Sabato 15 ottobre 2011, alle ore 18, si inaugura al Museo Emblema di Terzigno la mostra “El alma del Paisaje” del pittore argentino Ricardo Valdez, per la prima volta in Italia.
Ricardo Valdez è originario di Catamarca nel nord dell'Argentina, nato nel 1966 è attivo dal 1982. I suoi acquerelli sono dipinti quasi esclusivamente "en plein air" tra i paesaggi montani della sua terra. La tecnica pittorica risente di una impostazione non educata e personalissima, conseguenza di un approccio eminentemente autodidattico. Le opere di Valdez sono oggi inserite nel Museo Laureano Brizuela di Catamarca, in numerose ambasciate argentine nel mondo, tra cui Honduras, Libia, Cile ed in alcune collezioni pubbliche statunitensi ed europee. Prima di questa mostra non ha mai esposto in Italia. Di Lui ha scritto Estella Suaviter de Fedulo, Direttrice della Escuela de Artes Plasticas - Roberto Gray "...Valdez lascia la sua presenza, e permette di apprezzare il mistero di un momento che pulsa vita ed emozioni, un istante che rimane raccontato per sempre, come se si facesse eterno. Valdez nei suoi acquerelli traduce tutto questo in linguaggio plastico, e con naturalezza lascia intuire l'energia creatrice: che è un fatto dello spirito. E' così come quando si riesce a fare fisico il lampo di un idea ispiratrice".
Le quattro vedute di Napoli realizzate dall’incisore belga Antoine Alexandre Joseph Cardon (1739 - 1822), tratte da dipinti di Gabriele Ricciarelli, danno una visuale completa della città e sono: "Veduta di Chiaia dalla parte di Levante", "Veduta di Napoli dalla parte di Ponente", "Veduta di Ponte Nuovo" e "Veduta di Chiaia dalla parte di Ponente", ciascuna incisa su due lastre di rame. Manca l'altra "Veduta di Chiaia dalla parte di Ponente", che, a differenza della prima datata 1765, è una modifica della precedente incisa in seguito alla realizzazione degli interventi di Carlo Vanvitelli e dunque dopo il 1781. Nella serie di vedute protagonista è Napoli rappresentata non in un unico disegno ma secondo molteplici punti di vista e prospettive. Evidente è anche il ruolo e l’importanza assunti dalla Riviera di Chiaia, che rappresenta il nuovo quartiere residenziale di lusso della città. Le tavole sono tutte dedicate a importanti personalità straniere, tra cui diplomatici e viaggiatori che costituiscono molto spesso i committenti e gli acquirenti delle rappresentazioni della città da parte di pittori, disegnatori o incisori.
Le cinque vedute dell'artista francese Antonio Cardon, di cui quattro (quelle che presentiamo qui) dichiaratamente tratte da dipinti di Gabriele Ricciardelli, tutte realizzate in due rami, rispondono alla logica tipica della rappresentazione topografica. Ma si è passati, come si vede, ad un numero di quadri già lontano da quella che è sempre stata l'ambizione prima della narrazione cartografica: un unico disegno, pienamente, intensamente e simbolicamente rappresentativo; la realtà viene quindi riconosciuta come molteplice, stemperata cioè in una serie di quadri e tagli particolari, con essi si viene frammentando la loro rappresentazione ed interpretazione. La città, come soggetto unitario sembra uscire insomma (o meglio sfuggire) dalla prospettiva del vedutismo topografico. Ma anche nel proliferare di più immagini rappresentative, rispuntano le due vedute tradizionali, che per l'occasione si trasformano più veridicamente in vedute dalla terraferma.
Cosi la prima, dedicata W, Hamilton e provvista di 30 riferimenti, ritrae la spiaggia di Chiaia dalla strada che raggiungeva, all'estremità del litorale, il casino Di Gennaro (poi Cantalupo) che un tempo sorgeva sull'acqua, dove le carrozze giravano su se stesse e dove la presenza della spianata dava occasione ad una sosta d'obbligo ed a qualche improvvisazione popolare.
Dedicata a Milord Mountstuart e corredata di 36 richiami, la seconda veduta, che guarda alla città dalla spiaggia del borgo Loreto, ne restituisce una inquadratura per cosi dire simmetrica della prima, nella quale si replica e privilegia il rapporto col mare, che è il tema comune e dominante di tutt'e cinque le eleganti vedute. Lo scorcio delle case del borgo e del bastione del Carmine è, tra l'altro, dei meno frequentemente rappresentati.
Seguono la veduta di Ponte Nuovo e le due di Chiaia. La prima ritrae la piccola darsena del Mandracchio, cui si accedeva ormai sottopassando le arcate di un ponte che lo delimitava verso l'esterno e che era parte della sistemazione del litorale realizzata da Carlo III intorno al 1740, insieme con l'edificio dell'Immacolatella, anch' esso ben visibile di prospetto. La veduta è dedicata al conte di Coblenza, ministro plenipotenziario della imperatrice, per i Paesi Bassi, ed ha 24 riferimenti topografici.
Le due vedute di Chiaia (qui presentiamo in immagine solo la prima), dedicate al generale inglese Luigi di Walmoden, con 30 riferimenti topografici, si riferiscono a due diverse zone del litorale, anche se lo sfondo è lo stesso. Confrontando infatti gli scorci della cortina edilizia a destra, si osserva che — mentre nella prima incisione, con la grande fontana in primo piano — il quadro della veduta è relativo ad un punto di vista collocato all'incirca a metà dell'intero litorale, non molto lontano dall'antico palazzo del marchese Della Valle Mendoza (provvisto di una forte torre sporgente dalla facciata e chiaramente visibile sul fondo a destra), nella seconda l'autore si colloca più lontano di diverse centinaia di metri, per riuscire a vedere l'intera Villa reale. Ora, si deve osservare ancora che lo sfondo costituito dalla collina di Posillipo è esattamente lo stesso nelle due vedute, sicché la lastra originaria della prima incisione dové essere abrasa quindici anni più tardi nelle parti in primo piano e nella prospettiva laterale fortemente scorciata di cui si è detto, per aggiornerla ed incidervi una dettagliata raffigurazione della Villa. (fonte: "La città di Napoli tra vedutismo e cartografia")
Tutte e quattro le incisioni sono pubblicate in b/n nel libro-catalogo "La città di Napoli tra vedutismo e cartografia" da pag 256 a pag 260 (mostra al Museo di Villa Pignatelli 16 gennaio - 13 marzo 1988) a cura di Giulio Pane e Vladimiro Valerio, edito da Grimaldi, Napoli.
CENNI BIOGRAFICI:
Antoine Alexandre Joseph Cardon (Bruxelles, 1739 – 1822), incisore di fama internazionale, lavora a Vienna, Roma e Napoli. Qui collabora alla pubblicazione delle “Antichità etrusche, greche e romane” di William Hamilton, incide le tavole sui disegni di Giuseppe Bracci per la "Raccolta delle più interessanti vedute della città di Napoli e luoghi circonvicini" e partecipa alla realizzazione degli "Avanzi delle Antichità di Pozzuoli, Cuma e Baia" di Antonio Paoli; sue sono anche le due belle mappe topografiche incise nel 1772: "Icon crateris neapolitani", dai Campi Flegrei alla Penisola Sorrentina, e "Icon sinus Baiarum", da Posillipo a Lago Patria.
L'opera è firmata in basso a destra: "F. Galante". Firma, titolo, anno a tergo.
[…] Figura anch’essa legata alla tradizione, con un profilo più autonomo e controllato, attento al volgere dei tempi, ma fedele ad un modo tutto suo d'intendere la pittura, è Francesco Galante (1884-1972), artista acuto nella rappresentazione delle pulsioni d’una società borghese, di cui egli ha saputo accarezzare compiacente le piccole manie e le ambiguità talvolta sottili, talvolta struggenti. Negli Interni riesce più convincente, poiché ci restituisce uno «spaccato» di questa borghesia acquiescente, di queste signore che vivono l’atmosfera ovattata e rassicurante dei propri appartamenti coi balconi aperti sul golfo, ma anche con qualche angolo oscuro. E così nei ritratti; ove non s’adagia alla riproduzione del «tipo», ma cerca di scandagliare nella psicologia del personaggio. Il pittore della discrezione, potrebbe essere definito o del «grigio», come lascia evocare facilmente il titolo stesso d’un suo dipinto di veduta del porto di Napoli: “Grigio su Napoli” della collezione Morelli. (Rosario Pinto da “La Pittura Napoletana” Liguori Editore, 1998 )
FRANCESCO GALANTE (Margherita di Savoia, Foggia, 1884 - Napoli 1972). Dopo aver appreso i rudimenti del disegno alla scuola elementare di Margherita di Savoia, Francesco Galante si trasferì nel 1896 a Napoli. Si iscrisse all'istituto di Belle Arti dove ottenne tra il 1899 e il 1904 numerosi riconoscimenti. Nel 1904, conclusi gli studi, si trasferì a Milano dove collaborò con le case editrici Sonzogno e Treves e con la rivista "Varietas" per la realizzazione di illustrazioni. Dopo circa un anno si trasferì a Roma e poi a Napoli dove divenne caricaturista presso il giornale umoristico “6 e 22” e parallelamente iniziò a dedicarsi alla pittura, realizzando in particolare paesaggi e ritratti in cui iniziò a sperimentare la sua particolare ricerca sul colore, dal gusto impressionista. Da allora Galante iniziò a esporre in tutte le più importanti mostre tra cui tutte le Sindacali napoletane (tranne quella del 1930) le mostre della Promotrice (1904, 1911, 1912, 1915-16, 1920-21) e le Biennali di Venezia (1910, 1912, 1914, 1920 e 1922). Tra i soggetti preferiti fin dai primi tempi ci sono interni e soprattutto ritratti di persone care come “Attrazione” (1914. Napoli. Circolo Artistico Politecnico), “Riposo” (Comune di Napoli, acquistato alla Promotrice. del 1915). Dal 1914 al 1957 insegnò nell'Istituto di Belle Arti di Napoli, prima Figura e, poi, Arti grafiche. Con la fine degli anni Venti si assiste nella poetica di Galante a una svolta novecentista caratterizzata da un maggiore realismo e da una produzione più delicata e intimista. Al centro della sua ricerca si pose l'ambiente domestico indagato in tutte le sue declinazioni, sia come simbolo della tranquillità dei personaggi della Napoli borghese, sia come espressione schietta degli affetti familiari. […] A partire dagli anni Trenta lo stile di Galante si fa più solido, scompare la caratteristica pennellata sfrangiata degli anni precedenti, e si assiste a un abbassamento delle gamme cromatiche, insieme a una nuova plasticità delle figure. Nel dopoguerra Galante recuperò lo stile delle sue opere giovanili insieme a tinte più chiare. Nel 1953 decorò il soffitto del teatrino di corte del Palazzo Reale con “Le nozze di Anfitrite e Posidone”, nel 1955 tenne una personale presso la Galleria Mediterranea e nel 1965 l'ultima presso il Circolo Artistico Politecnico. (Elisa d’Agostino da “9cento. Napoli 1910 – 1980 per un museo in progress” Electa Napoli, 2010 )
L'opera è firmata in basso a destra: "F. Galante". Firma e titolo a tergo.
Dal 1896 al 1904 studia all’istituto di Belle Arti di Napoli, allievo di Volpe e Cammarano. All’attività di pittore accosta sin dall’inizio quella di illustratore (“Varietas”, 1907-08) e di insegnante (Istituto Statale d’Arte, 1914-57; Accademia, 1930-32). E presente alle maggiori manifestazioni artistiche napoletane (Promotrici Salvator Rosa), nazionali (Biennali veneziane, Torino, Roma, Milano) e internazionali (Parigi, Salon d’Automne, 1909; Santiago del Cile, 1910). Partito da esperienze di gusto impressionista e “nabis”, negli anni Trenta si accosta ai modi di Novecento. (“Novecento Italiano” 1998 – 1999. ed. De Agostini)
Nell’osservare con attenzione le opere di Ilario Giro viene spontaneo domandarsi chi sia l’uomo che vi si nasconde internamente, chi sia colui che le pensa e le immagina prima di trasformarle in opere d’arte. Dunque, nel momento in cui si conosce l’autore, e si ha modo di dialogare con lui, il suo mondo si rivela all’istante. Approssimativo è pensare di incontrare un uomo che semplicemente trasporta sulla tela le sue passioni. Si intuiscefin da subito che nei suoi lavori c’è molto di più. Dopo un periodo legato al figurativo, la sua espressione pittorica è approdata a forme astratte libere da costrizioni formali; nelle sue opere, infatti, esplodono forme e colori, o meglio idee, che creano con il fruitore una fitta rete di scambi, una concentrazione dei concetti che dominano l’esistenza di ogni essere umano: la gioia e il dolore,la luce e il buio, la pace e la guerra, la vita e la morte. Nel suo lavoro sperimenta tecniche e materiali con vivace spirito creativo, il cui risultato punta essenzialmente a materializzare sulla tela ciò che l’animo sente. Maggior consistenza a tali principi può darla, inoltre, la scelta di materiali per lo più di derivazione naturale, come sabbia, terra, sale, etc. che conferiscono al pigmento un ispessimento robusto e pregnante; difatti la materia cromatica non si presenta come un’ entità statica, ma come una dimensione attiva, vibrante, che nessuno schema o configurazione può delimitare o confinare. Nella realizzazione delle sue opere il gesto è fulmineo, il valore del segno e il senso materico - di forte impatto visivo -sono elementi essenziali della sua arte; nella sua creazione si affidasì all’istinto e alle sue emozioni, attraverso l’azione, ma dimostra comunque di condurre l’impulso creativo verso una manifestazione tutt’altro che casuale. Ciononostante l’opera d’arte per il nostro artista non è una merce, ma il prodotto di un concetto che produce opere che non solo raccontano dell’artista e del suo mondo interiore, ma nel contempo raccontano di noi e del mondo attuale. Il senso di solitudine dell’individuo e la crisi esistenziale, unita a quella dello smarrimento di valori –il lavoro, la cultura, la solidarietà, la lealtà,per citarne alcuni – sono sensazioni che accomunano l’uomo contemporaneo; ed è per questo che nella sua pittura vi è una costante “ansia” di ricostruzione, fondata sulla necessità di valori morali. Le opere di Gironon si svelano completamente all’occhio dell’osservatore, ma lasciano la possibilità di immergersi nelle dense e fitte pennellate, nelle innumerevoli macchie di colore. Pittura semplice, ma ricca di significati. Egli scava nelle profondità del nostro mondo interiore, liberandolo della sua fredda apparenza, dal suo essere troppo materiale. Pertanto l’artista, attraverso il suo linguaggio pittorico, raggiunge sempre l’obiettivo di comunicare e generare emozioni, e non è forse questo il principale obiettivo dell’Arte?Immacolata Marino
VINCENZO VAVUSO
Impulsi incontenibili. Trasporto, sperimentazione, caparbietà: sono le ragioni principali, congiunte all’amore per l’arte, che hanno spinto Vincenzo Vavuso(Caserta, 1972) a cimentarsi nella pittura che ad un certo momento si è imposta nella sua vita come necessità inarrestabile, come mezzo per liberare gli impulsi incontenibili di una creatività irrefrenabile. Dovendo “confrontarci” con un’opera di Vavuso, non si percepisce al primo colpo d’occhiose di fronte si ha un invito concreto alla costruzione oppure alla scomposizione di un’immagine. La verità è che nelle sue opere si avverte il grido di una coscienza tormentata, ogni cosa è in movimento e in relazione con le altre, in una simultaneità globale e dinamica. L’autore ci dona onde vitali di cromie, tempeste dense di segni che, nell’impeto istintivo dell’azione pittorica, riportano alla memoria pratiche informali; ma sembra usare quel linguaggio non per evidenziare le forme della materia pittorica, bensì per comunicare una sorta di caos contemporaneo in cui l’uomo si trova immerso. La sua pittura esprime, infatti, in modo pregnante i suoi stati d’animo, le sue emozioni. Tema dominante è quello esistenziale; in alcune opere, per esempio, si evince un senso di rabbia che nasce dall’intolleranza verso l’egoismo umano. Il fruitore e l’operasi incontrano in un’unica dimensione che si nutre del dialogo tra l’emozione di chi osserva e dell’artista che crea. Chi guarda i suoi quadri è, infatti, parte attiva e integrante dell’opera stessa, ne viene coinvolto, entra nella visionedi un altro uomoe la fa sua, aggiungendo ulteriori significati emotivi. Da un punto di vista pratico la potenza espressiva di questo artista si esprime mediante una tecnica che utilizza campiture ampie e spaziose, e che talvolta “deforma” adoperando il colore in maniera materica, come fosse sostanza viva e pulsante da far gocciolare, da stendere con la spatola, da graffiare, da comprimere. Estremamente decisivi, sensibilmente attivi nella genesi delle forme, sono i mezzi espressivi, i materiali fisici, di questa pittura. Ai colori ad olio si aggiungono frammenti,segature, sabbia, gesso, terra, cera, etc., anche usati talvolta, non solo per dare matericità, ma come elemento di rottura, di dissonanza. È una pittura d’istinto – potremmo dire così – ma è anche una pittura attenta e studiata, quella in cui l’artista dimostra di saper gestire le proprie emozioni per indirizzare il gesto pittorico verso la formazione di un concetto tutt’altro che affidato alla casualità esecutiva. Pittura non di rappresentazione, ma suscitatrice di emozioni: così potrebbe essere descritta in sintesi l’arte di Vincenzo Vavuso. Immacolata Marino
Di Admin (del 19/10/2011 @ 09:45:13, in dBlog, linkato 1364 volte)
Un breve omaggio alla "natura morta" nella storia della pittura, dagli affreschi romani alla pop art, con poesie dedicate al cibo e musica dei Rolling Stones e dei Gun'N Roses.
L'opera è firmata e datata in basso a sinistra: "F. Cangiullo. Cannes 56". A tergo il titolo. Opera esposta alla mostra personale "Addio mia bella Napoli" (1956) alla galleria Blu di Prussia.
Paolo Ricci sulla mostra: "Nel dicembre del 1956 Cangiullo organizzò, nella galleria napoletana «Blu di Prussia», una mostra molto originale. Egli espose tavolette e libri in una bancarella, mescolando pitture e volumi alla rinfusa, dove, accanto a vecchie edizioni della sua opera letteraria, vi erano gli opuscoli e i volumi usciti di recente. La mostra era intitolata «Addio mia bella Napoli», come un suo volume edito da Vallecchi; così, nel corso dell’esposizione, i frequentatori della galleria potevano pescare le opere di Cangiullo stampate nel giro di oltre 40 anni, insieme a cumuli di pitture, messe alla rinfusa, come una «merce». Con questa mostra Cangiullo compì un gesto dadaista, che fu l’ultimo exploit della sua vita di «irregolare»".
Paolo Ricci così scrisse di Cangiullo sul quotidiano «Il Corriere di Napoli», il 29 maggio del 1937in occasione della pubblicazione dei libri «Le vie della città» e «Paesi»: «Francesco Cangiullo è un curioso tipo di poeta: trasandato, con un piccolo cappello sulle ventitré, silenzioso, munito sempre di un piccolo bastoncino di bambù, come era abitudine, dei vecchi “guappi”, cammina sempre solo per le vie di Napoli, strizzando gli occhi come chi si difenda dai raggi del sole, osservando tutto quanto gli capiti di incontrare con l’acutezza di chi è obbligato a riferirlo a non so a chi... A vederlo così girovagare per la Pignasecca o per le altre vie affollate della Napoli borbonica, pare impossibile, inaudito immaginare un Cangiullo violentissimo polemista, raffinatissimo conoscitore dei movimenti d’avanguardia di tutto il mondo, partecipante al più famoso e rumoroso gruppo avanguardista dell’anteguerra e dell’immediato dopoguerra, creatore, insieme alla “caffeina d’Europa” (vogliamo dire Marinetti) del Futurismo italiano. È difficile individuare sotto le spoglie di questo piccolo borghese annotatore affettuoso delle caratteristiche di colore napoletano l’amico di Apollinaire e di Valery, l’assaltatore dell’Università all’epoca dell’interventismo ... il creatore delle lettere umanizzate e del Teatro della Sorpresa; il collaboratore di quel genio sfrenato ed insuperabile che era Ettore Petrolini ...al poeta sfavillante, parolibero, entusiasta, è succeduto lo scrittore maturo, attanagliato alla vita reale, ... da una coscienza umana che esclude qualsiasi forma di dilettantistimo ... Dopo aver letto questo libro ci si rende conto di aver letto la vita di un poeta».
Dopo la recensione, Cangiullo scrisse una lettera a Ricci che esprimeva la sua commozione. Tra l’altro affermava: «Io sto pagando da anni il lusso dell’arte mia con la mia spietata miseria; ma se tale arte trova tali ammiratori ..., io sono fiero e felice di pagarla talvolta col mancato pasto ai miei figli».
Da un articolo della giornalista Stella Cervasio, pubblicato su Repubblica sezione di Napoli ed intitolato "I tesori della metro", leggo con estremo piacere che il primo insediamento greco sul Monte Echia, collina di Pizzofalcone, deve essere retrodatato di almeno 100 anni.
Tutto ciò sta a significare che occorrerà riscrivere la storia delle origini della città. "Scavando una metropolitana si trova la sirena. Quella con la "esse" maiuscola, Parthenope. E si scopre anche che è più antica di quel che si credeva. La Soprintendenza di Napoli e Pompei con l'archeologa Daniela Giampaola alla direzione dei cantieri di scavo per il metrò in azione ormai da un ventennio, aggiunge una perla alle scoperte dovute al metodo sperimentato a Napoli della "archeologia preventiva". Il 20 ottobre, in una gremita sala del Museo Archeologico, la conferenza di presentazione della stazione della linea 6 della metropolitana, quella in Piazza S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone. La lentezza dei lavori si traduce in positivo nello scavo di reperti, ma ancor più nella sorpresa di una datazione che cambia: prima si riteneva che la Napoli greca, Parthenope, fosse stata fondata nel VII secolo a.C.. In base agli scavi si risale invece all'VIII secolo. La sorpresa è che l'epoca avvicina tra loro gli insediamenti di Pithecusae (Pitekussai) l'odierna Ischia, e Cuma (Kyme) con quello della terra ferma.
"Parthenope non è morta. Parthenope non ha tomba: Ella vive,splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. E' lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene. Quando vediamo comparire un'ombre bianca allacciata ad un'altra ombra, è leicol suo amante, quando sentiamo nell'aria un suono di parole innamorate, è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baciindistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando unfruscìo di abiti ci fa fremere, è il suo peplo che strisciasull'arena, è lei che fa contorcere di passione, languire eimpallidire d'amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, nonmuore, non ha tomba, è immortale....è l'amore"