"GrandeNapoliArte". Inaugurazione: martedì 7 giugno 2011 - ore 17,00 7 giugno - 27 giugno 2011 - Castel Nuovo (Maschio Angioino) Sala della Loggia Interverranno Nicola Oddati e Evan De Vilde
Già dalla lettura dei nomi si intuisce come la rassegna ha lo scopo di mettere a confronto artisti affermati di generazioni e linguaggi diversi, come senso di continuità tra presente e passato, con alcuni che hanno vissuto e operato a Napoli nella prima metà del novecento e altri nella seconda metà. La mostra intitolata "Grande Napoli Arte", è organizzata e curata dal Daphne Museum, che oltre ad occuparsi di archeologia ha aperto una sezione della propria galleria virtuale ad un progetto di arte contemporanea. L'esposizione visitabile fino al 27 giugno, intende far conoscere soprattutto alle nuove generazioni taluni artisti, napoletani di indiscussa qualità, rappresentativi dell'arte del '900. Alcuni di questi artisti, purtroppo, hanno avuto la sfortuna di operare in un territorio che non ha saputo ancora oggi valorizzarli, nonostante la presenza degli stessi sul mercato nazionale e internazionale. In mostra saranno esposte opere di Antonio Asturi, Renato Barisani, Andrea Bisanzio, Enrico Cajati, Rubens Capaldo, Roberto Carignani, Luciano Caruso , Giuseppe Casciaro , Giuseppe Ciavolino, Salvatore Ciaurro , Carlo Cordua, Eduardo Dalbono, Lucio Del Pezzo, Evan De Vilde, Salvatore Emblema, Vincenzo Gemito, Sergio Gioielli, Antonio Isabettini, Luigi Grossi, Maria Rosaria Marchi, Elio, Luigi e Rosario Mazzella, Emilio Notte, Giovanni Parlato, Mario Persico, Errico Placido,Mario Rossetti, Mario Sangiovanni, Michele Spatuzzi, Domenico Spinosa, Carlo Striccoli, Gianni Strino, TTozoi, Gennaro Villani, Salvatore Vitagliano, Elio Waschimps . Una collettiva di 37 artisti selezionati con attenzione, da interpretare come una significativa dichiarazione d'intenti del Museo per indagare una fase particolarmente fervida, che vide all'avanguardia della ricerca artistica, una schiera di pittori e scultori, che seppero portare lo sguardo ben oltre i confini provinciali e collegarsi a quanto accadeva sulla scena internazionale. Per riuscire a capire le composizioni presentate, bisogna necessariamente guardare l'attività retrospettiva, ovvero il "viaggio" di ciascun artista nell'arte, per connettersi nel dinamismo delle rappresentazioni che riescono a comunicare attraverso il rigore formale. Una sintesi espressiva leggera capace di particolare raffinatezza e originalità, resa con pennellate incantatorie e fluide, come avviene per i dipinti di alcuni artisti in mostra, ancora legati all'idea dell'immagine della natura. Questa però scompare totalmente per dare spazio al colore e all'assottigliamento della profondità spaziale fino ad arrivare ad altri lavori degli ultimi anni, dove con addensamenti materici, ridotta gamma cromatica, figure emblematiche e allarmanti, gli artisti dividono lo spazio in partiture geometriche che si ritroveranno poi nelle loro ricerche concettuali. Un percorso intrapreso coraggiosamente per dare alla luce un'attualità incalzante con segni e figure che diventando nei dipinti e nelle sculture, immagini che fanno riflettere sulla precarietà, incubi, contraddizioni e antinomie. La mostra è corredata da un prezioso catalogo edizione Daphne Museum con testi critici di Evan De Vilde, Federica Signoriello e Sabrina Monaco.
Daphne Museum Il museo archeologico Daphne Museum ha aperto un'intera sezione di gallerie, mostre, eventi, libri, articoli e molti studi sull'arte contemporanea italiana ed internazionale. In questa sezione si trovano dipinti impressionisti, cubisti, espressionisti, informali e molti altri stili e poetiche di arte contemporanea divisi per icone o per artisti, come Renato Barisani fondatore del MAC napoletano a Gualtiero Nativi, da Bruno Donzelli a Burri al grande Dorazio, passando anche per artisti emergenti o poco conosciuti.
Il Daphne Museum è una associazione senza scopo di lucro nata per gestire patrimoni culturali, archeologici e di arte contemporanea affidati in carico all'associazione. Il gruppo è stato creato per volontà di una serie di aziende private del gruppo DAPHNE come la Daphne Lab, specializzata nei laboratori di medicina naturale che coordina una serie di lavori con l'ASL Napoli 3, dal gruppo Formamentis che coordina numerosi interventi didattici con l'ASL Napoli 1, da aziende come Kosmethica o il franchising Daphne Center, e tutti i gruppi che hanno intravisto - partendo da una concezione della medicina naturale e da una visione olistica dell'uomo e della natura - un bisogno di intervento anche sul patrimonio culturale dell'essere umano a livello internazionale. Il gruppo del museo archeologico Daphne gestisce per lo più reperti di archeologia di patrimoni privati, provenienti da varie parti del mondo, regolarmente denunciati alla Soprintendenza dei Beni Archeologici e facenti parte di un percorso di mostre, convegni, cataloghi e manifestazioni. Il gruppo si avvale della collaborazione di archeologi professionisti, di articolisti e giornalisti esperti, di grafici e collaboratori. L'intera iniziativa è finanziata dalle aziende che fin dall'inizio hanno intravisto nel progetto la realizzazione di un bene superiore anche in conformità con le regole di EcoElia di cui lo stesso gruppo DaphneGroup se ne fa portavoce.
SCHEDA Titolo Evento: "Grande Napoli Arte " Curatore Evento: Evan De Vilde Daphne Museum Inaugurazione: martedì 7 giugno 2011, ore 17,00 Anteprima stampa: lunedi 6 giugno, ore 12,00 Periodo: 7 giugno - 27 giugno 2011 Sede: Castel Nuovo (Maschio Angioino) Sala della Loggia, Terzo Piano Daphne Museum: tel.081-5063596
Di Admin (del 27/05/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 1928 volte)
{autore=anonimo}
155 x 220 cm
Dipinto ad olio su tela di scuola napoletana del secolo XVII. Foderato e restaurato. Opera di ottima fattura raffigurante l'estasi della Madonna, illuminata dallo Spirito Santo, nel momento in cui l'Arcangelo Gabriele Le annuncia che diventerà la Madre di Gesù, Dio in terra. Molto probabilmente il dipinto, eseguito su commissione per una casa o cappella privata, è stato eseguito da due artisti napoletani (presumibilmente della bottega del Vaccaro), che dividono la tela verticalmente in due. Nella parte destra la Vergine Maria è colta nel momento di preghiera, sull'inginocchiatoio e con il libro di preghiere aperto, mentre un raggio di luce parte dalla Colomba, accompagnata da due cherubini, per illuminare la Madonna. In basso a destra è scritto: "Giacomo Peradoto fece far per sua divuzione". La parte sinistra è dominata dalla figura dell'Arcangelo Gabriele, nell'istante in cui annuncia alla Vergine la volontà del Signore. L'Arcangelo alato mostra nella mano destra il giglio (simbolo di castità e purezza) che donerà alla Madonna e con la sinistra indica il numero tre simbolo di Dio. Bellissimo il panneggio. In basso a sinistra si legge: "L'isteso Peradoto fece far".
L'opera è firmata e datata in nero dal basso verso l'alto sul lato sinistro del dipinto: "P.L. Delaval 1817".
Pierre Louis DeLaval nacque a Parigi nel 1790 e morì a Versailles nel 1881. Fu artista pluridecorato, allievo di Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson (Montargis, 1767 – Parigi, 1824). Ha lavorato col suo maestro su molti progetti, tra cui i cicli de "La Forza" e "La Giustizia". Dopo essere stato esonerato dal servizio militare per decreto imperiale per la sua opera artistica su Napoleone, continuò a dipingere soggetti storici, mitologici e ritratti. Diventò uno dei ritrattisti più importanti e ricercati d’Europa. Le sue opere sono in musei, cattedrali, chiese, palazzi, tra cui Versailles, e gallerie pubbliche e private.
Pittore a ponte fra le spinte di rinnovamento e i richiami della tradizione, Mario Cortiello ha provato a conciliare queste opposte tensioni, riuscendo spesso a risolverle felicemente. Dotato di fertile invenzione e di notevole capacità rappresentativa, ha lasciato una produzione ricca e varia. “Tra appunti cromatici e narrazioni fantastiche Mario Cortiello raggiunge un surrealismo chagalliano che spesso va al di là di ogni pittorica immaginazione per approdare a quelle favole mediterranee, a quel mondo già nostro vissuto tra mito e leggenda”. (Salvatore Di Bartolomeo)
{autore=Emblema Salvatore}25 Aprile 2011. Oggi ricorre l'anniversario della nascita del maestro Salvatore Emblema. Lo ricordiamo con un'opera del 1980.
"[...] una pittura coerente e di qualità dall'inizio alla fine, nella quale è evidente l'osmosi tra le sue radici, la terra vesuviana e le materie con le quali si esprime. E' la Napoli bella quella che vive dei suoi controsensi che crea il senso... quella Napoli vera sempre fine, pulita, aristocratica e quella terrosa, sporca, contadina. [...] (da L'EMBLEMA DI NAPOLI di Manuela Borrelli).
In-folio (460 x 330 mm), pp. 316 non numerate, frontespizio litografico stampato a colori, tavola con Piazza del Porto dopo il Risanamento, pianta topografica di Napoli ripiegata più volte, e 114 tavole cromolitografiche da soggetti di Matteo Zampella e Francesco Aversano protette da velina fuori testo. Legatura non coeva mezza pelle rossa con angoli, tasselli fregi e dicitura in oro al dorso e al piatto. Esemplare in ottimo stato.
La moria colerica del 1884 che mostrò le condizioni edilizie ed igieniche di una gran parte di Napoli, esser tali da costituire un pericolo perenne per la salute pubblica, diè per così dire, occasione al bonificamento della nostra città. La magnanimità del Re, che lasciò i suoi castelli per recarsi qui fra noi dove si moriva ed il voto del Parlamento crearono la legge del 1885 con lo scopo di risanare questa città, assegnando la somma di cento milioni. Si diede subito mano ai progetti: un disegno di risanamento de' bassi quartieri, con abbattere casamenti, rialzare strade mediante colmate e con costruire vie larghe con nuovi edifici; un' ampliamento della città alla periferia; una completa ricostruzione della rete generale di fognatura.
[…] Per l'opera del risanamento che si estende su di un' aria di 980.686.76 metri quadrati, vengono ad essere abolite 144 strade vecchie e 127 allargate; si abbattono 56 fondaci e 422 isolati di case, di cui 391 totalmente e 136 parzialmente: si distruggono 17.000 abitazioni e 64 tra chiese e chiesette. […] La parte della città sulla quale si avventerà senza posa il piccone del risanamento è fra le più antiche, e comprende vie e piazze dove sopra alcune vetuste lingue di mare sonosi per tanti secoli serbati avanzi di opere dell' epoche greca e romana, del Ducato, e delle dominazioni normanna, sveva, angioina ed aragonese. […] Il Municipio dunque lascerà demolire ogni avanzo di architettura lombarda, normanna, sveva, angioina, aragonese, e dicasi pure del risorgimento, del borrominesimo vicereale, dell'accademico restauratore dell'arte.
[…] E pur sarà cosi. Il nostro è un parlare al vento. Nessun patto fu stipulato dall'inisipiente nostro Municipio con la Società del Risanamento a fine di conservare i tanti monumenti di grandissima e talvolta straordinaria importanza per la Storia nostra e per l'Arte, e v'è fortemente da temere, non andranno in tutto o per la massima parte perduti. Laonde noi ad ovviare a tanta jatttura, non potendo far di meglio, pubblichiamo quest'opera illustrata con tavole in cromolitografia, dal titolo Napoli Antica, affinché se non altro, rimanga ai posteri un ricordo ed un' immagine di tale e tanta ricchezza.
LUCIO TAFURI. Da "Il Secolo XIX": "...come una ventata di aria fresca, fa palpitare la tela dando alla figura, con naturale lirismo, l'analisi estetica che solo l'artista autentico sa discernere." "Oggi Tafuri si propone a noi con opere che dimostrano la scioltezza pittorica del suo operare: artista completo, ma soprattutto notevole ritrattista, i suoi lavori sono commissionati da istituzioni di rilievo e importanti famiglie."
L'opera è firmata e datata in basso a destra: "A. De Stefano 1976". A tergo sono: titolo, data, firma, tecnica e un numero di archivio apposti dall'autore: ""Il fauno '76", A. De Stefano, tempera, 5138". Il dipinto è corredato dall'autentica diretta dell'artista su foto (del fronte e del retro) in bianco e nero, dove il maestro specifica che, tra l'altro, la tecnica usata è quella dell'olio.
DE STEFANO, DENTRO LA VITA LA SOLITUDINE DEL LEONE. Domenico Rea scrisse che Armando De Stefano ha "la capacità di scendere nel cuore delle cose e di riportarle in luce, in colore, senza rinunciare a nulla di napoletano". Pittore di confine, alla soglia degli ottant’anni De Stefano ha appena pubblicato un bel libro antologico, Continuità nel realismo, a cura di Arturo Fratta. E già quel titolo è una rivendicazione di resistenza alle mazze e piveze - così lui le definisce - che oggi invadono gli spazi dell’arte. «Sono nato al Borgo Orefici. Papà Luigi era cassiere di banca, mamma Assunta curava la casa e cuciva i vestiti per noi tre figli, io il terzo. Fu lei a chiamarmi Armando come l’Armand Duval dell’amata Signora delle camelie. Bella la vita in quel quartiere popolare. In piazza Mercato fittavavamo le biciclette, sorbivamo le rattate di ghiaccio tritato e colorato di sciroppo, ascoltavamo le anziane narrare le leggende della rivoluzione del 1799. Per loro Eleonora Fonseca Pimentel era una malafemmena». Quando cominciò a dipingere? «Alle elementari. Non ho mai fatto i disegni dei bambini, e mi dispiace. La matita nella destra, ritraevo la mano sinistra aperta e viceversa. Mio zio Francesco Parente, scultore, m’incoraggiava, ma papà non voleva, ne aveva visti troppi di artisti in miseria, nella sua banca. Però fu lui a far crescere la mia voglia. Mi parlava di Gemito, perché andava a casa sua ogni tanto a portargli un assegno di Mussolini. Gemito faceva il the, non glielo offriva, prendeva una carta gialla, di quelle usate per il sapone, e disegnava un cavallo, un pesce, un cervello. "Portatelo all’eccellenza", era il suo modo di disobbligarsi. Arrivato in quarta il direttore decise di usare la mia abilità. Invece di studiare, disegnavo a tempo pieno. Ritratti del generale Diaz, della regina che offre l’oro alla patria. All’esame di ammissione temevo di essere bocciato, ma mi aiutarono». Fece subito studi artistici? «No, m’iscrissero al magistrale Margherita di Savoia. Di pomeriggio si tenevano corsi di pianoforte e violino, così m’innamorai anche della musica. Ma non si possono fare tante cose insieme. Ho nutrito quasi un senso di colpa per aver lasciato la musica; per attenuarlo ho sempre tenuto un piano a coda nello studio e ho donato disegni di strumenti al conservatorio, quando lo dirigeva Roberto De Simone». Che ricordo ha della guerra? «Fame e paura. All’inizio era quasi divertente scendere nei ricoveri, vedevi le ragazze in abbigliamento più intimo. Ma poi uscivi, vedevi le case distrutte, e montava l’angoscia. Tornata la pace, passai al liceo artistico". E fece i primi quadri veri. «Ritraevano certi uccelli, soprattutto anatre. Usando lo specchio dell’armadio della padrona di casa feci il primo autoritratto, lo conservo. L’arrivo degli Alleati fu un vantaggio anche personale. Mio padre era amico di un certo Ciappa, copista della Tate Gallery di Londra, che mi consigliò di fare i ritratti agli ufficiali americani e inglesi. Andavo alle batterie contraeree munito di una tavoletta e di un blocco di carta. Ogni disegno, tre AM lire. Ne esposi uno, come pubblicità, nella libreria Lepre in via Costantinopoli. Funzionò, facevo fino a tredici ritratti al giorno. Fu una grande lezione e campammo tutti un po’ meglio. Ma poi Napoli si spopolò e addio affari». Suo padre comunque aveva cambiato idea. «Macché. In famiglia erano tutti ragionieri, gente quieta. Dopo la maturità mi disse: iscriviti almeno ad architettura, pure quella è un’arte. Resistetti un anno. Gli dissi: non ti preoccupare, me la vedo io. Magari andrò a Parigi o a Londra, e se va male laverò i piatti. All’Accademia feci l’incontro meraviglioso con Emilio Notte: grande pittore, grande didatta. Disse: "Ricordati che i leoni camminano da soli", questa frase mi ha accompagnato per tutta la vita, la lezione morale di Notte mi ha guidato in 42 anni di insegnamento. Al terzo anno di Accademia vinsi il Premio De Gasperi a Roma ed esposi alla Biennale di Venezia, dipinti di figure allungate. Grazie a una mostra al Grenoble conobbi Picasso, Braque, Matisse. Fu uno choc. Presi a fare cose discontinue, a cercare una mia strada». Erano anni di ricostruzione e di speranza. «Nel 1946 m’iscrissi al partito comunista. Papà era di sinistra, ma subii soprattutto l’influenza ideologica del pittore Raffaele Lippi, reduce dalla Russia. Dal 1950 tenni rapporti con i compagni di Roma, a partire da Renato Guttuso. Sperimentai un linguaggio di grande ricchezza, frequentai camere del lavoro e case del popolo, contadini calabresi e lavoratori delle risaie. Facevamo murales, grandi pannelli per le feste dell’Unità. E se prima non avevo il coraggio di dire una parola, imparai a parlare in pubblico. Mi sentivo un pittore con una funzione, oggi mi sento un isolato. Feci una mostra in America con il gruppo realista. Nel ‘54 fui premiato al Festival della Gioventù a Mosca, ero un ‘pittore del popolo’; presentai un nudo, quello della ragazza che vendeva sigarette sotto casa». Quanto durò quel periodo? «Il XX congresso del Pcus fu lo spartiacque. Il partito girò le spalle al realismo, convogliò intellettuali di pareri ben diversi. Guttuso si girò verso gli americani, la pop art. Fu un aborto. E venne una prima rottura tra noi artisti. Dopo l’invasione dell’Ungheria non rinnovai la tessera. C’era anche una crisi di linguaggio, un nuovo tipo di operaismo nell’arte ci esponeva al rischio di una iconografia di tipo fascista. L’apologia non ha niente a che fare con la realtà, ch’è complicata. Alla fine degli anni Cinquanta, alla Biennale di Venezia, entrai in contatto con un pittore che aveva capito le contraddizioni della realtà: Francis Bacon. Fu un arricchimento. Gli operai oramai volevano diventare borghesi. Per cogliere opposte sfumature occorrevano immagini meno ieratiche, perfino più ambigue». Ciò nonostante, lei seguì la continuità nel realismo. «Ma con strumenti diversi, ispirandomi al cinema e alla storia, quella valida per l’oggi. Cominciai con Masaniello, una grande mostra a Roma e poi a Firenze. Mi aveva colpito un libro di Vittorio G. Rossi, Miserere per i fichi; narrava di un rappresentante di detersivi che si trova nelle strade napoletane del ‘600. Misi un microfono in bocca a Masaniello, lo trasformai in tribuno di piazza. Come colonna sonora presi i canti popolari raccolti da De Simone. Fui affascinato da altre figure di uomini inghiottiti dalla rivoluzione, come Marat, come Lumunba. E le dipinsi». Poi venne il ciclo di Odette e il Jolly. «Fu presentato da Giovanni Testori, geniale amico. La mostra andò a Londra e in Spagna. Per me Odette era la Francesca Bertini dei film muti visti da bambino, una suffragetta a cavallo di due secoli che si innamora di un anarchico. In fondo, un romanzo a fumetti riscattato dalla presenza di un jolly che, come nelle carte, risolve i problemi, nel bene e nel male. Seguirono le Maschere, cui ho dato un senso diverso: utili non a mimetizzarsi bensì a essere se stessi, disinibirsi». E’ ricorrente l’uso di certi simboli rovesciati. «Forse. Ad esempio il ciclo del Mercato dei Miti. Dopo la guerra si vedevano sulle nostre bancarelle fez e pugnali fascisti; sulle bancarelle dell’Est cappelli e distintivi dell’Armata Rossa. Smitizzati. Ciò che fa paura può diventare oggetto di scambio da pochi soldi. E per Dafne stranamente m’ispirai a D’Annunzio più che a Ovidio. Fu un grido di critica sociale: pensavo al trasformismo, alla vergogna della gente che passa da un partito all’altro». Una vena libertaria, di sostegno agli sfavoriti percorre tutto il suo lavoro. «Feci gli Esclusi, l’idea mi venne da un magnifico libro di Sergio Piro con le foto di Luciano D’Alessandro. Ma gli esclusi non sono solo i pazzi, escluso è chiunque è tenuto in disparte perché non accetta le speculazioni. Li presentai a Napoli, a Palazzo Reale". E venne il ciclo del 1799. «Cominciai negli anni ‘70 con ritratti di Championnet, Nelson, Cirillo. M’ispirarono i racconti delle vecchiette di piazza Mercato. Feci una mostra a Palazzo Reale nel 1989, ho ripreso il tema per il bicentenario. Ho molte tele sulla rivoluzione napoletana, la decapitazione di Eleonora, i Francesi... Non le vendo, voglio donarle al comune di Napoli. Ne parlai con Guido D’Agostino quando era assessore, disse che voleva sistemarle in un museo da aprire in una chiesa del Mercato. Non ebbe il tempo. Ne ho parlato con la Furfaro, dice che quel progetto non esiste. Magari ne parlerò con Spinosa, il Museo di San Martino sarebbe la sistemazione adatta. Spinosa ha voluto due miei dipinti a Capodimonte, due spaventapasseri. E non ho rinunciato a salvare la statua di gesso di Jerace sul 1799. Gerardo Marotta la ripescò per esporla a Sant’Elmo, è finita nel cortile di Palazzo San Giacomo. Era passata la mia tesi di tradurla in bronzo, bastavano 50 milioni. Invece sta lì e può andare in pezzi al primo urto. E però nelle vie ci sono i tralicci di Kounellis». Non la convince, è noto, la politica napoletana dell’arte. «Ho l’impressione che Napoli abbia vissuto una sindrome delle avanguardie, eccessiva, correndo il rischio di cadere nel provincialismo della smania del nuovo. Diceva Carrà: ‘Di cose nuove è pieno il mondo, cioè diventano vecchie’. Non c’è cosa più vecchia e stantia di un’avanguardia superata. Non sono contro l’avanguardia in sé, vorrei solo una dialettica fra le varie tendenze. Se l’avanguardia diventa cultura di Stato, che avanguardia è? Diventa un termine militaresco, come eia eia alalà. Diceva Testori: ‘Non bisogna mai confondere avanguardia e modernità’, ossia tutto ciò che accade attorno a noi, filtrato senza civetteria, senza mode. Io sono un pittore moderno, non di avanguardia. Il Pan, il Madre, le opere in piazza Plebiscito: va tutto bene, però non si può portare una certa esterofilia all’esasperazione. E non parlo di napoletanità, e non lo dico perché non c’è un quadro mio sotto il metrò. Lo dico perché così si distrugge la cultura mediterranea, quella di Picasso per capirci. Non basta portare il mondo a Napoli, dobbiamo portare Napoli in tutto il mondo». Dica qualcosa che l’è piaciuto di recente. «All’ultima Biennale di Venezia ho incontrato il pittore Freud, nipote dello psicanalista. Bravissimo, trasgressivo, ambiguo. Nel mondo esistono fenomeni veri, perché mortificarli? Sto lavorando anch’io sulle trasformazioni dell’ambiguità. Ho avuto il ‘600, Cammarano, Gemito, i miei vecchi. Ho scelto questo mestiere perché amavo i pennelli, i colori, la tela, la puzza dell’acqua ragia, il corpo umano. Ma le passioni antiche, gli strumenti eterni dell’arte, devono sempre servire alla modernità». PIETRO GARGANO (da “Il Mattino” del 6 novembre 2005)