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Autore:

CALIBE GIUSTINO

N - M:

Napoli, 1950

Titolo:

Figura

Tecnica:

Olio su tela

Anno:

2007

Misure:

190 x 190 cm

Note descrittive: Viaggio verso la periferia di Calibé (Ugo Piscopo) Nella nota di presentazione in catalogo della prima mostra personale di Calibé (Galleria Ariete, 1987), Gino Grassi, ponendosi accortamente e generosamente come a uno dei cro¬cevia delle ragioni e dei modi della ricerca del giovane pittore, gli dà una piena autorizza¬zione a procedere oltre, affermando senza riserve che si tratta “di un artista di chiara vocazione che sa il fatto suo ed ha le carte in regola per bruciare le tappe”. Tuttavia, com’è d’obbligo da parte di un addetto ai lavori, per sovrappiù provetto nel mestiere e negli anni, non può non allegargli in ultimo (in cauda, venenum: si diceva una volta) un suggerimento di vigilanza autocritica e di scarnificazione (dell’emotività). Scrive Grassi in termini di osservazione generale per addolcire la pillola, ma innanzitutto per un esercizio di modestia con la propria funzione: “Soltanto il pittore che sa soffrire e che riesce ad adeguarsi ai mutamenti senza rinunciare alle proprie convinzioni [...], può trovare [...] una giusta legittimazione”. Questo viatico, di lucido e sofferto dialogo con sé stesso e con gli svolgimenti del gusto e delle tendenze artistiche, non è una novità per Calibé, vocato da sempre al confronto con i linguaggi in movimento e alle interrogazioni interiori sull’autenticità, sia per scelta sia per il concorso di sollecitanti occasioni culturali, come l’apprendistato al corso di nudo sotto il magistero di Giuseppe Pirozzi, un artista intriso di raffinatezza, quanto percorso da fecon¬de inquietudini inquisitive degli ambiti espressivi. Sulla strada della macerazione, Calibé si spinge in solitudine molto oltre i termini di salva¬guardia delle misure ordinarie e fisiologiche del mestiere: in un serrato spazio di analisi del malessere dell’io e del mondo, seguite anche sulle tracce di folgorazioni poetiche (Calibé frequenta e pratica con essenzialità e pudore la poesia), l’uomo giunge ad affacciarsi e a trattenersi come sul bordo di una sua “saison en enfer”. E ne riporta smarrimenti, ma anche riverberi e accensioni di atmosfere roventi e implosive, oltre che pulsioni all’incupi¬mento, e alle compiacenze per il silenzio, ovvero per le bianche sequenze del silenzio. Di queste contattazioni estreme e come a rischio del nichilismo si hanno rispecchiamenti nelle fasi, come la più recente, dove il fare pittorico si esprime negli inerudimenti e negli spegnimenti del colore in atmosfere chiuse e tetre, nella perdita del bianco immacolato, come fosse la perdita dell’innocenza e della gioia di vivere. La pittura di Calibé, però, non è monocorde. Non è che la tragicità nel suo fare mai si addolcisca o si plachi, perché c’è sempre tensione allo spasimo a essere in consonanza con l’evento dinamico e drammatico che è la vita. Ma ci sono sane e forti sequenze di abbandono al flusso dell’esistenza, all’auscultazione delle dissonanze delle origini e delle intermittenze dei suoni, che intanto aprono faglie per dare opportunità all’ingresso di altri dinamismi e situazioni. Allora la sua pittura si fa assaggio e registrazione, sul versante della minimalità, del crepitio del farsi e dello svolgersi della materia, che lievita e si porta, scartocciandosi, sempre più lontano e in periferia, in smemoramento e spegnimento del centro, nel senso indicato da Poulet per la vicenda letteraria del moderno.

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