Sebbene nato a Roma, Mancini è da considerarsi essenzialmente e solamente creatura del sole di Napoli: per educazione artistica, per atteggiamenti pittorici, per spontaneità plastica, egli è napoletano. Napoli suscitò nella sua anima uno dei sogni più alti e più prodigiosi dell'arte italiana. Anzitutto, a Napoli Mancini fu attratto dalla luce atmosferica che determinò in lui giovanetto, appena iscritto all'Istituto di Belle Arti, la prontezza dell'intuito e la perfetta percezione dei valori tonali. Non diverso da Gemito e da Michetti, già nei primi saggi enuncia i caratteri essenziali di un temperamento artistico di razza e i segni inconfondibili d'un superiore talento.
Nel suo incantato stupore, il giovane Mancini non sapeva spiegarsi come nella città partenopea ogni cosa s'amalgamasse così finemente all'atmosfera, da dare a questa le più squisite e delicate colorazioni. Così nella sua anima sensibile non tardò ad apparire l’impressionista precoce, luminosamente plastico e sobrio. In tal modo, dal 1863-64 fino al 1870-72, ed anche più tardi, il Mancini paesista involontariamente risolve, in intensità di sintesi e di volumi, il problema di una pittura «en plein-air», resa costruttiva ed unitaria nei giochi di luci, di piani, di prospettive. Tra i suoi quadri di figure o ritratti e la sua pittura di paesaggio c'è in comune la necessità sentimentale e poetica dello svolgimento del tema realistico; e c'è qualcosa di intimo e profondo che si rivela attraverso una pittura più contenuta e più ferma, con un sentimento di mestizia raccolta nell’espressione del soggetto umano: generalmente sono i bimbi poveri o malati, o estasiati nella visione di qualche cosa che li attira e che si riflette nel loro sguardo; sono monelli o scolaretti o pretini: quasi sempre gli stessi bimbi e ragazzi della strada che si baloccano con bambole e pulcinelli. Arte senza finalità, senza scopi moralistici educativi o sociali, che ha la purezza delle cose donate senza secondi fini.
A sedici anni Mancini creò il suo primo capolavoro: Lo scugnizzo. Nell’83, appena dimesso dal manicomio — dopo il suo ritorno definitivo da Parigi — ritrovò Mariuccia, la bionda esile modella, con la quale dipinse La preghiera, l’ultimo capolavoro della sua prima fase pittorica che suggellò un lungo periodo di sentimentalità e di bellezza spirituale e patetica. La sua tormentata giovinezza napoletana era stata interrotta da due soggiorni a Parigi insieme con Gemito e Fabron: ne era tornato più povero di prima, disperato e pazzo, ma non «pariginizzato».
Concluso il periodo napoletano del «pittore degli stracci» — come egli stesso amava definirsi —, iniziava una seconda fase, voluminosa e orchestrale, pesante di materialità sonora. Con Il ciociaro Mancini dava l'avvio alla sua nuova pittura, ed è significativa l'immagine di quel piccolo mandriano rubizzo e capelluto che si scappella ridendo, con ardito gesto da moschettiere, come in una taverna caravaggesca. Il buon umore selvatico del contadinello si ripercuote nei sensi del pittore che sente intorno aleggiare lo spirito beone di Frans Hals. I valori chiaroscurali che potentemente contraddistinguono il Seicento pittorico napoletano rimanevano sin verso il 1890-95 in Antonio Mancini, che con il sistema del doppio reticolato realizzò il ciclo grandioso delle tonalità squillanti e orchestrali.
La pittura per Mancini fu principalmente un fatto ottico: la materia della sua arte — avrebbe detto Delacroix — era in ciò che pensavano i suoi occhi. Mancini, in definitiva, fu l’anticipatore spontaneo e istintivo di formule e di trovate modernissime, quale quella degli ingredienti estranei alla tavolozza. Attraverso le infinite realizzazioni della sua arte affiorano problemi fugacemente impostati, e in parte non risolti, dalla pittura napoletana di tutti i tempi: espressione di un mondo di sensazioni da lui nutrite e svolte nei modi più imprevedibili.
(Alfredo Schettini da “Cento pittori napoletani” So.Gra.Me. Napoli, 1978)