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Carmine Di Ruggiero: “Arte e silenzi, ovvero la lotta con l’Angelo” da un brano di Ugo Piscopo estratto dalla monografia “Carmine Di Ruggiero nel vento solare della luce” del 2013

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Carmine Di Ruggiero: “Arte e silenzi, ovvero la lotta con l’Angelo” di Ugo Piscopo

 

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Carmine Di Ruggiero – Carta 100 x 70 cm del 1961

 

Carmine Di Ruggiero, all’avvio degli anni Ottanta, autoesaminandosi secondo un’antica consuetudine di maceranti vigilie interiori e considerando la mappa integrale dell’insieme delle sue esperienze trascorse e in atto, perviene alla determinazione, soft, cioè senza drammatizzazioni, come è nel suo stile, ma ferma, di dare uno sbocco a tutte le tensioni ideali, che hanno nutrito e che stanno nutrendo la sua avventura artistica, in un vasto bacino fluviale, che sarà nelle intenzioni e nei fatti un po’ come quello del San Lorenzo nel Canada, che presenta tratti ampi più oceanici, che fluviali. In questo nuovo corso, c’è l’apporto delle acque che hanno alimentato le idee e le opere del passato, ma si immettono il vigore e la forza di trascinamento e di tenuta complessiva del tutto di un fare che ha scelto di fare e per sempre, nel massimo della convinzione, nel massimo della consapevolezza, nell’identificazione totale con la missione, attesa dalle situazioni, ma al di là di ogni teatralizzazione di massa, di ogni strumentalizzazione personale e/o di gruppo, di ogni concessione a calcoli, a mode, a traffici, a sollecitazioni allotrie.

Di qua in poi, si inizia non una nuova stagione, che si aggiungerebbe a quella postimpressionista, a quella informale, a quella oggettuale, a quella geometrica ma una vicenda, che ingloba ed esalta l’attività precedente e, intanto, va oltre in una prospettiva agonica di coinvolgimento di tutte le energie, di interrogazione appassionata dei destini dell’arte nel nostro tempo e di scommessa totale, senza riserve, senza reti di protezione, sulla non-morte, non-futilità, non-inessenzialità dell’arte. La scelta è di Carmine Di Ruggiero, e della sua robusta e comburente capacità di riflettere e fantasticare. Essa si matura, però, e in certo senso si spiega, in un contesto storico di ripensamenti e di ridefinizione di relazioni col mondo e con sé stessi, e, insieme, in una temperie culturale contrassegnata da processi di attenuazioni e liquefazione dei contrari, di allentamenti e rarefazioni, oltre che di pregiudiziali pareggiamenti, delle spiegazioni ermeneutiche, di tentazioni diffuse di transitazioni da una situazione all’altra.

In quanto al contesto storico, non si può non tener conto della svolta che avviene nel corso degli anni Ottanta, che lì per lì in Italia prende nome di “riflusso”, ma è qualcosa di molto di più, in quanto avvia un processo, che investe i costumi, le idee, i rapporti economici, le istituzioni e che sarà decisivo per la vita pubblica e la vita privata dei decenni successivi.

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Carmine Di Ruggiero – Carta 30 x 20 cm del 1993

Sul piano antropologico, in divergenza dai sussultori e ribellistici, se non quasi rivoluzionari anni Settanta, si riscopre e si esalta il privato, si rilegittima la figura paterna, si comincia a trovare opportuno, se non comodo da parte dei giovani farsi nicchia nella famiglia, far leva sui privilegi acquisiti, tollerare il mantenimento, se non il potenziamento degli “status” sociali, cioè delle corporazioni, esibire (quando sia possibile), gli attributi dell’esteticità e della ricchezza come valori. Sul terreno politico, si avvia un notevole appannamento dei soggetti politici istituzionali, si profilano sulla ribalta nuove formazioni politiche e sindacali, si sgretolano e si polverizzano i movimenti studenteschi. Insieme con l’indebolimento e la progressiva delegittimazione della vecchia classe politica e sindacale, si insinuano e si fanno sempre più persuasive le tentazioni dell’antipolitica, del qualunquismo, del cinismo ideale e si avviano ricerche di revisione della storia patria, utilissime se indirizzate a integrare e arricchire il panorama dei dati e dei fatti conosciuti e da conoscere, ma dannose, se e quando vengono adoperate in funzione ideologica. Sul piano agricolo-alimentare, si delinea il rafforzamento di due tendenze fra loro contraddittorie: da una parte, per esigenze di nutrizione delle popolazioni del pianeta, cresce il commercio internazionale dei prodotti agricoli e, a livello della Comunità europea, prevale un indirizzo sovranazionale, che oggettivamente penalizza il sistema produttivo italiano; in conseguenza di ciò, in Italia, allentandosi gli interventi di carattere strutturale di sostegno al sistema paese, si creano squilibri e forti differenziazioni a livello aziendale e territoriale, con cui bisognerà fare i conti in seguito. Nel campo della comunicazione, si pongono le premesse di un problema, che si farà sempre più corposo e pervasivo successivamente (anni Novanta e anni Zero del nuovo secolo) di una seria regolamentazione delle reti televisive; finalmente, infatti, termina il monopolio della comunicazione di Stato e si avvia un regime di concorrenza fra diversi canali e diverse società, ma oggettivamente si favorisce l’occupazione abnorme degli spazi da parte di un’azienda, che orienterà l’opinione pubblica secondo propri modelli e soprattutto propri interessi. Nel campo della ricerca e delle politiche di sviluppo, risulta sempre più corposo un allargamento della forbice tra ambizioni di cambiamento del modello di riferimento in senso avanzato e liberale da una parte e la debolezza e la contraddittorietà, dall’altra, degli investimenti sul terreno della ricerca e delle applicazioni delle nuove tecnologie.

Con questo clima di decomposizione di certezze precedentemente solide, di macerazione di veleni e, insieme, di fermentazione di nuovi orientamenti aperti all’utilizzo familistico, dei clan, dei gruppi di potere, si intrecciano le luci e le ombre delle situazioni specificatamente artistiche e/o della cultura artistica. Dove si registra un fiorire di proposte eccitanti e perfino sofistiche, insieme con una crescita di domanda e di aspettativa di eventi, di iniziative, di dibattiti, di fronte a cui, però, nei fatti si diramano una stagnazione, un rammollimento, una patologica astenia nella tenuta del giudizio, nell’assunzione dei valori, nel coraggio delle opzioni. In questo paesaggio in certo senso crepuscolare, il bianco può diventare nero e viceversa, l’arte fa l’occhiolino alla proclamazione (ripetuta all’infinito ed esibita come gesto d’ intelligenza e di collaborazione viva col proprio tempo) della sua morte, sono accolti ed esaltati come artistici qualunque prodotto, qualunque gesto, qualunque accadimento, a cui si assegni a monte e si ribadisca attorno il valore di artisticità, purché se ne discuta, ne nasca meraviglia (in positivo o in negativo, non conta), sia argomento di argomentazioni. Richiami energici a reagire a tanta ambiguità e mollezza ideale provengono, con vario stile, da varie fonti critiche, particolarmente da parte di Giulio Carlo Argan, uno degli studiosi e teorici dell’arte più autorevoli del tempo. Esattamente a metà degli anni Ottanta (1985), a conclusione di un suo intervento, considerando il paesaggio complessivo della situazione artistica italiana e i termini chiamati in causa nel dibattito, che a lui sembrano deprivati di vigore e sostanzialmente pronti ad avvitarsi sterilmente su sé stessi, egli si pone alcune domande dettate da forte passione ideale, ma molto pertinenti, e, insieme, apre degli squarci profondi sul malessere che cova qui da noi: “In Italia il problema dell’arte odierna si presenta più pressante che altrove […] Nella maggior parte dei casi, il ritorno per lo più puramente iconico a tipologie e morfologie barocche e neoclassiche non indizia una scelta, un’interpretazione, un giudizio, ma soltanto un incontro quasi fortuito che non dà luogo a un pensiero, ma soltanto a divagazioni sull’arte. Pur di non screditare la «logica» della storia si cerca nel gioco delle associazioni e combinazioni più o meno freudiane delle immagini una diversa meccanica del fare artistico. Ma quest’arte che si eccepisce non soltanto da un sistema tecnologico e dalle sue leggi, ma dalla stessa «modernità» in quanto fattor comune a tutta la cultura, si accontenta di eccepirsi o dalla secessione intende passare alla critica, alla confutazione, all’aggressione contro il sistema? E se par difficile concepire l’arte fuori dall’idea di valore, non sarà ancora più difficile vederla come una contraddizione al sistema, se non ha, come non ha, un principio, una sollecitazione morale? Sentiamo artisti e critici parlare con didattico biasimo dell’ideologia e ancor più dell’utopia rivoluzionaria delle avanguardie […] Un’arte che ricusi un sistema che non cerca di cambiare non è né rivoluzionaria, né controrivoluzionaria: è conformismo perverso […]” (in AA.VV., Profili dell’Italia repubblicana). Il quadro presentatoci da Argan, più che “crepuscolare”, come si diceva sopra, è tetro, ad altezza di una risentita visione di riscatto, tradita dall’ignavia, dagli sterili balbettamenti di quelli che animano la scena artistica nazionale, dalle presunzioni di un fare velleitario, fumoso, contraddittorio. In queste parole, si sente l’ardore del profeta, che vuole trasmettere un messaggio forte e chiaro al suo popolo, che indecorosamente si intrattiene in divagazioni e autoinganni. Ma, fatta la tara della fierezza ideale e dell’impegno di missione intellettuale, i punti di riferimento problematici proposti da Argan rispondono a termini oggettivi. La situazione reale, infatti, si connota, purtroppo, di superfetazioni di un discorso sull’altro, di regressioni verso zone evasive di deresponsabilizzazione sul piano delle scelte, dove si sceglie per non scegliere, verso una recita di alterità in fuga. Perché si opera semplicemente a fini ritualistici, per marcare le separatezze, per intrattenimenti in territori arcadicamente dilettosi. Giustamente Argan mette sotto accusa i ripiegamenti sul barocco e sul neoclassico, consapevoli o inconsapevoli, ma così dilaganti in questo periodo, non perché egli non abbia stima del barocco e del neoclassico, ma perché vuole e deve mettere a nudo le passività, l’oziosità, le mistificazioni di chi si rifugia sotto le ali protettive di operazioni che hanno avuto successo ricavandone utili materiali e immateriali e, intanto, tenta di vendere di sé l’immagine di uno impegnato sul fronte aspro e scomodo della effettiva ricerca. Come dar torto ad Argan? Pensiamo a tutti gli scambi di non-valori per valori, a tutta la circolazione di banalità e luoghi comuni etichettati per invenzioni condotte sul filo della sottigliezza e dello scandaglio linguistico e artistico, nei fatti però ottenuti da risciacquature di spunti e figure nobilissimi, a tutto il discorso passato per innovativo e audace, impastato, invece, di idioma comune, nel senso indicato da Francois Lyotard (La condizione postmoderna, 1979). Quanta festa di travestimenti, dagli anni Ottanta in qua, in Italia e fuori, legittimati in nome della postmodernità, che riconosce come identità fondamentalmente il declinare simultaneo e ininterrotto della non identità, delle non identità. Quanto spreco di parole e di riti celebrativi di non-valori imposti come espressioni di positività e di eccellenza in pubblico e in privato, quanti affollamenti di idee e di gusti fatti affluire sugli scenari dell’immaginario collettivo per le feste comunitarie a base di frullati e di cocktail di ogni genere di opzione e di proposta, di reminiscenza e di obliterazione.

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Carmine Di Ruggiero – Carta 30 x 20 cm del 1993

Intanto, l’integrazione dei linguaggi, dei gusti, delle proposizioni, mentre rassicura e conferma tutti e ciascuno sulle proprie posizioni e fa di ciascuno un soggetto artistico già per la sua sola esistenza individuale, induce rarefazioni e neutralità sul piano, oltre che estetico, anche etico, civile, politico, tenendo bordone agli scompensi e negando in premessa la dialettica storica. Sul piano artistico, ogni situazione si giustifica come comportamento inventivo e alternativo, purché si costituisca sui flussi e sui ritmi della variabilità, della mondanità declinata per godibili aspetti di variazione cromatica o iconografica. Il concettuale si immerge nel mondo e si fa misticamente valore aggiunto di dati informativi sulla realtà. Il minimalismo viene apprezzato, ricercato e praticato per la sua cedevolezza a dare suggestioni di attingimenti di residui, di tracce labili e sfumate, di segni smaterializzati che fanno nicchia negli interstizi del vissuto, del vivibile. L’oggettività si dà come ipotesi, come qualcosa che sta al di là del diaframma del linguaggio: quello che conta è l’al di qua, l’intervento col pennello, con la macchina fotografica, con lo scalpello, col pollice che preme o accarezza il corpo ceramico, a fini, però, non di fabbricazione di manufatti, ma di contattazioni di presenze immateriali impalpabili, di dilatazioni e amplificazioni mentali. Questo trend, fortunatamente, non è attribuibile a tutta l’arte dell’ultimo trentennio, perché ci sono situazioni e artisti che non cedono a una così avvolgente, tentacolare, universale liquidità. Che, anzi, accettano la sfida con piena lucidità del rischio affrontato, orgogliosi di essere scomodi a sé innanzitutto e quindi a tutti gli altri. Di essere depositari di una consegna di autenticità, di responsabilità, di costruttività. Di dover salvare il decoro del fare, del ricercare, del verificare le prospettive nella traducibilità e nella sostenibilità nella concretezza della materialità, contro tutti i velleitarismi e le fumisterie misticheggianti delle transitazioni e delle immersioni nei mari dei simbolismi, degli allegorismi, dei concettualismi, dei mentalismi onnicomprensivi, al limite del delirio. Contro la riduzione dell’invenzione a provocazione dell’eccitazione interiore. Contro l’utilizzazione e la banalizzazione dell’arte esclusivamente sul terreno dell’estetizzazione. Tra questi artisti, uno dei più significativi e alternativi per genuinità e coerenza di ricerca, è, a livello nazionale e internazionale, Carmine Di Ruggiero. Il quale, a questo nostro tempo vago di consumi di prodotti da vetrina, iridescenti, luminosi, leccati e laccati, di spettacolarizzazione di tutti gli eventi, di qualunque natura essi siano, compresi gli artistici, anzi, innanzitutto questi, di smobilitazione di massa, di liberazione dai lacci e lacciuoli dell’ordinario, di effervescenze inventive e di intrattenimenti giocosi, oppone non obiezioni ed eccezioni parziali, ma una scelta che diverge di centottanta gradi. Si tratta di una scelta per tutta la vita, da “aut-aut” kierkegaardiano. Una scelta per la ricerca e per la difesa dell’Idea. Che si svolgerà in una vigilia ininterrotta, in dialogo col silenzio della notte, che è affidabile del tutto. perché esso non disserta, non presume di avere spiegazioni in tasca già belle e confezionate, non interrompe i pensieri di chi ascolta e riflette, non invade di rumori le situazioni presenti, non è incomponibile con gli affioramenti della memoria del futuro. E’, infatti, il silenzio, l’anima della notte, con le sue infinite risorse di confidenza, di ascolto e di alleviamenti del dolore. Mentre, fuori, una falsa immagine del mondo rischia di essere investita e sommersa da uno tsunami di risate folli e banali, di spiritosaggini insensate, di tripudi da notte di Valpurga (Faust), col conforto e l’incoraggiamento del silenzio, Carmine Di Ruggiero si chiude nel castello delle sue meditazioni, che non è lo Spielberg, e prende a interrogare gli stati nascenti delle sillabe, dei colori, delle luci, che rinviano, di certo, rispettivamente, ad altre sillabe, ad altri colori, ad altre luci, ma recano con sé connotazioni di peculiarità e di genuinità inconfondibili, ci ricordano che “sempre nuova è l’alba”, come ha detto Rocco Scotellaro. A tutela della libertà di essere con sé stesso e col mondo reale delle fenomenologie e degli eventi che animano la scena della poiesi, Carmine Di Ruggiero si sottrae alla grande fiera delle vanità, al chiasso dei traffici e dei commerci, ai giuochi di prestidigitazione allestiti ad ogni angolo di strada, in spontanea concordanza con l’aureo principio epicureo del “lathe biòsas” (= vivi nascosto). – In una traduzione aggiornata, si direbbe: Vivi appartato da quella che un giorno si chiamava “la folla” e oggi si chiama “la massa”.

A rispecchiamento concreto di tale indirizzo, egli prende studio e stanza a Villa Faggella che è a Napoli, ma che simultaneamente è fuori di Napoli, come tenuta in sospensione rispetto alla storia e allo spazio, i quali intanto danno supporto e giustificazione all’esserci della stessa. Un luogo disinfestato dalla rumorosità cittadina lievitante in continuo innalzamento di livelli e in sempre più dilagante e disastrosa amplitudine. Qui, non lontano dal Bosco di Capodimonte, in cima a un aereo poggio, è questa deliziosa residenza, allietata da canti e presenze di uccelli delle più svariate specie, qualcuna delle quali forse non ancora è stata studiata e inventariata. A Villa Faggella, non è un caso che abbiano tenuto lo studio artisti di notevole statura come Antonio Venditti, Renato Barisani, Gianni De Tora. Ma nessuno di essi vi ha operato e vi è vissuto tanto a lungo e in tale costanza di presenza, come Carmine Di Ruggiero, che nel corso di decenni ha assunto il profilo umano di abitante per eccellenza, una specie di genius loci, dell’incantevole villa, assistita da un concorso singolare di circostanze favorevoli per non essere stata neppure sfiorata dai processi di barbara deturpazione dell’ambiente, i quali di norma non hanno trovato contrasti validi altrove a Napoli.

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Carmine Di Ruggiero – Carta 30 x 20 cm del 1994

E anche questo statuto di vita quotidiana a Napoli e fuori di Napoli segnala una condizione di vita plurale, anfibologica, che è propria dell’artista, legato a Napoli, ma in dialogo aperto con i dibattiti in svolgimento a livello planetario, ermeticamente chiuso nei confronti delle banalizzazioni e dei traffici ordinari, totalmente estroverso nei confronti di ciò che di più trepidante, più coinvolgente è nell’avventura artistica. Tra i punti di illuminazione del suo fare e del suo meditare, uno dei principali è costituito dall’esigenza di collegare con forti ed efficienti cinghie di trasmissione la mente e la mano, la ricerca e la mimesi. In realtà, l’interrelazione fra la mente e la mano non è una novità nella storia della civiltà umana, e forse anche nell’ambito osservato sempre meglio nel nostro tempo dall’etologia. La mente, infatti, apprende dai sensi, ma innanzitutto dal tatto e dalla manualità, la mano opera ma secondo indirizzi intenzionali e d’impulso delle informazioni provenienti dalla mente. Questo nesso sinergico, oltre che dagli studi di laboratorio scientifico, ci viene confermato dalla stessa etimologia: il termine latino “manus”, che è a monte dell’italiana “mano” e dei simili lemmi in uso nelle lingue neolatine, ha una radice “mâ”, che contiene l’idea di fare, costruire nelle lingue indo-europee, e che nel sanscrito è presente in “ma-nam”, la realtà che si estende, e in “mati”, con cui si nomina colui che misura. Da questo ambito fonetico e semantico derivano i termini “madre”, “materia”, “mano”, “metro”, “misura”. A ” mâ “, intanto, risale anche la latina “mens”, che si distingue in “e” per leggi di alternanza vocalica, quella “mens”, da cui in italiano si ha “mente”. In fondo, mente e mano sono fra loro sorelle e in quanto tali hanno tante cose in comune, riguardo alle intersezioni relazionali e alle funzioni che svolgono nel concreto della vita. Questo fortissimo nesso, però, che ci confermano le osservazioni empiriche, gli studi scientifici e le tracce linguistiche, ha avuto una sua vicenda singolare. All’inizio, nel corso di molti millenni, la sinergia fra mano e mente è stata serrata nei fatti e preziosa per i bisogni alti e bassi della vita. Dall’invenzione della ruota in qua, invece, con accentuazione progressiva di ritmi dalla rivoluzione industriale in poi, tra i due fondamentali strumenti dell’esistenza il rapporto è venuto sempre più scompensandosi. Il lavoro mentale e quello manuale si sono sempre più chiusi in iconologie distinte e separate e, in certo senso, hanno prodotto delle conseguenze perverse. Proprio come è accaduto, secondo il racconto platonico del Simposio, nella separazione fra due parti di un unico e armonico corpo che hanno dato principio alla nascita del maschio e della femmina, che in sé non hanno perfezione ma devono cercare la perfezione unendosi per ricostituire l’armonia iniziale, anche fra il lavoro manuale e quello mentale la divaricazione ha comportato la formazione di due realtà individuali monche, amputate, sfregiate, che soffrono di nostalgia, ora palese, ora segreta, di ritrovarsi insieme a ricostituire un’equilibrata, fisiologica unità.

L’enfatizzazione, intanto, delle separatezze, ha generato ancora molti altri mostri.

Innanzitutto, ha mandato in scena il senso della vergogna che ha preso l’uomo moderno di fronte a sé stesso, quasi un “nuovo pudendum”, come dice un filosofo tedesco, Günther Anders, nello scoprirsi antiquato di fronte alla macchina, un congegno sempre più autonomo e capace di autoregolarsi e di autoperfezionarsi. Ha terremotato, poi, e continua sempre più a terremotare e a destabilizzare le prospettive e le interpretazioni del tempo e dello spazio, i comportamenti, i modi di pensare, i valori artistici. Ha, infatti, tra l’altro, contribuito al dilagare dell’estetizzazione della vita, al deperimento dell’oggetto e alla de-identificazione dell’arte.

Basti pensare alla vicenda patita dall’oggetto, dall’avanguardia storica in qua. Col futurismo, i “complessi plastici” proposti da Balla e Depero imprimono materialmente al manufatto una spinta a ritrovarsi non tanto come oggetto, ma ad attivarsi fondamentalmente come agente di dinamismo, aprendo così varchi verso il cinetismo del secondo Novecento. L'”objet trouvé” dei dadaisti e dei surrealisti strania l’oggetto prelevato da una relazionalità concretista con l’ambiente verso funzioni espressive altre, che lo collegano a un universo parallelo costituito sulle cifre dell’esteticità e della spettacolarizzazione. Come se esso avesse una spontanea, fisiologica vocazione a un altro destino, quello delle equazioni fra arte e vita. Successivamente, d’impulso del new-dada, della pop-art e dell’arte povera, l’oggetto si snatura del tutto della propria materialità, per acquistare di volta in volta senso all’interno di una reticolarità a geometrie variabili, a seconda dell’uso che se ne fa nel circuito in cui è inserito. Esso, dunque, può essere tutto e il suo contrario. Solo le occasioni vitali e funzionali lo pongono in essere. E ciò accade alle reti come alle lamiere, alle lampadine elettriche come ai tubi al neon, agli specchi come agli stracci, ai materiali elastici come ai materiali di plastica, ai prodotti nuovi come a quelli usati e gettati. Si legittima, così, la priorità del valore aggiunto sul valore assoluto, dell’apparire sull’esserci, dell’effimero sui tempi lunghi. Tutto dipende dall’esposizione alla visibilità nella luce accecante dell’attimo. Ne vengono privilegiati i gesti, i comportamenti, i concetti. La cosa in sé deperisce di significato e di esistenza. Ma basti pensare anche alle cronache dei multipli, al loro essere trasportati come da un nastro meccanico verso gli stand dei padiglioni di una mostra o verso altri terminali. Concepiti come prodotti mediumnici tra grande arte e pubblico moderno, entrati in circolo nel contesto della civiltà di massa, hanno dovuto fare i conti con i processi di reificazione e di mercificazione dell’arte, oltre ad essere risultati di supporto a mistificazioni, a banalizzazioni e involgarimenti dell’artisticità impigliata nelle maglie delle duplicazioni, delle proiezioni, dei transfert. Nelle maglie, cioè, di un’ambiguità, in cui non è facile districare la qualità dalla quantità, il valore dal non valore. Senza dire che, per tale via, il prodotto affonda in una specie di insondabile noumenicità, per usare un termine kantiano, avendo senso semplicemente per quello che appare in quel momento e per quello che forse potrà apparire il momento successivo.

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Carmine Di Ruggiero – Carta 30 x 20 cm del 1997

Intanto, della sua autentica materialità si perde ogni traccia, né ad alcuno viene vaghezza dì sverniciare la montatura delle apparenze, per cercare lì sotto, lì dietro quello che c’era una volta.

Contro le tautologie consentite dai processi meccanici e dalle applicazioni delle tecnologie evolute, e, insieme, contro la deregulation della serialità ad libitum dei prodotti indirizzati ad essere in continuo mutamento a seconda delle congiunture ambientali e temporali, a vivere come nel vento della volatilità, contro questo e altro, prende netta posizione Carmine Di Ruggiero.

Il quale, dall’inizio degli anni Ottanta in poi, vota interamente la sua vita e la sua ricerca al riscatto della dignità e della memoria dell’oggetto e dell’oggettualità, alla ricomposizione dell’armonia perduta nella relazione complessa tra mano e niente, alla restituzione dell’identità, dell’autenticità, delle ragioni costitutive all’arte e alla mimesi, salvaguardandole da contaminazioni equivoche, da esercizi circensi e d’intrattenimento delle folle, da schiamazzi e oltraggi di piazza e di marciapiede, dalle banalità di massa. Per conseguire questi obiettivi, egli non trova formula più adatta che quella di sempre, del lavoro, del lavoro, e poi del lavoro ancora.

Sostenuto, aggiungeremmo con Goethe. dalla pazienza, perché è la pazienza che fa germinare l’invenzione e che discrimina nettamente e invalicabilmente dal velleitarismo. nutrito di vento. di ambizioni folli, di fughe in avanti. l’autenticità della ricerca e la genialità del fare. che nascono invece dall’interno dei processi reali e, nell’amore, nella responsabilità partecipativa. nel provare e nel riprovare, aprono varchi a situazioni nuove. che possono avere, che hanno sviluppo successivamente. “Tutto proviene dal lavoro”, scrive Michel Serres. “ivi compreso il dono gratuito dell’idea che sopraggiunge. […] Prima di mettersi a comporre rime, il vecchio Corneille si spogliava per avvolgersi. nudo. in coperte di panno grossolano dove sudava abbondantemente, come in una sauna: l’opera di genio traspira dal corpo come una secrezione”. D’ora in poi Carmine Di Ruggiero si applicherà certosinamente alla religione del fare concretamente. in pazienza. in umiltà. in genuinità. esaminando il prodotto alla luce delle sue attese, rimettendo costantemente in discussione sé stesso, lottando, come nel racconto biblico, cori l’angelo del silenzio e della purezza. adeguando questa lunga, spossante, appassionata lotta ad una vigilia senza fine, a una prova di verità assoluta, totale, non in senso ontologico, ma nel senso ammesso dalle prospettazioni della storicità, dell’esistenzialità, della laicità sperimentale. Attraverso la specola del confronto senza altro scampo e dell’impegno totale, il mondo appare diverso da come appariva per l’innanzi, vengono a mancare le certezze rassicuranti di cui si disponeva prima, si intercetta un’altra realtà tutta nuova, tutta in movimento, da scandagliare, senza pretese di arrivare subito al cuore dei problemi, da approcciare con trepidazione in attesa di poter aggiungere ogni giorno una nuova acquisizione.

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Carmine Di Ruggiero – Carta 30 x 20 cm del 1997

Preso nella morsa della durissima prova, che è tutto per lui e un’offerta a favore anche di quelli che scommettono tutto di sé in analoghe prove, Carmine Di Ruggiero sa che deve innanzitutto resistere. Pertanto non ha tempo né voglia per guardarsi attorno o alle spalle per misurare distanze tra il prima e il dopo: egli vive momento per momento la sua condizione, come immerso in uno spazio che si può estendere illimitatamente, che può ruotare intorno a sé stesso, spostando continuamente e simultaneamente in molteplici direzioni i suoi assi. Le immagini che gli arrivano possono provenire tanto dal basso quanto dall’alto, da vicino come da lontano. Pertanto, deve dare risposte simultanee, veloci, icastiche ad altezza di questo tipo di assedio, senza potersi, doversi preoccupare di rispettare questo o quello schemino, questa o quella tipologia. Ora, tutta la precedente esperienza è richiamata alla mente ed è interrogata se possa essere utile. Ed essa viene rovesciata come un guanto ed è attentamente osservata dentro e fuori. E’ interrogata la geometria, che nella più recente stagione, gli ha fornito un valido supporto. Ma essa, se è risultata fino a poco tempo fa validissima, d’ora in poi appare come una dimensione da cogliere per entro la rifusione complessa dei rapporti fra le cose, decisiva nei giochi della reticolarità e dell’interrelazionalità innervata, dunque, dentro le fenomenologie del mondo. Egualmente si ripresentano all’appello, per essere sottoposti alla medesima inquisizione, l’impressionismo, l’informale, l’oggettualità. E anch’essi, in ultimo, come la geometria, vengono recuperati, ma non per un’opzione soggettiva, piuttosto per riscontri del loro funzionamento di sistema per i lampeggiamenti imprevisti dati e in suggestione di moto e di profondità, anzi in stretta relazione con la mobilità dell’evento. L’impressionismo, ora, non dà più indicazioni di quelle preziosità, che sulle tele del giovane Carmine Di Ruggiero facevano pensare alla pittura bizantina a Emilio Notte. Esso, piuttosto, diventa processo rigoroso di scandaglio degli accadimenti che si pongono in essere attraverso la luce e i colori, come nelle proverbiali prassi di Monet. Esso, quindi, è un invito cogente e persuasivo a perfezionare il visuale, la mimesi visuale, nel vento solare della luce, che è il principio di tutte le cose. Analogamente l’informale non si ritrova più come indirizzo, come mozione vettoriale, ma sotto l’aspetto di maniera, che l’artista deve accogliere filtrandola attraverso le griglie e gli apparati culturologici, che appartiene, però, all’epifanizzarsi dei fenomeni, o, per meglio dire, ai modi attraverso cui la mente e l’immaginario appercepiscono inizialmente il rivelarsi del mondo. Egualmente i connotati dell’oggettualità non si ripropongono più frontalmente come una volta, ma lateralmente, plasticamente sopra e sotto la sua epidermide, talora solo per sfilacciature e per remoti tracciati o per rimembranze. Adesso, è l’opera, a decidere tutto. Nulla, che cada fuori di essa, ha rilievo. E’ essa che chiama alla vita le immagini, che le nutre della sua presenza, che accerta le pulsioni, i legami, le dimensioni, lo spessore, la tracciabilità della materia, in Carmine Di Ruggiero, ma anche di tutta la sua arte, di tutto il suo fare dagli inizi degli anni Ottanta in seguito. Che è un fare alla luce del sole, dove tutto rende conto di sé pienamente, senza riserve, senza allusioni ad altro. A cominciare dal supporto e dagli oli adoperati a terminare all’incorporeo, che marcano nitidamente quello che sono, come a comunicare la propria nudità e purezza, come ad andare spontaneamente incontro al dialogo e possibilmente al consenso del pubblico, narrando così la propria provenienza, il cammino fatto nel rispetto delle antiche e consolidate maniere delle botteghe di un tempo. Intanto, fra tanta chiarezza si evoca una presenza, che è molto più intrigante di una presenza reale ed è quella di una “Bildung”, di una disciplina di lavoro che sovrasta l’opera stessa e la figura dell’artista e allarga il volo verso nuovi orizzonti, a dimostrazione che è la forza euristica della memoria a inventare il futuro. Ovviamente, il fare poietico, non più necessitato dall’attivazione di questo o quel dispositivo ideale, di questo o di quel procedimento compositivo, è incalzato da presso dall’esigenza di esprimere questo stato di plenitudine dell’essere, di rappresentare la sfida che impegna l’attività totale delle forze interiori. Pertanto, esso non si può concedere di intervenire se non sull’essenziale, su squarci, sugli appunti, sui frammenti, che vanno resi in sospensione, per contattazioni immediate, per prese in diretta sotto forti emozioni. Il documento ultimo è affidato a nessi sintagmatici e semantici avvitati, asciuttissimi, guizzanti, che si lasciano alle spalle la vecchia grammatica e la vecchia stilistica. Ogni documento, però, è ultimo soltanto per acquisto di informazioni e di esperienza in divenire, mentre accenna puntualmente ad altri incombenti accadimenti, ad altre rivelazioni. Pertanto non può presumere di essere punto fermo, né può essere assunto come tale da chi lo preleva o lo esamina. Esso non è mai conclusivo e ultimativo di discorso. Perché il discorso continua per sciami sismici, per eruzioni magmatiche. Ancora e ancora, oltre quell’occasione, oltre la vita stessa individuale. Il documento, allora, non è il documento, come si intende e si utilizza questa parola in ambito accademico, archivistico, storiografico, giuridico. E’, invece, la rappresentazione di quell’attimo in transito, con tutte le sue connotazioni di non finito, con tutta l’intensità dell’evento graffiante, acuminato, straniante che si presenta a sorprendere, elettrizzare, modificare le situazioni, da intendere esattamente al modo in cui intende questo termine Debord insieme coi suoi amici. Di questa documentazione, che ci fornisce Carmine Di Ruggiero e di cui l’artista innanzitutto si rifornisce, conta non l’ordine cronologico di arrivo e di inventario, perché tutto avviene fuori della linearità e della direzionalità programmate o programmabili, ma il suo disporsi automatico per grappoli di affinità, il suo disegnare nei fatti alberi di appartenenze. E, innanzitutto, conta la sua irrefutabile, incontestabile materialità. Il suo essere eterno modo con sé e con noi. A ogni modo, vista a volo d’uccello, tutta questa produzione consente, oltre a un godimento panoramicamente d’insieme in senso sincronico, come è stato qui proposto, anche un attraversamento diacronico, con relative descrizioni e mappazioni di articolazioni figurali dalla fisionomia unitaria. Al fortunato viaggiatore di questo sempre intenso, ma variegato paesaggio, che è la produzione artistica di Carmine Di Ruggiero dagli anni Ottanta in qua (autunno 2011), non mancheranno motivi di sorpresa e di meditazione su tratti poietici, su auscultazioni profondi e prolungati di silenzi e di voci del profondo, su intese larghe con il non detto o con la presenza del non dicibile. Perché in Carmine Di Ruggiero, se fortissima è la tensione verso l’autentico e il vero, non si lascia mai campo libero al dilagare dittatoriale di un vero, più uguale degli altri, per dirla con Orwel. E ciò a cominciare dal ciclo “Oggi” (1981) e dall’altro ciclo immediatamente successivo “I dialoghi col poeta” (1983), abitato e agito dalla magia di una poesia che si fa disegno a punta di matita, ovvero di carboncino, sino all’ultima produzione (2010-2011), venuta alla luce dopo una sosta in certo senso traumatica.

Ugo Piscopo

Dalla monografia “Carmine Di Ruggiero nel vento solare della luce” del 2013

 

carmine di ruggiero
Carmine Di Ruggiero – Carta 69,5 x 50 cm del 1985

 

CARMINE DI RUGGIERO.

Nato nel 1934 a Napoli, si forma con Emilio Notte all’Accademia di Belle Arti di Napo­li, esordendo, nei primi anni Cinquanta, con nature morte ispirate a Braque e Picasso. Da una ricerca condotta nel solco della tradizione post-cubista, sul finire degli anni ’50, arriva ad una personale adesione all’informale materico che si traduce in un ispessimento della materia cromatica stesa attraverso una gestualità veloce che, pur esprimendosi con “una lavica furia di pennellate convulse e gremite” (Vergine 1963), non arriva a dissolvere il nucleo figurativo rintracciabile negli stessi titoli. È questo il caso di opere quali Crocifissione (1957), Muro e arbusti (1958), del Nido del roveto, esposta nel 1959 al VII Premio Spoleto e qui in deposito dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, o de L’urlatore, tela del ’59 presentata al X Premio Spoleto e ora donata dall’artista al Museo del Novecento, tutte caratterizzate da una forte tensione emozionale espressa con immediatezza in una figuratività dai toni aspri, violenti e concitati. Al principio degli anni Sessanta, un rallentamento del ritmo compositivo, che si fa più meditato, e un abbassamento e raffreddamento della gamma cromatica, ora data per larghe stesure in ampie superfici che si intersecano, segnano il suo definitivo distacco dall’esperienza dell’informale. A partire dal 1964, infatti, quando la partecipazione alla XXXII Biennale di Venezia gli consente un rapporto diretto con le opere di artisti americani quali Rauschenberg, Dine, Stella e Noland, Carmine Di Ruggiero dà avvio a un processo di “oggettualizza­zione dell’immagine” (Dorfles 1969) in cui si perde la tradizionale distinzione fra pittura e scultura per dar vita a strutture in legno bianco e plastica che si staccano dalla bidimensionalità della parete per invadere lo spazio con forme geometriche e organiche. A partire dagli anni Settanta, quando con Renato Barisani, Guido Tatafiore, Gianni De Tora, Riccardo Riccini, Giuseppe Testa e Riccardo Trapani fonda il gruppo Geometria e Ricerca, attivo dal ’76 al 1980, Carmine Di Ruggiero recupera la tradizione astrattista del MAC. e ritorna al supporto della tela su cui dipinge rigorose composizioni geometriche di triangoli dai colori puri e accesi. Dagli anni ’90 ad oggi, l’evoluzione della sua ricerca verso un rinnovato spirito neo-dada ha prodotto una serie di opere in cui oggetti legati alla pratica artistica o al concetto di tempo, come la clessidra, sono incollati sulla tela dipinta di un bianco abbagliante e della corposità del gesso.

Maria Confalone

 

carmine di ruggiero
Carmine Di Ruggiero – Carta 69 x 48,5 cm del 1985

 

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carmine di ruggiero
Carmine Di Ruggiero – Carta 40 x 30 cm del 1997

 

 

 

Opera pubblicata a pagina 19 del 6° fascicolo della “Storia di Napoli illustrata. Una terra si racconta”.

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