Goffredo Godi è uno di quegli artistiitaliani rimasti sulle rive del torrente che porta con sé la clamante folla dei pittori, degli scultori, dei critici, dei galleristi, degli affaristi che hanno nella mira la notorietà. È un appartato, felice Candide votato alla pittura. Le sue gioiose battaglie — nello studio o più spesso negli scenari naturali — non gli lasciano tempo da dedicare all’ingegneria del successo, alla quale è del resto mentalmente e persino fisicamente inadatto. Ma a Godi restano soltanto i quadri recenti. Dunque son quasi sessant’anni che la pittura di questo schivo petit maitre (come lo definì Carlo Barbieri) è amata e ricercata da un piccola galassia di collezionisti, verso la quale Godi ha mantenuto affettuosa gratitudine, perché è un uomo di sentimenti gentili, ma al tempo stesso soltanto scampoli di memoria, preso com’è dal suo fare arte, che tra progetto ed esecuzione lo cattura senza scampo. Godi infatti non ha mai avuto il tempo e la voglia di curare un suo archivio e quel che conserva (cataloghi, fotografie, ritagli, nominativi, indirizzi) gli è stato messo da parte dal caso o dalle premure dei suoi familiari. Seppe per fortuita combinazione che Sonia Delaunay nel ‘76 aveva elogiato i suoi paesaggi esposti nella galleria di Fiamma Vigo a Venezia. E mai avrebbe saputo che due maestri della critica d’arte del Novecento, Francesco Arcangeli e Roberto Longhi, avevano discusso d’un suo paesaggio da presentare alla Biennale se non glielo avessi rivelato io, che di quell’interesse trovai traccia per caso (Carteggio Longhi-Pallucchini, Edizioni Charta, Milano, 1999, pag. 326). “Quando le luci saranno spente e molti anni saranno trascorsi” - ripete Godi -“tutto l’odierno clamore sarà dimenticato. Resteranno solo i quadri. E chissà…”. […]
Di Admin (del 02/11/2011 @ 00:00:01, in dBlog, linkato 2488 volte)
Olga Khokhlova
Essere un pittore di fama internazionale certamente ha aiutato Picasso con le donne. Sono tante infatti le donne di Picasso, tante, e tutte giovani e belle, da farlo passare per un vero playboy. Di seguito una breve lista delle sue mogli ed amanti conosciute:
Marie -Thérèse Walter
- Fernande Olivier(il primo amore di Picasso; lei 18 anni e lui 23) - Marcelle Humbert AKA Eva Gouel(lei 27 anni, Picasso 31) - Gaby Lespinasse(Pablo aveva 34 anni, non so quanti anni avesse Gaby, ma era giovane, questo è sicuro!) - Olga Khokhlova(la prima moglie; quando si sono conosciuti lei aveva 26 e lui 36 anni) - Marie -Thérèse Walter(lei 17 anni, lui 46) - Dora Maar(lei 29, Picasso 55) - Françoise Gilot(aveva 21 anni quando conobbe Picasso che ne aveva 61) - Geneviève Laporte(uno degli ultimi amori di Picasso. Era la modella francese del pittore. All'inizio, lei aveva circa 25 anni e lui una settentina)
- Jacqueline Roque(divenne la sua seconda moglie quando aveva 27 anni e lui 79)
MADRE - MUSEO D'ARTE DONNA REGINA - 29 ottobre - 5 dicembre 2011: La mostra seguendo l'originale procedimento artistico di Vitagliano, un'esecuzione protratta nel tempo e nel suo percorso esistenziale, presenta una serie di opere a cui l'autore ha lavorato in varie fasi tra il 1984 ed oggi. Un processo di stratificazione di immagini e di idee che la capacità sinottica del territorio circoscritto del quadro esalta e al contempo armonizza. Volti e personaggi sono il risultato di una composizione continuamente in fieri, dove la memoria scandisce il suo ritmo e l'avvicendarsi degli interventi sulla tela
ICONE, Salvatore Vitagliano a cura di: Antonio Biasiucci e Mario Martone Conferenza stampa sabato 29 ottobre ore 11.00 Inaugurazione sabato 29 ottobre ore 19.00 Sabato 29 ottobre alle ore 11.00 si terrà la conferenza stampa di presentazione della mostra “Icone” dell'artista Salvatore Vitagliano (Valle Caudina, 1950). Alla conferenza parteciperanno insieme all'artista, i curatori della mostra Antonio Biasiucci e Mario Martone. La mostra seguendo l'originale procedimento artistico di Vitagliano, un'esecuzione protratta nel tempo e nel suo percorso esistenziale, presenta una serie di opere a cui l'autore ha lavorato in varie fasi tra il 1984 ed oggi. Un processo di stratificazione di immagini e di idee che la capacità sinottica del territorio circoscritto del quadro esalta e al contempo armonizza. Volti e personaggi sono il risultato di una composizione continuamente in fieri, dove la memoria scandisce il suo ritmo e l'avvicendarsi degli interventi sulla tela. Come sintetizza bene Mario Martone le opere di Vitagliano possono essere paragonate alle icone della tradizione russa e orientale: “[sono] enigmi spirituali, senza alcun dubbio, affrontati nel loro caso guardando non a Dio ma a loro, guardandolo in volto, fissando i suoi occhi, toccando le sue mani. Da qui, per me, nascono la straordinaria bellezza dei volti dipinti da Salvatore Vitagliano e la sua pittura allo stesso tempo ferma e sfuggente, non catalogabile, un luogo silenzioso che appare per incanto dal ventre della città spezzandone il rumore. La stessa dimensione di questi lavori, nella maggior parte dei casi così raccolta, chiama all'attenzione silenziosa, alla scoperta. Una volta visto, un volto di Salvatore difficilmente viene dimenticato.”
Placido nacque a Napoli nel 1909, ma ha vissuto a Portici sin da bambino. Ha dipinto per circa mezzo secolo ed ebbe ad affermarsi sin dal 1938 alla Sindacale d'Arte di Napoli. Numerose sono le sue presenze nelle rassegne e personali in tutta Italia. Placido è morto a Portici nel 1983.
Errico Placido, il suo casato è in stridente contrasto con il suo temperamento di uomo e di Artista. Egli nella sua vita quasi sempre movimentata, quasi sempre incerta, che si è svolta e si svolge in un gioco di sensazioni e di emozioni, di entusiasmi e di avvilimenti, non ha fatto altro che il pittore, il pittore che vive con la pittura e della pittura. Iniziò tanti anni fa con Luigi Crisconio a Portici. Era appena un adolescente, e seguì il maestro nelle sue faticose peregrinazioni per le campagne vesuviane e le spiagge del golfo di Napoli, con lunghe soste sotto il sole, alla ricerca del motivo. Ne ha consumate scarpe, in queste sue escursioni di apprendissage! Tornava a casa stanco, stordito ma contento di aver dipinto sotto la guida di Crisconio. Era nato pittore. Crisconio, pur così rapido, così impetuoso nel dipingere, spesso rimaneva sorpreso dalla furia con cui il suo giovanissimo allievo e amico realizzava un paesaggio. Da quel tempo ad oggi, Errico Placido ha dipinto migliaia e migliaia di quadri, vagando da un capo all'altro d'Italia, non più a piedi ma in automobile. (La macchina) mi disse un giorno, "mi è di grande vantaggio, mi scopre il paesaggio. Mentre corro a tutta velocità mi fermo di botto, apro la cassetta e mi metto a dipingere ". Pittore di grande istintività, autodidatta, lavorando incessantemente tutti i giorni si è liberato di ogni influenza del maestro raggiungendo un suo stile, ritrovando un suo mondo poetico. Se risorgesse, anacronisticamente, la Repubblica di Portici (Scuola Resina), certo sarebbe il pittore Placido a spiccare quale protagonista. E non soltanto per i suoi meriti innegabili di artista del pennello ma per la singolarità estrosa del personaggio, che qualche decennio fa, quando non era uscito ancora dalla adolescenza, incantava gli spettatori in molti teatri d'Italia con gratuita esibizione di giochi di prestigio (fazzoletti, palline multicolori, che sparivano e riapparivano da una manica, in cappello, da una tasca del cappotto degli astanti, fiorivano dai punti più imprevisti, assecondando l'acrobatico movimento delle mani). Anche questi effimeri prodigi preludevano, del resto, ai tanti doni naturali del futuro pittore, e, in particolare, a quella rapidità di esecuzione da "Luca fa presto", a quella sicurezza della composizione sempre equilibrata, a quella inesauribile libertà del concepire e sveltezza nell'eseguire, a quella continua vitalità dell'espressione, sempre idonea ai suoi fini e coerente alla qualità della visione. E questo, tanto che si tratti di una figura o di un paesaggio, di una marina o di un nudo: ogni cosa compiuta con una pennellata fremente ed intensa, che è sommaria soltanto all'apparenza. La fragranza del colore e la briosità del segno si amalgamano in fluidità di sintesi soprattutto in certi assembramenti di figure del circo e, meglio ancora, in certe individuazioni di personaggi della scena: un pierrot lunare, un pagliaccio trasognato, un arlecchino beffardo e altri personaggi, che sono colti in atteggiamenti e moti istantanei o al fuoco della ribalta o al riparo delle quinte. E' qui che il colore sprizza particolarmente vibrante e definitorio che si può scorgere in pieno lo scatto dell'originalità di Placido. E' allora che il segno si identifica con il colore e il gusto della sintesi si distacca dalla tradizione locale e il pittore si immerge in un contesto europeo, tra la schiera francese dei "Fauves" e quella degli espressionisti tedeschi del "ponte" (Die Brùcke). Ma il suo temperamento, sorretto da sensibilità e fantasia, si rivela ancora nelle composizioni di figure e di nudi sapientemente organizzati, in un paesaggio idilliaco, in una marina sconvolta dalle onde, in una natura morta intensamente cromatica, in un mazzo di fiori di trepida freschezza primaverile. Qui i toni freddi e i toni caldi che si bilanciano in variazioni controllate da forza e sensibilità, diventano poetiche modulazioni di una fantasia che persegue sempre il miraggio di cogliere l'aspetto della natura, degli affetti, della memoria, in una similare evidenza di realtà e di sogno. Il segno di Placido si identifica, allora, con il colore assimilandone l'essenza interiore. E' qui il segreto della sua appassionata gioia di vivere: una gioia che si riscontra così negli affetti umani come nello spettacolo dei fenomeni e delle stagioni. Ricordo un giorno in cui ci incontrammo a Milano con il collega Marco Valsecchi e parlammo del temperamento artistico di Placido. Insieme convenimmo che se il nostro artista avesse avuto il coraggio di mettere da parte i sentimenti e l'amore per la sua Napoli, avrebbe certamente ricevuto consensi validissimi per la sua pittura, oltre confini. Carlo Barbieri
Da un articolo della giornalista Stella Cervasio, pubblicato su Repubblica sezione di Napoli ed intitolato "I tesori della metro", leggo con estremo piacere che il primo insediamento greco sul Monte Echia, collina di Pizzofalcone, deve essere retrodatato di almeno 100 anni.
Tutto ciò sta a significare che occorrerà riscrivere la storia delle origini della città. "Scavando una metropolitana si trova la sirena. Quella con la "esse" maiuscola, Parthenope. E si scopre anche che è più antica di quel che si credeva. La Soprintendenza di Napoli e Pompei con l'archeologa Daniela Giampaola alla direzione dei cantieri di scavo per il metrò in azione ormai da un ventennio, aggiunge una perla alle scoperte dovute al metodo sperimentato a Napoli della "archeologia preventiva". Il 20 ottobre, in una gremita sala del Museo Archeologico, la conferenza di presentazione della stazione della linea 6 della metropolitana, quella in Piazza S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone. La lentezza dei lavori si traduce in positivo nello scavo di reperti, ma ancor più nella sorpresa di una datazione che cambia: prima si riteneva che la Napoli greca, Parthenope, fosse stata fondata nel VII secolo a.C.. In base agli scavi si risale invece all'VIII secolo. La sorpresa è che l'epoca avvicina tra loro gli insediamenti di Pithecusae (Pitekussai) l'odierna Ischia, e Cuma (Kyme) con quello della terra ferma.
"Parthenope non è morta. Parthenope non ha tomba: Ella vive,splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. E' lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene. Quando vediamo comparire un'ombre bianca allacciata ad un'altra ombra, è leicol suo amante, quando sentiamo nell'aria un suono di parole innamorate, è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baciindistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando unfruscìo di abiti ci fa fremere, è il suo peplo che strisciasull'arena, è lei che fa contorcere di passione, languire eimpallidire d'amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, nonmuore, non ha tomba, è immortale....è l'amore"
L'opera è firmata e datata in basso a sinistra: "F. Cangiullo. Cannes 56". A tergo il titolo. Opera esposta alla mostra personale "Addio mia bella Napoli" (1956) alla galleria Blu di Prussia.
Paolo Ricci sulla mostra: "Nel dicembre del 1956 Cangiullo organizzò, nella galleria napoletana «Blu di Prussia», una mostra molto originale. Egli espose tavolette e libri in una bancarella, mescolando pitture e volumi alla rinfusa, dove, accanto a vecchie edizioni della sua opera letteraria, vi erano gli opuscoli e i volumi usciti di recente. La mostra era intitolata «Addio mia bella Napoli», come un suo volume edito da Vallecchi; così, nel corso dell’esposizione, i frequentatori della galleria potevano pescare le opere di Cangiullo stampate nel giro di oltre 40 anni, insieme a cumuli di pitture, messe alla rinfusa, come una «merce». Con questa mostra Cangiullo compì un gesto dadaista, che fu l’ultimo exploit della sua vita di «irregolare»".
Paolo Ricci così scrisse di Cangiullo sul quotidiano «Il Corriere di Napoli», il 29 maggio del 1937in occasione della pubblicazione dei libri «Le vie della città» e «Paesi»: «Francesco Cangiullo è un curioso tipo di poeta: trasandato, con un piccolo cappello sulle ventitré, silenzioso, munito sempre di un piccolo bastoncino di bambù, come era abitudine, dei vecchi “guappi”, cammina sempre solo per le vie di Napoli, strizzando gli occhi come chi si difenda dai raggi del sole, osservando tutto quanto gli capiti di incontrare con l’acutezza di chi è obbligato a riferirlo a non so a chi... A vederlo così girovagare per la Pignasecca o per le altre vie affollate della Napoli borbonica, pare impossibile, inaudito immaginare un Cangiullo violentissimo polemista, raffinatissimo conoscitore dei movimenti d’avanguardia di tutto il mondo, partecipante al più famoso e rumoroso gruppo avanguardista dell’anteguerra e dell’immediato dopoguerra, creatore, insieme alla “caffeina d’Europa” (vogliamo dire Marinetti) del Futurismo italiano. È difficile individuare sotto le spoglie di questo piccolo borghese annotatore affettuoso delle caratteristiche di colore napoletano l’amico di Apollinaire e di Valery, l’assaltatore dell’Università all’epoca dell’interventismo ... il creatore delle lettere umanizzate e del Teatro della Sorpresa; il collaboratore di quel genio sfrenato ed insuperabile che era Ettore Petrolini ...al poeta sfavillante, parolibero, entusiasta, è succeduto lo scrittore maturo, attanagliato alla vita reale, ... da una coscienza umana che esclude qualsiasi forma di dilettantistimo ... Dopo aver letto questo libro ci si rende conto di aver letto la vita di un poeta».
Dopo la recensione, Cangiullo scrisse una lettera a Ricci che esprimeva la sua commozione. Tra l’altro affermava: «Io sto pagando da anni il lusso dell’arte mia con la mia spietata miseria; ma se tale arte trova tali ammiratori ..., io sono fiero e felice di pagarla talvolta col mancato pasto ai miei figli».