Hercolani di Bologna (vedi n°213). Potrebbe allora essere anche questo dipinto un’opera di Guido Reni dipinta per lo stesso conte, ed essere le lettere “M H” intrecciate del timbro di ceralacca le iniziali del nome e cognome? La fattura rapida del dipinto, i tocchi magistrali di colore luminoso, i caldi bruni, il rapporto tonale tra figura e fondo, si accordano con le opere tarde del Reni. Pertanto un’attribuzione a Guido Reni o Scuola va approfondita.
Rèni, Guido. - Pittore (Bologna 1575 - ivi 1642). Tra i maggiori artisti del tempo, molto apprezzato dai contemporanei, operò a Roma, a Napoli ma soprattutto nella sua città natale. Vicino al classicismo carraccesco seppe darne un'interpretazione personale e controllata, che al di là dello studio dei classici lascia intravedere un reale apprezzamento della corposità barocca, all'interno di una struttura elegante e rigorosa e di un altissimo uso del colore.
Vita e opere.Allievo del pittore fiammingo D. Calvaert (1585-94), entrò poi nell'Accademia dei Carracci. Nelle prime opere (Incoronazione della Vergine, Bologna, Pinacoteca Nazionale) si nota ancora l'insegnamento di Calvaert, insieme all'influsso di Annibale e Ludovico Carracci. Dopo un periodo di collaborazione con l'Accademia (Resurrezione, 1596-97, Bologna, S. Domenico), se ne allontanò ponendosi in aperto contrasto con L. Carracci e raggiungendo una rapida affermazione personale (affreschi in palazzo ex Zani, 1598; Madonna con s. Domenico e i misteri del Rosario, 1598-99, santuario di S. Luca; Assunzione, 1599-1600, Cento, parrocchiale). Nel 1601 fu chiamato a Roma dal card. P. E. Sfondrato, per eseguire dipinti in S. Cecilia (Martirio della santa e Incoronazione dei ss. Cecilia e Valeriano); rimase nella città con brevi interruzioni fino al 1614 (decorazione del chiostro di S. Michele in Bosco a Bologna, 1603-04), e vi tornò nel 1621 e nel 1627. Qui arricchì le proprie esperienze, fino a porsi in confronto con Caravaggio (Crocifissione di s. Pietro, 1604-05, Roma, Pinacoteca Vaticana; SS. Pietro e Paolo, Brera; David e Golia, Louvre): l'uso di soluzioni caravaggesche viene fuso ed equilibrato nello stile personale e idealizzante dell'artista.
Dal 1608 iniziò l'attività per la famiglia Borghese a Roma, per tramite del Cavalier d'Arpino (affreschi nella Sala delle nozze Aldobrandini e nella Sala delle Dame in Vaticano; S. Andrea condotto al martirio, 1609, S. Gregorio al Celio; dipinti nella cappella dell'Annunciata, 1609-10, palazzo del Quirinale; decorazione della cappella Paolina, 1610-12, S. Maria Maggiore; L'Aurora, 1613-14, casino di palazzo Rospigliosi), continuando nel frattempo ad assolvere commissioni bolognesi (Strage degli innocenti, 1610, Bologna, Pinacoteca Nazionale). A Bologna R. si affermò come il maggiore artista del tempo, dando un'interpretazione personale del classicismo carraccesco basata sullo studio di Raffaello, Correggio, Veronese e guardando a Rubens e alla scultura contemporanea, con opere caratterizzate dalla struttura elegante e serrata e dal magistrale uso del colore (S. Domenico in gloria, 1613-14, S. Domenico; Pietà per la chiesa dei Mendicanti e Crocifissione per la chiesa dei Cappuccini, ambedue nella Pinacoteca Nazionale; Assunzione, 1616-17, Genova, S. Ambrogio o chiesa del Gesù; Gesta di Ercole, 1617-21, Louvre). Dal terzo decennio R. introdusse nei suoi dipinti l'uso di una luce argentea e di toni chiari e preziosi (Annunciazione e Consegna delle chiavi, 1620-26, Fano, S. Pietro in Valle; Trinità, 1625, Roma, Ss. Trinità dei Pellegrini). Per tramite del card. B. Spada eseguì il Ratto di Elena (1629, Louvre) per Maria de' Medici; del 1631 è la Pala della peste (Bologna, Pinacoteca Nazionale) e del 1635-36 il S. Michele Arcangelo in S. Maria della Concezione a Roma. Le ultime opere presentano una pennellata libera e sfaldata e un aspetto abbozzato, solo in parte dovuto a un'effettiva assenza di finitura causata dalla morte dell'artista (Madonna con Bambino e s. Giovannino, Firenze, coll. R. Longhi; Cleopatra, Roma, Pinacoteca Capitolina).
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Dibattito (18.30-19.00)
Su“ La Scuola di Resina”
"Non è che l'epoca nostra abbia inventato il paesaggio, noi non abbiamo inventato nulla in arte, ma essa vi ha scoperti e perfezionati due lati, che possono dirsi interamente moderni, vale a dire l'esecuzione più giusta e più simile alla verità, e il sentimento della natura, cioè un soggetto, spesso importante quanto un quadro storico, espresso dalla campagna".
FrancescoNetti,Scritti critici, antologia a cura di Lucio Galante, De Luca editore, Roma 1980
"Gli artisti della scuola di Resina sono legati da un giuramento di fratellanza ed esercitano un'arte indipendente, puramente veristica e realistica tendente alla vera manifestazione semplice del vero nelle sue svariate forme senza orpello e transizioni."
G. Vittori, I migliori artisti nella XXIX Esposizione della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, in "Natura ed Arte, III, 15 luglio 1894
“ […] gli esponenti principali del sodalizio […] misero in pratica un nuovo modello di paesaggio. La natura non è solo percezione di luce e colore ma osservazione di un mondo rurale schietto e puro.[...]
Gli artisti dipingevano all’aria aperta, su piccole tele, scegliendo visuali insolite di stradine di campagna e lontane dalla città, selezionando punti di vista anticonvenzionali del paesaggio meridionale.”
Luisa Martorelli, Il nuovo paesaggio della Scuola di Resina, in Il giornale dell'arte.com, 18 dicembre 2012
“Gli facevo osservare (al giovane Dalbono. ndr) che tutto in natura è distinto, ben fatto, scrupolosamente finito; e quindi un quadro deve avere aspetto calmo e gentile, semplicità di fattura e nessuna bravura.”
Adriano Cecioni,Opere e scritti, l'Esame, Milano, 1932
ARTISTI IN ESPOSIZIONE: Luigi Crisconio, Goffredo Godi, Errico Placido, Michele De Stefanis, Luigi Sannino, Carmine Arnese, Alfredo De Martino, Luigi Nodini, Luigi Ciancia, Armando De Lauzieres, Giuseppe Gargiulo, Giuseppe Romano
ECIANCIA, ANTONIO DI ROSA (accanto alla sua opera), SALVATORE MARCIANO, MARIO RICCIARDI, LAURA CRISTINZIO
Sono state esposte opere dei seguenti artisti porticesi:
LuCa (Luigi Castellano), Carlo Montarsolo, Giovanni De Vincenzo, Alfonso Marquez, Bruno Galbiati, Mario Buonoconto, Laura Cristinzio, Antonio Fomez, Antonio Napoletano, Antonio Siciliano, MRi (Mario Ricciardi), Paolo Iacomimo, Antonio Di Rosa, Eciancia (Edoardo Ciancio), Franco Maione, Alfonso Sacco, Umberto Piezzo, Mario Colaps, Giuseppe Zollo, Giovanni Ricciardi, Ornella De Martinis, Francesco Manes, Mario D’Albenzio, Ciro Paolillo, Franco Porcasi
Un rigraziamento particolare agli artisti e ai collezionisti che ha reso possibile l'evento