Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Admin (del 30/05/2014 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 5940 volte)
{autore=lippi raffaele} Raffaele Lippi (Napoli, 1911 - Napoli, 1982) è uno degli artisti più originali del Novecento napoletano. Qui presentiamo le nostre opere disponibili (e le relative autentiche) con alcuni cenni biografici e critici.
"BIMBO" OLIO SU TELA 27 x 18,7 cm. L'opera è firmata Lippi in basso a sinistra. A tergo il cartiglio della Galleria Mediterranea e il timbro Lippi sul telaio
Raffaele Lippi (Napoli, 1911 - 1982). Sostanzialmente autodidatta ed estraneo all'ambiente artistico napoletano, Lippi esordisce nel '31 con la partecipazione a una mostra dei GUF al Maschio Angioino. Il ritrovamento alcuni anni fa di una ventina di olii dipinti tra il '25 e il '44 ha consentito di correggere l'ipotesi secondo cui il giovane artista si sarebbe formato al seguito della pittura "sobborghista" di Crisconio (P. Ricci, 1984). I dipinti recuperati documentano invece una prevalente attenzione verso certi aspetti del Novecento italiano e segnatamente verso l'ultima stagione metafisica di Morandi, Sironi e Carrà (M. Corbi, 2004). L'artista frequentava le lezioni serali della Libera Scuola di Nudo, nell'Accademia di Belle Arti, quando, nel '42, dovette partire per il fronte russo. Con la disfatta dell'esercito italiano, riuscì a rientrare in Italia e a raggiungere Napoli. Tra il '45 e il '48 frequentò la cerchia dei giovani che si riunivano intorno a Pasquale Prunas e alla rivista "Sud". Nella collettiva del Gruppo Sud del giugno del '48, Lippi espose il "Ritratto di Anna Maria Ortese col gatto" e alcune delle "Macerie", dove, attraverso una pittura stravolta e concitata, appariva una Napoli dolorosamente sfigurata dalla guerra. Nei primi anni'50 Lippi avvertì tutta l'urgenza dell'impegno politico, con risultati complessivamente modesti, ma apprezzabili per l'autenticità della testimonianza civile di opere come "Le quattro giornate di Napoli". Nel decennio successivo, crollate le dogmatiche certezze del programma neorealistico, la pittura di Lippi si presenta completamente rinnovata. La violenza gestuale e cromatica agita e deforma la compagine plastica, dando vita ad immagini di potente visionarietà. "Animale rosso" e "Animale rosso e giallo", del '60, rappresentano il momento più alto di questo processo, che salda con esiti di grande originalità la linea dell'action painting statunitense con quella del neoespressionismo europeo. Negli anni Settanta la città ritorna sulla scena con i segni di una quotidianità cupamente drammatica. Nelle opere degli ultimi anni le ombre si diradano e la luce, sullo sfondo di giardini e campagne o in interni appena accennati, scioglie la dura compattezza dei corpi. Poi, due quadri realizzati poco prima della morte, "Donna con cappello" e "Divano rosso", aprono inaspettatamente su una nuova tonalità espressiva, mentre il colore si rianima di improvvise accensioni timbriche. Proprio in quei giorni, su una parete del suo studio, Lippi aveva scritto: "Fantasia del colore". [Maria Corbi - 9cento. Napoli 1910-1980 per un museo in progress - Electa Napoli]
"CAMPAGNA" OLIO SU CARTONE 30 x 41 cm. L'opera è firmata LIPPI in basso a destra ed è pubblicata e descritta sul catalogo monografico edito da Paparo in occasione della grande mostra personale antologica al Castel dell'Ovo di giugno 2004. Di seguito il passo tratto dal libro riguardante quest'opera e la successiva che è dipinta sul retro dello stesso cartone. Ad un periodo precedente al 1937, dai verdi e dai rosa delicatissimi, sottilmente impastati in un velo di grigio, si può assegnare "Campagna", un paesaggio dalla fitta tessitura pittorica e dall'intonazione complessiva sobria e quasi aspra. Questo paesaggio scosceso e accidentato (probabilmente una campagna delle colline dei dintorni di Napoli, i Camaldoli o Capodimonte), dalla materia pittorica prosciugata e dai verdi aspri, affondati nelle rughe del terreno, è stato probabilmente eseguito dall'artista su un suo dipinto preesistente: a destra, verso il basso, s'intravede appena, largamente coperta da pennellate di colore sovrapposto, la scritta "R LIPPI XIII" che dovrebbe appartenere al dipinto sottostante, del 1935. Sul retro di questo paesaggio è dipinta una "Natura morta con bugia e caffettiera", anch'essa probabilmente da datare intorno al 1937. L'opera per la composizione con il piano del tavolo rialzato, a chiudere interamente lo spazio, e l'asciutta, energica resa del dato figurativo può ricordare alcune nature morte dipinte in quegli anni da ùcrisconio e da Vittorio. In particolare presenta caratteristiche molto simili una Natura morta di quest'ultimo del 1931 già collezione Ricci. [Maria Corbi - Raffaele Lippi. Dipinti e disegni 1925-1982 - Paparo Edizioni - 2004]
Personale del pittore Raffaele Lippi, che ha trovato, raggiungendo la maturità, il punto d'equilibrio della sua vocazione, conferendo alla fantasia pittorica quanto, fino ad ieri, tentarono di sottrargli il tradizionalismo naturalistico e l'oscurantismo neo-realistico. La sua forza coloristica che si trovava inceppata o addirittura insabbiata, s'ebbe, già alla mostra precedente e in varie altre occasioni, agio di vederla indirizzata a ben altri esiti e ben più vitali esperienze. Oggi son caduti gli ultimi diaframmi, e quella che poté essere l'estrema redazione del vero in senso strettamente obiettivo lascia il luogo ad una struttura cromatica, ad una organicità compositiva, ad una sollecitudine di stile, tutte covate dal proprio rigoglio interiore, dall'intimità d'un introspezione che si sviluppa in pieno accordo con la libera scelta dei motivi; e quando v'è d'apporto dall'esterno viene subito bruciato al calore d'una fantasia che ne trattiene solo l'emozione sensibile, il contraccolpo emotivo. Noi da anni, e in occasioni molteplici, abbiamo avvertito quale richiamo d'orientamento e fruttuosa direttiva per gli artisti meridionali quella dell'espressionismo liberamente inteso, che è la via più consentanea al particolar genio del temperamento nostro nonché della nostra tradizione. Esso s'avvale del naturalismo e lo sorpassa, del realismo assume solo la piattaforma di lancio, inoltrando ogni spunto e suggestione sempre più addentro alla sfera dell'attività creatrice. E ci pare che in questa zona siano riscontrabili, in una commistione di figurativo e d'astratto conciliati dalla vitalità del colore, le più persuasive riuscite dei nostri artisti migliori. E perciò il riconoscimento di tale posizione, e della sua legittimità, da parte di uno spirito acuto, esperto e lungimirante (anche nel campo dell'attualità artistica) quale quello di Ferdinando Bologna, presentatore della mostra, ci ha confermato la veridicità dell'asserto indicativo. Lippi, con la sua materia combusta, che pur si organizza in sembianze evocative, rivela esser le sue radici affondate nella storia della fantasia pittorica nostra, dal drammatico Seicento alle irruenze di un Mancini, ma accusando un accento nuovo e suo proprio, che consiste in quella figuralità gravemente meridionale che pur conosce improvvise accensioni poetiche, intimità contemplativa, scatti di energia cromatica, distensioni e allucinazioni di pretta sensibilità moderna. [Carlo Barbieri - da Il Mattino - 3 aprile 1957] .
"MANICHINO CON DRAPPO" OLIO SU CARTONE 35 x 21 cm DEL 1940.
L'opera è firmata e datata Lippi 940 in basso a sinistra. A tergo cartiglio della galleria Marciano Arte, cartiglio dell'esposizione alla mostra di Castel dell'Ovo e timbro dell'archivio Raffaele Lippi. Il dipinto è incorniciato. Pubblicato e descritto sul catalogo. Qui il testo:
Rimane da accennare a un ultimo dipinto, probabilmente solo un abbozzo, datato 1940. Si tratta di "Manichino con drappo", dalla cui superficie granulosa e sbiancata affiora una scena dai contorni sfumati e dal sapore vagamente metafisico. In primo piano la testa di una statua rovesciata, più indietro, sullo sfondo, il manichino già incontrato in altri quadri, ma qui con l'aspetto di uno strano personaggio recitante che regge in mano un lungo drappo nero. [Maria Corbi - Raffaele Lippi. Dipinti e disegni 1925-1982 - Paparo Edizioni - 2004]
"TRONCHI N.3" PASTELLI SU CARTA 50 x 65,5 cm DEL 1955.
L'opera è firmata e datata Lippi 955 in basso a sinistra. A tergo cartiglio dell'esposizione alla mostra di Castel dell'Ovo. Pubblicato in bianco e nero e descritto nella monografia così:
I "Tronchi" sono la prova di quanto acuto, gia a quella data [1955] fosse nell'artista l'avvertimento dell'angustia dei limiti entro cui i realisti tendevano a comprimere gli intenti dell'arte e rivelano una rinnovata capacità di cogliere entro il dato reale una vis formativa che eccita l'immaginazione dell'artista e la spinge a trasfigurare visionariamente i ceppi e i rami tagliati in quieti organismi viventi. [Maria Corbi - Raffaele Lippi. Dipinti e disegni 1925-1982 - Paparo Edizioni - 2004]
"PAESAGGIO" TECNICA MISTA SU CARTONE 51 x 68 cm DEL 1956.
L'opera è firmata e datata Lippi 56 in basso a destra. A tergo i cartigli delle esposizioni alle mostre di Catel Sant'Elmo del 1992 e di Castel dell'Ovo del 2004. Pubblicato in bianco e nero e descritto nel libro edito da Paparo con le seguenti parole:
L'"Omaggio a Picasso" del 1956, che è già di per sé, fin nel titolo, un'indiscutibile dichiarazione d'intenti, il "Paesaggio", dello stesso anno, e l'ispida, aggrovigliata "Zuffa dei gatti". del 1957, dimostrano come Lippi avesse saputo riaccostare il grande maestro spagnolo con un profitto ben più incisivo di quello che ne aveva ricavato negli anni tra il 1948 e il 1951 attraverso il filtro della vulgata guttusiana. [Maria Corbi - Raffaele Lippi. Dipinti e disegni 1925-1982 - Paparo Edizioni - 2004]
"FIGURA" TECNICA MISTA SU CARTONCINO 70 x 50 cm DEL 1968.
L'opera è firmata e datata Lippi 68 in basso a sinistra. Autentica su foto di Franca Lanni: "Io nipote di Raffaele Lippi dichiaro che l'opera qui fotografata è di Raffaele Lippi. Franca Lanni"
È difficile sottrarsi alla tentazione, quando si parla della pittura di Raffaele Lippi, di parlare del pittore, di tentarne un ritratto. E non è una tentazione indebita; poiché Lippi ha un’idea della pittura come diretta partecipazione di sé, come testimonianza in prima persona. Sicché i due termini, la pittura e l’uomo, appaiono strettamente uniti, come in pochi altri artisti. L’ho conosciuto solo pochi anni fa, lui che lavora a Napoli da tanto e che è stato uno dei protagonisti delle vicende artistiche napoletane, soprattutto nell’immediato dopoguerra. Abitava (non so se vi abita ancora) in una sorta di eremo, su una collina, in una casa fatta di grandi stanze antiche, che davano un senso di chiusa solitudine e di isolamento. Fu un incontro fatto di cose presenti, ma più di ricordi, di ciò che era stato fatto, qui a Napoli, da lui e da pochi amici per scuotere la pesante cappa della tradizione. Parlammo del Gruppo Sud, che fu una sorta di napoletano Fronte Nuovo delle Arti, in cui si ritrovarono insieme, per un momento artisti diversi, che avrebbero poi preso strade diverse. Di quegli anni sono ormai note le Macerie, quadri dipinti con un colore infuocato e aggressivo, aspri e terribili, ma con improvvisi abbandoni. Proprio come lui. Lippi, scontroso e dolce. Anche questi quadri di oggi, esposti alla S. Carlo, conservano qualcosa di quegli umori: anche ora Lippi dipinge per parlare in prima persona, crede fermamente ed ostinatamente alla pittura come a un modo di essere presente in mezzo agli altri, di dare una testimonianza di sé e un giudizio sulle cose. Vitaliano Corbi, nella presentazione al catalogo, ha colto bene questa ostinazione di Lippi, questo vizio della pittura. «La scelta e la capacità d’intervento dell’artista non possono compiersi che all’interno di quel momento privilegiato e conclusivo che è la sua opera; in essa la drammaticità del reale non ha che lo spessore di un’ombra». Perciò Lippi è ancora un pittore-pittore, che crede solo al presente assoluto dell’opera, senza farsi tentare dalle profezie e dalle illusioni consolatrici. [Filiberto Menna - da Il Mattino - 27 aprile 1969]
Di Admin (del 21/05/2014 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 5858 volte)
{autore=zollo giuseppe} Autore: GIUSEPPE ZOLLO (Napoli, 1960) Titolo: NAPOLI DANZANTE Tecnica e superficie: ACRILICO SU TELA DI JUTA Dimensioni: 46 x 120 cm Anno: 2014
Tutti i sensi. I colori, i sensi e l'armonia sono predominanti nell'attuale fase di Giuseppe Zollo. La sua natura creativa é espressa con una stimolante sincronia, un lavoro in cui l'ispirazione arriva dalla sublimità musicale, poetica e pittorica. Un compasso lirico che si manifesta e si accenna trasmettendo una grande vitalità colorata per mezzo delle sue "tracce". Zollo riproduce il sentimento, nel confronto dell'immaginario, da quello che poteva essere reale e ideale. Con i colori forti, luminosi e tante tonalità, fa delle sue opere un'esasperata fonte di movimento e trascendenza, proponendo viaggi ineguagliabili e senza limite all'immaginario. Nella frammentazione del suo processo creativo elabora e genera l'essenza di una pittura che costantemente si rinnova e quotidianamente si afferma con precisione nel "romanticismo informale" dell'attualità moderna. Le sue opere riproducono non il figurativo, ma un "mondo interiore" di virtù poetica dove la realtà fisica si mescola con un intimo mondo psichico, inducendo lo spettatore a percorrere cammini riflessivi. (Monica Martins)
Autore: GIUSEPPE ZOLLO (Napoli, 1960) Titolo: BREZZA DORATA Tecnica e superficie: ACRILICO SU TELA Dimensioni: 50 x 120 cm Anno: 2014
“La pittura come materia da amalgamare. Riprodurre le forme, cercando di infondere vita, atmosfera, sensualità ed emozioni. In questo mi riconosco se si parla di pittura. Essa è l’eterno gioco di cavalcare la tèchne; il saper fare, per dare forma alla propria immaginazione, quel compiacersi di riuscire che ti porta sempre più avanti. Ecco così va amata la pittura. L’arte, poi… verrà come l’alba e aprirà il nuovo giorno”. (Giuseppe Zollo)
Autore: GIUSEPPE ZOLLO (Napoli, 1960) Titolo: UNA SOLA LUCE Tecnica e superficie: ACRILICO SU TELA Dimensioni: 50 x 120 cm Anno: 2014
Giuseppe Zollo nasce a Napoli nel 1960, nel 1978 si diploma al Liceo Artistico di Napoli, successivamente frequenta la Facoltà di Architettura di Napoli per due anni poi, decide di iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Napoli, scegliendo di seguire il corso di pittura del Maestro Domenico Spinosa, diplomandosi nel 1985. Da una formazione pittorica informale, caratterizzata dall'insegnamento del Maestro Spinosa, in seguito sceglie la pittura figurativa per condensare le proprie esperienze artistiche; stimolato dalla poetica di Rabindranath Tagore, che, nella sua poesia volta al dialogo, alla ricerca costante del Dio, dell'Uno, insomma dell'Essere Creatore, rende soave la creatività. In una sua poesia si legge: "mi tuffo nell'oceano delle forme, cercando di trovare la perla, perfetta del senza forma". Spunti tecnici Rubens, Klimt, i disegni di Mucha, il colore di Derain, il realismo di Monet, l'estetica di Matisse.
Di Admin (del 16/05/2014 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 3477 volte)
{autore=persico mario} Mario Persico è un mito! Amo la sua arte e provo una profonda ammirazione per la sua persona. Qui presento un disegno a tempera su cartoncino nero degli anni Cinquanta: Carro Funebre!
L’arte di Mario Persico, nato a Napoli nel 1930, appartiene alla storia dell’avanguardia napoletana sin dal suo primo manifestarsi. Allievo di Emilio Notte all’Accademia di Belle Arti, Persico raccoglie le sollecitazioni provenienti dalle sperimentazioni sulla materia e dalle “vertigini cosmico-nucleari” della pittura di Mario Colucci. Nel 1955 aderisce ufficialmente al Movimento Nucleare di Baj e Dangelo; Gioia verde, dello stesso anno, mostra un impianto informale da cui emergono zone di addensamento cromatico vagamente organiche.
Nel 1958 con Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola, e LuCa (Luigi Castellano) fonda il Gruppo 58, la cui importanza, nell’attardato contesto culturale napoletano, va ben oltre le dichiarazioni di poetica pronunciate.
Al 1959 datano il Manifeste de Naples, feroce e irridente critica all'astrattismo, la prima personale alla Galleria Senatore di Stoccarda e il lavoro editoriale - redazione e grafica - per la rivista “Documento Sud”, che proseguirà anche nella successiva avventura di “Linea Sud”.
L’opera Robot del 1961 rispecchia l’indirizzo intrapreso dalla sua nuova figurazione grazie all’utilizzo di materiali extra-pittorici: bottoni, rondelle, carte, congegni meccanici. Dal 1963 produce “oggetti praticabili”, strutture polisignificanti che traducono la poetica dell’indeterminazione e aprono lo spazio dell’arte ad una infinibilità di letture.
Nel 1966 illustra l'Ubu Cocu di Alfred Jarry, padre della Patafisica, tradotto in italiano da Luciano Caruso. Alla fine degli anni Sessanta, risalgono i primi Segnali, gli Oggetti Ammiccanti e le Gru Erotogaie.
Le sedie dell’isteria e Le sedie della tortura realizzate tra il 1971 e il 1975, sono un’amara riflessione sulla condizione umana che genera da sé i suoi strumenti di tortura, oltre che uno studio sulla meccanica del Quattrocento. Nel 1973, con la realizzazione dei disegni per i costumi e le scenografie per Laborinthus II di Luciano Berio il suo lavoro incontra anche il mondo teatrale. Agli anni Ottanta appartengono il ciclo intitolato Tavole della Memoria e la serie dedicata alla rivisitazione di alcune opere di Courbet.
Patafisico per eccellenza per quella sua “visione magica e ambigua della realtà” (Martini), e membro del gruppo napoletano sin dalla sua costituzione nel 1965, Persico assume la carica di Rettore Magnifico dell’istituto Partenopeo nel 2001. Finalmente nel 2007, la mostra personale al Castel dell'Ovo di Napoli ha raccolto un cospicuo numero di opere attraverso cui rileggere la storia cinquantennale di un artista intransigente che, “fuori dall’occhio infuocato del dio mercato”, continua a costruire immaginifici spazi di resistenza.
Maria de Vivo (da 9cento – Napoli 1910-1980 per un museo in progress. Electa Napoli)
Di Admin (del 18/03/2014 @ 14:00:01, in Arte News, linkato 5552 volte)
{autore=caprile vincenzo}
Vincenzo Caprile (1856 - 1936), formatosi nell'atmosfera palizziana, indirettamente, attraverso lo Smargiassi, che riproponeva i temi della Scuola di Posillipo e poi di Rossano, si accosta in qualche modo all'estetica della Repubblica di Portici, lavorando e studiando lungamente in compagnia di Federico Rossano e di Alceste Campriani; ma il pittore non si adatta a un indirizzo determinato, pur avendo, insieme agli amici «porticesi», anche una certa propensione alla adozione della «macchia».
"Ritratto" olio su tavola 26,5 x 40,5 cm Questa bella opera di Vincenzo Caprile è inedita. Il soggetto è molto probabilmente il fratello del pittore. L'opera è firmata "V. Caprile" a punta di pennello nel colore sulla destra della tavola. Le prove di pulitura confermano che la firma è coeva al dipinto. Sul retro è iscritto: "Il dipinto a tergo è opera autentica del pittore Vincenzo Caprile. Tito Diodati." L'autentica, riportata in foto qui sotto, è di Tito Diodati (Napoli, 1901 - ?), figlio del pittore Francesco Paolo Diodati (1864 - 1940). E' stato pittore, restauratore, collezionista e grosso esperto d'arte napoletana. Anche la cornice è di epoca.
La sua natura di sperimentatore eclettico ed appassionato, lo porto ad orientarsi in parte anche verso la pittura aneddotica, che però in Caprile si esprimeva con ben altra «civiltà» compositiva e cromatica. Ne fanno fede il dipinto La dote di Rita, della collezione D’Angelo, un quadro dominato dal rosso della gonna del modello, un rosso che si ritrova anche ne L'interno rustico, mentre nel quadro Sossio e Maria Rosa, scena dall'impianto vagamente teatrale, ricca di episodi squisitamente pittorici, le due figure s'inseriscono nell'ambiente con l’evidenza della pittura realistica del Seicento. Ma, oltre che nella pittura di genere, Caprile si esprime felicemente nella pittura di paesaggio, in cui si ritrovano freschezza e grazia istintive. Paesisticamente egli predilige la natura di Positano e l’atmosfera decadente e raffinatissima dei motivi veneziani; cosi l’artista si divide tra i due temi preferiti, trovando nella natura a lui più congeniale della costiera amalfitana i motivi elegiaci e niente affatto convenzionali di una pittura che proviene da lontano, dagli esempi di un certo vedutismo settecentesco, rivissuto dall'artista sul piano di una descrizione puntuale della vita e degli avvenimenti delle popolazioni marinare che popolano le rocce e le spiagge di Positano, di Amalfi e di altri paesi che s’affacciano sul golfo di Salerno. --
Diversa invece la pittura di ispirazione veneziana in cui dominano, accanto alle notazioni offerte dai solenni edifici che s’affacciano sulla laguna, l’atmosfera e la calma di una natura improntata al grigio atmosferico che si riflette nelle calli e nei canali della città. La visione di Venezia del Caprile, pur essendo contemporanea alla versione «eroica» del paesaggio dannunziano, evoca al contrario un’immagine dominata dalla malinconia, nei toni dimessi in cui sono tratteggiati le case, i canali, i ponti e le gondole, sullo sfondo di una Venezia a misura d'uomo. Ma il dato più clamoroso di Caprile è nella sua ritrattistica, nella quale, stranamente, si avverte l’influenza della pittura nord-europea, in specie di Munch, come dimostrano il ritratto Fanciulla di Positano e, soprattutto, un ritratto del padre dell’attuale proprietario dell’albergo «Il covo dei Saraceni» della marina di Positano, che ha la potenza espressiva e la deformazione dolorosa delle opere del grande pittore norvegese.
Paolo Ricci (da "Arte e artisti a Napoli", 1981)--
Di Admin (del 21/02/2014 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 3839 volte)
{autore=ricciardi oscar} OSCAR RICCIARDI Titolo: CAPRI Olio su tela applicata su tavola, 40 x 27 cm
Avviato alla pittura dal Celentano ma subito più influenzato dal Morelli (soggetti di storia), dal 1884 si accostò alla scena di genere di colorismo brioso, presto passando al paesaggio animato da figurette (scorci di mercati e di affollate strade partenopee) e, dal 1910, anche alla marina (prima solo saltuariamente), con espliciti riferimenti fra Pratella e Casciaro. Il suo pennelleggiare facile, svelto e sovente affrettato, il folklorismo che perva dei suoi oli, hanno guadagnato al Ricciardi Oscar (1864 - 1935) un mercato più vasto di quello nazionale. Fra i minori napoletani caratteristici e dalla pittura facile e gradevole, è forse quello ancora più largamente abbordabile per prolificità e valutazioni anche se, da alcuni anni, esse hanno conosciuto incentivazioni: innumerevoli tavolette e piccole tele applicate su cartone, da 2 a 4 milioni di Lire mediamente; sino a massimi di 10/12 milioni i più rari oli di medie dimensioni e di molto impegno. Record d'asta di 24,4 milioni di Lire a Londra, nell'ottobre 1990.
(Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento. X edizione, 1992 – 1993. Umberto Allemandi & C. Editore)
OSCAR RICCIARDI Titolo: VIALE ALBERATO Olio su tavola, 35 x 23 cm
Pittore autodidatta, parente per parte di madre di Bernardo Celentano, riuscì con tenacia e dipingendo prevalentemente dal vero, a raggiungere in breve: una propria fisionomia artistica che gli consentiva di imprimere ai suoi lavori, grazie alle felici ed equilibrate scelte tonali una nota di personale eleganza. Prolifico pittore impressionista di paesaggi e di scene di genere predilesse raffigurare, in opere di piccolo formato, marine e vedute urbane con scene di vita quotidiana, eseguite con un gusto semplice ed un equilibrato cromatismo che lo fece apprezzare dal pubblico specie quello dei forestieri per i quali lavorò di preferenza. L'artista partecipò alle mostre della Promotrice napoletana nel 1881 e 1884 con due composizioni storico romantiche, che restano episodi isolati nella sua produzione, raffiguranti "Fanfulla si accinge a partire da San Marco" e "Servite Domino in laetizia" che furono ambedue acquistate dalla Provincia di Napoli, a quella del 1883 presentò un acquerello intitolato "Ines". Alla mostra del 1884 e 1888 presentò "Interruzione piacevole", "Rimembranze di Casamicciola" e "Dall'antiquario" che furono acquistate dal duca di Martina. Il Ricciardi partecipò inoltre: alla Esposizione Nazionale di Palermo del 1891/92 con una replica di "Dall'antiquario", a quella di Milano del 1894 ove ripropose "Dall'antiquario" ed una "Amalfi"; alla Esposizione Nazionale di Torino del 1898 con "Porta Capuana"; alla Prima Quadriennale di Torino del 1902 con "Campania felice" ed alla Seconda del 1908 con "Una via della vecchia Napoli" ed alla Esposizione Nazionale d'Arte tenutasi a Napoli nel 1916 con "Cipressi" e "Mercato".
(Roberto Rinaldi – Pittori a Napoli nell'Ottocento)
Di Admin (del 12/02/2014 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 10929 volte)
{autore=pratella attilio} Attilio Pratella (Lugo di Romagna, 1856 - Napoli, 1949). Nel 1880 lo troviamo attivo col Casciaro, il Dalbono e tutta una schiera di pittori che continuano quel particolare naturalismo partenopeo così diverso dal macchiaiolismo toscano e così lontano dall'impressionismo francese. Nell'81, col quadro Verde ottiene un primo successo alla Promotrice Salvator Rosa. Fino al 1910-20 continuò a partecipare alle mostre italiane ed estere. La pittura del Pratella costituisce un aspetto abbastanza singolare nel paesismo partenopeo, nel periodo di transizione fine '800 e primo '900. Taluni hanno cercato il vero Pratella nella produzione giovanile, fresco, vigoroso, e assai vicino alla pittura iniziale del Mancini o alla Scuola di Posillipo. Altri vedono nella sua produzione ulteriore, un gusto aggiornato, paragonando certe sue vedute di oliveti alla Sisley. Alcune sue tavolette sono passate per opere giovanili del Mancini.
("Pittori e Valori dell'Ottocento" Istituto Editoriale Brera di Milano, 1961)
"MARINA" OLIO SU TAVOLA 20 x 30 cm. L'opera è firmata A. Pratella in basso a destra. Questa marina di Attilio Pratella è da considerarsi un'opera significativa nonostante le dimensioni contenute (ma non troppo!). La tavoletta è databile proprio a cavallo dei due secoli, senz'altro il periodo migliore dell'artista. Da sottolineare il taglio dell'orizzonte molto alto, proprio ad esaltare il pregevole ricamo del mare in primo piano. Sempre affascinante l'ambientazione del Golfo di Napoli con il lungomare e il Vesuvio in lontananza. La cornice è coeva.
Attilio Pratella (Lugo di Romagna, 1856 - Napoli, 1949) era anch'egli un tardo impressionista, alla Sisley. Proveniva da una famiglia di lavoratori romagnoli e cominciò a dipingere giovanissimo. In un foglietto autografo, trovato dai figli tra le sue carte, Pratella cosi racconta i suoi primi passi: «Eccovi delle piacevolezze - A 16 anni illustrai un libro di chirurgia e il noto chirurgo di Bologna mi guidò (in) questa faccenda. Un giorno entrai in una bottega di barbiere e vedendo alle pareti 4 quadri con incisioni di fiori che erano brutte allora il barbiere mi affido la commissione di eseguire in pittura, 4 quadri ciò che feci mi procurò elogi dai clienti del barbiere e una reclame al pittore...». Il curioso documento è tracciato a lapis su un foglietto di carta da acquerello tra prove di colori e macchie varie.
"PESCATORI A NAPOLI" OLIO SU TELA 28,5 x 40 cm. L'opera è firmata A. Pratella in basso a destra. Bellissima marina del periodo verista di Attilio Pratella databile ancora al XIX secolo. Dipinto di alta qualità pittorica. In primo piano diversi pescatori, alcuni sul molo, altri sulle imbarcazioni, sono pronti per la battuta di pesca, dando grande vita e movimento al dipinto. Lo scorcio di via Caracciolo, l'inconfondibile Castel dell'Ovo e il Vesuvio appena fumante col Monte Somma, impreziosiscono l'opera arricchendola del fascino del Golfo di Napoli. L'opera, rintelata, presenta qualche segno del tempo con qualche screpolatura e un piccolo ritocco postumo nel cielo. La cornice è molto bella.
Il fatto è che, verso i 16 anni, gli amministratori del comune di Lugo, socialisti e repubblicani, assegnarono una borsa di studio al giovanotto che manifestava chiaramente le sue doti artistiche. Così Attilio Pratella si trasferì a Bologna e, in quella Accademia di Belle Arti, studiò sotto la guida di Puccinelli-. A Bologna strinse amicizia con Giovanni Pascoli per il quale esegui una serie di disegni illustranti i volumi di versi che allora veniva pubblicando Zanichelli. Verso i vent'anni Pratella volle conoscere Napoli e concludere gli studi in quell'Accademia che era allora una delle più illustri d Italia per la fama di Palizzi e di Morelli. Pratella cosi approdò a Napoli nel 1876 e si iscrisse alla scuola di pittura, ma dopo un anno, malauguratamente, decadde l’amministrazione di Lugo e al posto dei socialisti subentrarono i clericali, che, fra le prime cose, decisero di togliere al giovane Pratella la borsa di studio. Che fare? Attilio Pratella preferì affrontare la vita e restò a Napoli, sorretto dalla benevolenza di Palizzi che era rimasto ammirato dagli studi del giovanotto. Fu ammesso alla «1ª Mostra Promotrice» e, per tirare avanti, accettò il lavoro di decorare le scatole di dolciumi per Van Bol. Fu allora che Pratella strinse amicizia con Migliaro e Ragione e si legò artisticamente con Rossano e De Nittis, cioè scelse, tra i due campi opposti, quello giusto, anche se la scelta doveva costargli la fame. E la fame venne. De Nittis se ne era andato a Parigi dove visse nel clima degli impressionisti come nel suo clima naturale. A Parigi e in Toscana se ne andò anche Rossano, seguito più tardi dal povero Ragione. Gemito e Mancini, anch’essi sbandati e indifesi, si spensero. A Napoli restarono solo Migliaro e Pratella che intanto se ne era andato ad abitare al Vomero, allora brullo e agreste.
"VILLA QUERCIA. NAPOLI" OLIO SU TAVOLA 14,5 x 22,5 cm. La firma A. Pratella è in basso a sinistra.La piccola opera del Pratella è un gioiellino. Elegante. Soggetto affascinante e perciò anche ripetuto dal maestro, sebbene alquanto raro, databile intorno al 1910/15. Molto belli e di grande qualità i colori usati che risultano brillanti, smaltati e materici al tatto. Un gioco accattivante di luci dove predomina la bellezza della famosa villa di Posillipo. L'opera è incorniciata.
Per campare in quel tempo escogita molti mezzi: fa della ceramica in una fabbrica che si trovava al Ponte della Maddalena e dipinge «macchiette» per Mastu Ciccio che era una specie di «père Tanguy» napoletano con negozio in via Costantinopoli. Mastu Ciccio aveva assegnato a Pratella un compito particolare: «Tu mme ’a fa e Ciardi», gli aveva detto, in considerazione del fatto che Pratella, vissuto per vent'anni tra Bologna e Venezia, conosceva la pittura di Ciardi, appunto, come conosceva quella di Favretto e di Fragiacomo. Tuttavia Mastu Ciccio, che capiva di pittura più dei cosiddetti amatori napoletani messi insieme, qualche volta acquistava le opere dei giovani artisti. Con Morelli e l'ambiente ufficiale non c'era nulla da fare. Se qualcuno dei giovani, Pratella o Migliaro, mostrava al Morelli un suo dipinto, si sentiva fare affermazioni avvilenti di questo genere: «Il piano non è finito». I giovani pittori esponevano da Tibaldi, un cartolaio in via Chiaia che era l’unico a proteggerli. Da Ragozzino, in Galleria, esponevano solo i pittori ufficiali e i vedutisti commerciali. Pratella era solito ripetere le parole che gli disse una volta Dalbono incontrandolo mentre si affrettava ad andare allo studio: «vaco'a casa — spiegò — a ffa 'na purcaria per magnà». Ma coloro che respingevano Ragozzino e la soluzione commerciale non avevano altra scelta che le mostre da Tibaldi, dove non si vendeva mai un quadro, o la fuga da Napoli. Pratella e Migliaro non ebbero l'animo di lasciare la loro città e furono condannati per questo ad una vita di stenti. I clienti e gli amatori d'arte erano (e sono ancora, ahimé!, in gran numero) ignoranti e dittatoriali. Il committente napoletano «non voleva avere pensieri» e guardava con sospetto chiunque azzardasse idee che non fossero quelle sacrosante, da lui accettate ed assodate come eterne. Egli aveva un concetto preciso del «bello» e non tollerava che fosse messo in discussione. «Bello» era il mare al tramonto col pino in primo piano, «bella» era la retorica villereccia ed arcadica; «belli» erano il vicolo napoletano coi panni stesi al sole, lo scugnizzo con la sigaretta in bocca, il guappo e la «maesta».
"NEVICATA VERSO CAPODIMONTE" OLIO SU TAVOLA 18 x 28 cm. L'opera è firmata in basso a sinistra. Rara opera di Attilio Pratella raffigurante la strada verso Capodimonte tutta innevata. Molto lontana dalle inflazionate tavolette proposte dal mercato. Straordinaria è la resa nei toni di grigi tipici di questo periodo, che ne esaltano l'eleganza e la ricerca tonale. Riuscita è l'inquadratura presa dal lato destro della strada in primo piano che dà grande profondità al dipinto insieme alle figure in movimento poste magistralmente lungo il percorso in una perfetta proporzione. Opera databile ai primissimi anni del '900 con cornice originale.
Bello e degno d'essere eternato in pittura era insomma tutto ciò che presentava la vita sociale come la più felice e giusta possibile, tale, comunque, da non disturbare le elaboratissime digestioni dei ricchi commercianti e industriali napoletani. Il committente meridionale, d’altra parte, non disdegnava gli atteggiamenti paternalistici e protettivi; giocava volentieri il ruolo del mecenate generoso e caritatevole e lasciava scivolare dalla tasca ogni tanto dei soldini per «quei pazzerelloni» di artisti moderni-. Neppure un uomo come Croce, neppure un grande intellettuale della statura del filosofo idealista, sfuggiva a questa legge della foresta. Croce infatti amava ripetere a chi gli chiedeva della sua raccolta d'arte che essa denotava più il suo «buon cuore» che i suoi gusti estetici. Un ritratto esemplare di amatore e collezionista napoletano lo traccia Ezechiele Guardascione nel suo libro «Napoli pittorica». Il personaggio descritto è tal Gualtieri, deputato al Parlamento e «amico» degli artisti: «Questo grasso e grosso uomo d'affari, Gualtieri, aveva quasi finito per abbandonare ogni occupazione: la mattina, messosi in pigiama di seta, si abbandonava felicemente alla contemplazione dei suoi quadri. Vorrei dire che nuotava beato nei mari dell'arte napoletana. Il vecchio palazzo in piazza del Gesù, dove egli abitava ed aveva la sua pinacoteca, era stato prima proprietà della famiglia Degas»: i napoletani, infatti, per un certo tempo, lo chiamarono il palazzo del gas. «Da un superbo portone seicentesco si entra in un cortile, e poi in un secondo che in origine dovette essere un giardino: alberi di alloro e di quercia sono rimasti tra le basse costruzioni: fabbriche di cartonaggio, di scarpe, e rimesse di automobili». I parenti di Degas abitarono qui fino a molti anni addietro ed è noto che vendettero via via i quadri del Maestro che loro restavano. «Gualtieri amava vivere in mezzo agli artisti. Dava pranzi sontuosi. Quasi seduto in trono come un pascià, egli gettava manate di granoturco alle irrequiete gallinelle della pittura napoletana che si pizzicavano fra loro: pettegolezzi, contrasti ed ogni altro effetto che può derivare dalla mente malata di artisti in bolletta. Ma Gualtieri, mentre gustava le sue murene fritte e le sue spigole in bianco, e tracannava vino biondo di Falerno-, rideva di tutto, perché l'arte gli aveva fasciato l'anima di una fiorita beatitudine giovanile. L'arte, quale caldo beveraggio, pareva che gli ristorasse lo stomaco».
"STUDIO PER MARINA CON PESCATORI" MATITA SU CARTA 22,5 x 15,5 cm. La firma A. Pratella è in basso a destra.Interessantissimo "Studio per marina con pescatori" di Attilio Pratella. E' un disegno, un bozzetto eseguito dal vero, dal lato della via Marina a Napoli, con in secondo piano, il campanile del Carmine (quando il mare arrivava a piazza Mercato). Il supporto è un cartoncino sottile con evidenti segni di piegatura. L'opera ha una valenza storica molto significativa oltre a quella artistica per la straordinaria interpretazione delle figure inserite in un paesaggio reso con sintesi ma senza approssimazione. La datazione è inquadrabile al primo periodo del maestro a Napoli, e quindi alla fine del XIX secolo.
Tale era l'ambiente della giovinezza e della maturità di Pratella e degli artisti della sua generazione; ambiente, che, ahimé!, è cambiato poco, anche ai giorni nostri. Pratella, che era un vero artista, resisté il più a lungo possibile alla tentazione di ridursi al ruolo di «gallinella», per dirla alla maniera dell'argutissimo Guardascione. Quando iniziò la serie dei paesaggi grigi e degli ulivi argentei di Capri, gli dissero che «aveva fatto il bucato» ai suoi dipinti. Tutte le volte che si abbandonava liberamente al suo talento e rivelava la sua natura di autentico impressionista, gli «amatori» rabbrividivano. A molti sembrerà inopportuna la difesa di un artista come Pratella, che è considerato un esponente tipico dell'arte commerciale. Il nostro è un riferimento preciso alla produzione iniziale dell'artista, che non ha nulla a che vedere con i quadrucci che egli era costretto a dipingere per non morire di fame.
(Paolo Ricci – “Arte e artisti a Napoli”, 1981)
Di Admin (del 20/01/2014 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 9031 volte)
{autore=de corsi nicolas}
L'opera è firmata in basso a destra: "De Corsi ".
Di padre italiano e madre russa, Nicolas De Corsi approdò e decise di stabilirsi a Napoli dopo vari vagabondaggi. Qui cominciò a dipingere in intensità di emozioni e di sogni. Egli seguiva la propria inclinazione verso le forme più immediate della verità che lo seduceva, rivelando un talento pittorico che poteva essere solo paragonabile a Giacinto Gigante ed Edoardo Dalbono. Divenne particolarmente esperto nel paesaggio (particolarmente significative le sue interpretazioni di Venezia e del porto di Torre del Greco), preferendo dipingere ad acquerello, una tecnica che rivela appieno quali fossero le possibilità e le risorse della sua arte per larghezza, immediatezza e freschezza dei toni trasparenti. Nessun altro pittore italiano dell’epoca sapeva rendere la suggestiva luce degli effetti notturni. E fu proprio dopo il successo ottenuto all'Esposizione Internazionale di Roma del 1905 con “Effetto di sera” che si trovò ben presto sul piano delle competizioni artistiche mondiali.
L'opera è firmata in basso a sinistra: "De Corsi ".
Figlio del console italiano presso la città russa di Odessa e di Emma Suppinich, Nicolas De Corsi nacque nel 1882. Un anno dopo la sua nascita, morì il padre e due anni dopo la madre si risposò con il nobile spagnolo Gutierrez, anch'egli console in Russia. L'anno successivo l'intera famiglia si recò a Madrid, luogo dove avvenne la formazione del giovane pittore. Nel 1896 in seguito al decesso del patrigno, si recò in Italia, in particolar modo a Roma, dove frequentò prima la libera Accademia di S. Lucia (dalla quale venne in seguito allontanato) e poi la scuola serale del Circolo Artistico, ed a Napoli. Nel 1900 il pittore si recò in villeggiatura a Torre del Greco (evento che si rivelò molto importante nella vita del pittore). Partecipò in seguito a numerose esposizioni (Mostra Nazionale di Belle Arti a Milano; Salone d'Autunno a Parigi; IX Mostra Internazionale di Venezia; Quadriennale di Roma). Nel 1930 venne a mancare la madre e nel 1934 il pittore si trasferì definitivamente a Torre del Greco. Dalla cittadina vesuviana si allontanò solo nel 1940 perché sfollato a Vico Equense, per farvi ritorno nel 1945. Morì nel 1956 all'età di settantaquattro anni. (fonte: it.wikipedia.org)
Sabato 18 gennaio alle ore 11.00 sarà inaugurata al PAN | Palazzo delle Arti Napoli la mostra personale di Paolo Naldi, dal titolo Strange Human Law, a cura di Massimo Sgroi e promossa dall'Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli.
Ogni giorno milioni di persone percorrono strade che li portano da non luoghi ad altri non luoghi. Sono le vie delle grandi metropoli urbane, delle banlieu, degli agglomerati dove gli esseri umani corrono, come lemming impazziti, verso la catastrofe socio ecologica del terzo millennio. Sono gli abitanti che vivono le agonie dei non luoghi, di mostri delle grandi conurbazioni deprivate delle identità e delle storie; i mostri dove ogni frazione di città finisce per essere un mondo altro rispetto ad una storia ed una memoria. Le ansie etnocentriche delle concentrazioni forzate di etnie spesso distanti fra loro annullano ogni possibilità di creazione di un mondo che abbia un progetto e le distopie di questa esistenza creano soltanto una maligna evoluzione di disuguaglianze. E’ Blade Runner che prende forma, per lo meno nella sua mostruosa accezione socio-urbanistica. E l’agonia di Los Angeles diviene quella di Parigi, Londra, Berlino, Milano, Roma, Napoli ed il sogno di una società pacifica è tramontato, sostituito da una relazione in cui la violenza stessa è la nervatura del rapporto individuale e collettivo. A che serve ancora l’arte? Ha ancora senso ricercare una bellezza sempre più lontana dalla sua vera essenza filosofica e sempre più legata ad una vuota estetica di mercato? Le risposte attraversano, senza omogeneità, l’intero mondo della cultura e dell’arte. Per capirci: uno dei problemi più drammaticamente urgenti dell’intero territorio nazionale, le grandi organizzazioni mafiose, diventano, nell’immaginario collettivo, cinema da Oscar. E, questo, è un discorso pericoloso. Paolo Naldi parte da questa esperienza per rileggere la visione del contemporaneo e le dirompenti contraddizioni del terzo millennio; i cicli del suo lavoro si basano su di una pittura dura, senza mediazioni, e che mostra all’estremo la deriva conflittuale della storia della nuova forma dell’umano. E l’agonia della città metropoli diventa oscuro paesaggio sulla superficie della tela; la sua pittura è una sedimentazione dei significati laddove il significante finale è sostanziato sulla parete dei ricordi. Ed in realtà, come sostiene Jean Louis Weissberg l’obiettivo comune dell’arte contemporanea e di molte discipline scientifiche è quello di scandagliare l’immagine per romperne lo statuto di dipendenza ontologica dall’oggetto. Va da se che l’informatizzazione del virtuale, nel momento in cui assume in se le funzioni della visualizzazione , riesce a sovrapporre i due estremi di questo paradigma: l’immagine e l’oggetto stesso. Nella nostra storia di uomini abbiamo sempre concepito lo specchio come la porta che separa la scena della vita dall’alterità. Oggi lo schermo del computer rappresenta il punto in cui queste due cose si incontrano, la superficie in cui il sé e l’altro da sé sono compresenti rappresentando l’interazione e l’ibridazione di questi diversi livelli del reale. L’opera d’arte è coincidente, per lo meno nella sua accezione concettuale con questo tipo di visione; essa deriva dal nuovo modo che ha l’essere umano di relazionarsi con la nuova forma del reale. In ogni caso, è la sintesi formale dell’immagine che identifica l’appartenenza dell’opera; in The street behind the wall, ad esempio, Paolo Naldi opera lo sfrondamento fra i diversi livelli della realtà, sovrapponendoli l’uno sull’altro per divenire una dura alterità visibile da entrambi i lati: quello della realtà fisica e quello dell’immagine mediatica. Allo stesso modo la serie di Civil Rules, è una proiezione di un mondo privo di senso in cui l’eccesso corporeo finisce per svuotare di significato la ricerca di una libido ormai malata. O, ancora, la oscura presenza della morte in Medea Sindrome, dove la memoria della nostra essenza storica si perde in un perenne e violento scontro sociale. Sosteneva Woody Guthrie che l’artista è fra l’incudine ed il martello: prende dal popolo, filtra attraverso la sua sensibilità di artista ed al popolo restituisce. La domanda è: cosa possiamo ancora restituire oggi?
Testo critico di Massimo Sgroi
Paolo Naldi artista napoletano nasce nel 1978. Fin dall’infanzia vive un profondo rapporto con l’arte e inizia un intenso periodo formativo. Artista poliedrico ha una particolare predilezione per la Pittura e le Lettere. Laureato in economia del commercio internazionale e mercati valutari fa dell’arte la sua unica professione. Nonostante la sua lunga attività artistica indipendente nell'ambito del panorama underground, Paolo Naldi si affaccia solo da pochi anni al mercato dell’arte ed agli spazi espositivi convenzionali a causa di accese idee contro culturali. Vanta diverse mostre e le sue opere destano l’attenzione di importanti critici d'arte nazionali ed internazionali come Massimo Sgroi, John Thomas Spike, ecc.
Di Admin (del 20/12/2013 @ 00:00:01, in Auguri, linkato 1623 volte)
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