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Autore:

SPINOSA DOMENICO

N - M:

Napoli, 1916 - 2007

Titolo:

Farfalla notturna

Tecnica:

Olio su tela

Anno:

1983

Misure:

50 x 60 cm

Note descrittive: Mario Franco (da “La Repubblica – Napoli” del 18 luglio 2004): L’arte universale di Spinosa il pittore che sussurra metafore. Domenico Spinosa è nato nel 1916. Oggi è un vecchio saggio dal sorriso bonario e solo la sua voce, ancora a tratti tonante, ricorda il timore che provavamo noi tutti quando entrava con piglio deciso nelle alte aule del Liceo Artistico per rimproverarci delle intemperanze e dei primi ribellismi pre-sessantottini. Intransigente e combattivo anche con i colleghi pittori, ha attraversato la tormentata stagione seguita alla seconda guerra mondiale anteponendo a qualsiasi compromesso la coerenza morale della ricerca artistica, in polemica con chi sceglieva le scorciatoie dell’intellettuale al servizio della politica: «Non ho mai fatto parte di nessun gruppo. Il mio è sempre stato un lavoro solitario. Il Neorealismo mi piaceva al cinema, ma in pittura non ha mai significato niente, se si eccettua Guttuso, e neanche tutto. Il grande cambiamento nell’arte a Napoli venne con l’Informale». È vero. L’Informale determinò in tutta Italia un linguaggio comune, in cui ciascuna personalità artistica cercò il suo accento individuale. Nato in Francia, fu il primo movimento artistico che si diffuse a livello mondiale pur seguendo percorsi diversi e spesso contrastanti. Ebbe il merito di evocare uno stato d’animo, più che un registro estetico, in antitesi con gli ideali di padronanza e di misura dell’astrattismo classico, a favore dell’espressività dell’artista. L’aggettivo sostantivato «informale» prende la gestualità spontanea dalla teoria surrealista della scrittura automatica e la mischia con l’amore per l’impasto cromatico, reso materico, ruvido con l’introduzione di elementi eterogenei: carta, sabbia, gesso, residui industriali. Suscitò opinioni contrastanti. Sartre, che vi individuò la matrice dolorosa dell’uomo appena uscito dalle atrocità della guerra, fu tra i suoi sostenitori e Georges Bataille chiarì che si trattava di un termine che demoliva «l’idea che gli accademici hanno dell’universo, al quale hanno fatto indossare una redingote matematica. Ma l’universo non assomiglia a nulla se non a qualcosa come un ragno, uno scaracchio, un feto, una vagina, uno sputo» (Bataille, Informe, Paris 1969). Il pittore George Mathieu, che aveva elaborato una tecnica fondata sulla velocità di esecuzione del quadro (più rapida era l’esecuzione, meno la ragione prendeva il controllo sull’impulso creativo), contro l’idea di ragione calpestò pubblicamente i ritratti di Renè Descartes, e dei filosofi dell’Illuminismo, Voltaire e Diderot. Tra i denigratori dell’informale, invece, possiamo annoverare Levi-Strauss: «Ogni artista s’ingegna di rappresentare la maniera in cui eseguirebbe i propri quadri, se per avventura ne dipingesse» (Il pensiero selvaggio, Milano 1964). A Napoli l’influenza delle teorie e delle poetiche informali ebbe una risonanza profonda, e produsse autentici capolavori, con un’inconfondibile «stile», un «colore» particolare, ancora poco indagato. I muri scrostati e lebbrosi del centro storico, la verde improvvisa penombra dei giardini interni attraversati da lampi di luce, le bianche case di calce dei pescatori, le superfici ruvide e ferrose dell’Ilva, il tufo giallo delle case e quello umido dei cortili, il rosso degli interni pompeiani, fornirono ai pittori un vocabolario potente e ricco di suggestioni. Basterebbe leggere i titoli di alcune opere di Spinosa: "Estate", "Incontro in giardino", "Muro bianco", "Volo di libellule" per notare il costante riferimento alla realtà circostante. Dopo di che, però, bisognerà chiarire che gli elementi presi dal mondo che ci circonda per l’artista non hanno valore meramente referenziale. Sono piuttosto «metafore della visione», turbini di energia, suggestioni prelevate dal microcosmo di una natura in ebollizione. Il tutto è temperato da una forte cultura figurativa che presuppone la conoscenza della composizione barocca, la pittura di Luca Giordano, di Caravaggio, che già interessavano il giovanissimo Spinosa quando ancora era allievo di Carlo Siviero e Pietro Gaudenzi ed i suoi primissimi quadri erano influenzati dalle figurazioni neopicassiane ed espressioniste. Già allora, la materia pittorica e l’impasto cromatico prendevano il sopravvento. Nel 1953 la grande svolta: la sua «Macchina da cucire» confonde l’immagine naturalistica, tracciata con gesti larghi e nervosi, in un magma di colore che si apre all’astrazione lirica. «Mio padre era morto in guerra ?racconta Spinosa - e mia madre per portare avanti la famiglia faceva la sarta. Avevo costantemente il rumore della macchina da cucire nelle orecchie e quel rumore potevo rappresentarlo solo con un colore non naturalistico, un colore che raccontava i miei sentimenti, il mio stato d’animo». Una serie di critici e di storici dell’arte si appassiona al lavoro di Spinosa, da Arcangeli ad Argan, da Calvesi a Barbieri a Vergine a Carluccio a Valsecchi a Vivaldi. Le sue mostre in Italia si intensificano; fin dal 1954 partecipa a tutte le Biennali, vince il premio Michetti, espone a Roma, a Spoleto, e più volte a Torino; ad un certo punto gli propongono di trasferirsi: «Ma avevo ancora mia madre anziana, i figli piccoli che non potevo abbandonare? e poi non volevo lasciare Napoli». Eppure, come scriverà Lea Vergine, intorno a lui la città è indifferente, «la mancanza di consenso, prima di essere rimprovero, è incomprensione». Spinosa è avaro di dati biografici personali e, se insisto, taglia corto come se ponessi domande impertinenti. «La mia vita è tutta nella mia pittura». L’artista è comunque molto legato a Napoli. Insegnante e poi direttore del Liceo artistico, dal 1973 fu titolare della cattedra di pittura dell’Accademia. Per queste due istituzioni, allora riunite in un unico edificio, l’Informale fu una lezione costante. Si può dire che tutti coloro che si formarono in quegli anni, anche la generazione successiva, che abbracciò in seguito altri stili e percorse altre strade, ebbe come esperienza fondante la pratica dell’Informale. Con l’Informale la nostra città svolse un ruolo da protagonista in Italia ed in Europa e Domenico Spinosa ne fu un illuminato e personalissimo interprete. La sua pittura fu un esempio di come affrontare la fenomenologia del visibile armonizzandola con l’immaginario e con il vissuto: «L’ingresso dell’astrattismo prima e poi dell’Informale anche all’interno delle Accademie, dimostrò che non contava l’appartenenza a gruppi o a scuole, la distinzione non andava fatta tra figurativo e non-figurativo, quanto piuttosto tra le creazioni forti, riuscite, significative, e le creazioni deboli, mediocri, insignificanti. Un fatto oggi unanimemente riconosciuto, che ha reso gli artisti innanzitutto padroni della propria libertà». In Italia, grazie a Burri ed a Fontana le teorie nate dall’Informale rappresentarono un punto di riferimento importante anche negli anni successivi e l’originalità della scuola napoletana ebbe un eco notevole. Alla XXX Biennale, nel 1960, Spinosa poteva ancora porsi come uno dei più convincenti protagonisti dell’ondata informale italiana. Fino agli anni ottanta, incurante di mode e di scuole, Spinosa continua a sperimentare impasti cromatici, trasparenze, scansioni di colori e di superfici, interessando anche le «nuove ondate» critiche. Ma non ha mai sentito il desiderio di cambiare modo di dipingere? «Ho continuato ad indagare la luce, anche se più spesso nei miei quadri si insinuano forme e figure un po’ inconsistenti come capita nei sogni o nel ricordo». Spinosa non ha disdegnato la rappresentazione simbolica, allusiva. In un grande dipinto regalato alla figlia Aurora che viveva un momento di difficoltà, ha raffigurato una luna nera calante ed una luna nuova e gialla che sorge. Il tutto su un fondo azzurro che ricorda le onde del mare o un cielo nel quale si muovono larve luminescenti. Altre volte ha rappresentato "battaglie di libellule", "zuffe", "aggressioni", "farfalle di luce" come grovigli psicografici, tensioni interiori, voli vittoriosi. Questo grande vecchio, che riempie l’aria con i suoi gesti ampi e scattanti, sempre come se avesse davanti una tela di grandi dimensioni da riempire di luminosi colori, continua a dipingere ogni giorno. Nella casa-studio di Salvator Rosa mi mostra i suoi ultimi lavori con orgoglio: «Sono dei bei quadri, no? E lo dico non perché li ho fatti io».

Atre opere: