Salvatore Emblema appartiene a pieno titolo ai grandi della pittura del Novecento. Della sua arte, apprezzata in tutto il mondo, ebbe modo di scrivere diffusamente uno dei più prestigiosi critici italiani, Giulio Carlo Argan. Ai giorni nostri si sono occupati di lui Amnon Barzel e Vittorio Sgarbi. Salvatore Emblema nacque a Terzigno, in provincia di Napoli, nel 1929.
Il suo itinerario artistico iniziò nel 1948 quando eseguì una serie di Collages usando foglie disseccate e costruendo ritratti attraverso le modulazioni cromatiche. Una ricerca materica sviluppata impiegando anche pietre e minerali raccolti alle falde del Vesuvio. Spinto dalla conoscenza delle correnti artistiche a lui contemporanee si recò in Francia, Inghilterra, Spagna incontrando i più grandi artisti dell’epoca. Trascorse due anni della sua vita a New York dove sviluppò una salda amicizia con Mark Rothko, fondamentale per gli sviluppi successivi della sua arte. Al suo rientro in Italia portò avanti la sua ricerca personale fino a raggiungere la conquista più propria dell’artista napoletano: la trasparenza. Messa in atto alla fine degli anni ’60, dopo un nuovo lungo soggiorno a New York, la trasparenza verrà canonizzata da Giulio Carlo Argan nel 1979 con uno scritto apparso sull’Espresso in cui lo porrà in rapporto ai Tagli di Lucio Fontana e al dibattito sul valore spaziale e ambientale dell’oggetto quadro. Emblema lavora diradando la tela e rendendola suscettibile alla luce, alle infinite variazioni della realtà che dalle spalle della tela ora si affacciano sulla bidimensionalità del piano pittorico, con l’unico filtro di una detessitura esile e geometrica che la guida nel passaggio da linguaggio quotidiano a linguaggio artistico di cui l’artista con gesto paziente, dilatato, modula il tono, il ritmo e la punteggiatura. Salvatore Emblema fu invitato a numerose e prestigiose rassegne, partecipò alla XL Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Nel 2005 furono allestite due importantissime mostre antologiche in sud America: a San Paolo del Brasile nel Museu de Arte Contemporanea da Universidade e a Rio de Janeiro nel Museo de Arte Moderna. Il suo lavoro è ormai presente nei principali libri di storia dell’arte tra cui i libri scolastici di Giulio Carlo Argan su cui generazione dopo generazione ci formiamo tutti. L’artista ha condotto per anni una ricerca coerente sulla luce e il colore fino a giungere alle "trasparenze” riconosciute da Argan come punto di arrivo. Oggi viene accostato da Sgarbi a Fontanae a Burri nelle soluzioni di spazialità e presenza materica della tela. La sua prima esposizione personale si tiene a Roma alla Galleria San Marco, in seguito, per citare solo le mostre più importanti, espone alla Galleria Christian Stein a Torino, a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, al Museo Pignatelli a Napoli e alle Gallerie degli Uffizi a Firenze. Dopo essere state viste alla XL Biennale veneziana, le sue opere arrivano al Metropolitan Museum di New York,per poi tornare a Napoli a Palazzo Reale e a Vicenza, nella Basilica Palladiana. Negli ultimi anni della sua vita sono state allestite tre importantissime mostre in sud America a Rio de Janeiro, a San Paolo e a Città del Messico: i consensi dei critici, degli studiosi e del pubblico lo hanno consacrato ad una grande fama.
Sue opere in collezioni pubbliche: Galleria degli Uffizi - Firenze Museo Villa Pignatelli - Napoli Musei Vaticani - Roma Metropolitan Museum - New York Rockfeller Center - New York Ludwig Museum - Koblenz Baymans Museum - Rotterdam
Serata di beneficenza presso il locale "Caraibi" di via Campana, 262 a Napoli organizzata dall'associazione culturale onlus Alma Mundi, venerdì 16 aprile 2010 alle ore 21. Cibo e tanta musica. Il prezzo del biglietto è di 15 euro. Il ricavato sarà devoluto alla scuola elementare Abobo in Costa d'Avorio. "Aiutiamoli a colorare il loro Futuro". Vi aspettiamo!
Si può usare per un pittore la definizione di narratore visivo? Per Armando De Stefano la definizione risulta propria: De Stefano racconta storie, mette in scena commedie drammatiche, organizza rappresentazioni allegoriche. Dopo il ciclo figurativo dedicato (tra il 1967 e il 1968) a Jean-Paul Marat (il giacobino idolatrato dal popolo di Parigi), dopo il «Ciclo di Tommaso Aniello » (Masaniello, «l’inquieto e temerario pescivendolo di Napoli») del 1970-1975, dopo il «Ciclo di Odette» (del 1973-1977) dedicato a «Vita, persecuzione, morte e resurrezione di una giovane borghese innamorata di un proletario anarchico», eccolo proporci, con spregiudicato coraggio e coerente vitalità immaginativa, il «Ciclo del Profeta», iniziato nel 1978 e ancora aperto: i protagonisti del «Ciclo del Profeta» sono Giovanni Battista, Cristo e Maria sua madre, antieroi, secondo De Stefano, umanissimi e libertari che incarnano, come Marat, Masaniello e Odette, uno scandaloso (profetico) destino di riscatto morale.
I cicli di De Stefano sono romanzi scenici, affreschi teatrali, melodrammi costruiti attraverso sequenze pittoriche, che sfruttano la tecnica cinematografica dei piani e contropiani, i ritmi mimici del balletto e della danza, la funzione rituale che armonizza nello spazio del palcoscenico il gesto degli attori e la scenografia che svolge un ruolo di maschera. A proposito delle rappresentazioni pittoriche di De Stefano sono stati chiamati in causa il teatro liturgico-misterico di Lope de Vega e il cinema epifanico di Bergman e Bunuel: certo vi si rintracciano analoghi contrasti tra idealismo ed esistenzialismo, tra ieraticità simbolica e realismo fisico; ma la sacralità di De Stefano, non è, come in Lope de Vega o Bunuel, religiosa; un elemento libertino e liberty, sostanzialmente laico anche se non parodistico, richiama, nei suoi racconti per immagini, alla memoria più propriamente “Il fiore delle mille e una notte” di P.P. Pasolini e “L'opera del mendicante” di John Gay. Nell’ispano-napoletano De Stefano, che riprende la lezione del sulfureo espressivismo dello Spagnoletto, convivono pathos ed eros, innocenza e ambiguità, in una ritualità non liturgica, che usa, in un percorso di ascesi stoica, persino la perversa provocazione peccaminosa di Salomé.
Marat, Masaniello, Cristo: Armando De Stefano mostra una ferma predilezione per il ricupero del valore simbolico di certi personaggi storici anticonformisti, profeti dell’utopia dell’innocenza, della speranza e della convivenza. Ma De Stefano non celebra la Storia: tanto meno la glorifica. I suoi antieroi sono, anzi, vittime esemplari dei poteri storici formali; agnelli sacrificali, vittime di persecuzioni e crocifissioni. La storia autentica, moralmente educativa, è per De Stefano quella basata sulla catena di ribellioni, martirii e riscatti che lega i suoi poveri di spirito, interpreti di una riconsacrazione umana dell’esistenza. La Storia con la S maiuscola è, invece, la Peste di Napoli, il Giardino Morto di Odette, la Fuga di Giuda: un museo mortuario, un mausoleo della distruzione per uscire dal quale ci è d’aiuto solo il filo di Arianna dell’amore (anche corporale). La pittura di De Stefano celebra, dunque, la Resistenza del Privato contro la Storia.
Ogni vicenda dei suoi personaggi, anche quella di Cristo o di Maria, descrive un percorso di ricerca di identità personale: e i miracoli (di strazio o felicità) in cui sono coinvolti, non sono testimonianza del divino — non sono sublimazione — ma solo un riconoscimento o un’appropriazione di umanità. Il Cristo di De Stefano assomiglia molto all’«uomo di Nazareth» di Anthony Burgess e Maria ha molto in comune con la silenziosa e protettiva madre terrena di Gesù proposta da Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo”: protettiva come tutte le donne dei tazibao maieutici di De Stefano che sono madri anche quando sono amanti. De Stefano mette in scena le vicende dei suoi eroi per riviverle in una liberatoria drammaturgia mimica e mimetica: acutamente Testori ha parlato a proposito delle sue raffigurazioni, di «narcisismo giudicante e sacrificale».
Le parole che pronunciano e vivono i personaggi di De Stefano sono ardore, amore, furore, in alternativa ad orrore, terrore, dolore. Benché sia passato da Marat a Masaniello, personaggi mitopoetici della Rivoluzione, a Maria e Cristo personaggi mitopoetici della Redenzione, De Stefano non sottolinea ancora le parole gioia o grazia. Nel «Ciclo del Profeta» lo Scandalo dell’identità non è lo Scandalo della Verità, la Protesta non è Preghiera. Amore e Morte, Bene e Male conducono ancora, nei poemi visivi di De Stefano, un’irrisolta battaglia. Nei suoi quadri i fiori diventano spine, i broccati si trasformano in piaghe: e non viceversa. Le sue non sono sacre rappresentazioni, sono chansons des gestes, fastose ballate trobadoriche profane.
La pittura di Calibé è improbabile perché le verità assolute appartengono solo ai dogmi, mentre in arte non c’è soluzione per chi voglia anzitutto garantire il suo cammino o restare ad ogni istante giusto e padrone assoluto di se stesso ; perché in ogni singolo artista il modo di essere dell' uomo è ambiguo nel senso che non è né soggettivo, né oggettivo.
L' improbabilità allora non vuoi dire che la concettualità e l’action dell’artista siano confuse e incerte, ma vuoi indicare che ogni attività umana, e soprattutto la creatività, include necessariamente l’esperienza soggettiva, che ha in se l’oggetto, e l’apparire in un oggetto, che risulta costituito da operazioni soggettive, come più o meno suggerisce Merleau-Ponty, il quale fa rivelare, inoltre, come nessun lato dell’oggetto si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandone l’esistenza nell’atto di nasconderli.
Perciò vedere è, per principio, vedere e far vedere più di quanto si veda; accedere e far accedere non ad una mancanza, ma ad una latenza. Tutto ciò comporta il coinvolgimento attivo dello spettatore che scopre le dimensioni, le linee di forza, gli scarti che segni e forme obliquamente suggeriscono in quanto alone di invisibilità presente.
In tal modo Calibé può tentare il meno probabile: porre nel corpo e nella carne della sua pittura due movimenti interni e trasversali; l’uno rettilineo, tendente all’ordine dell' eidos, l’altro circolare, esplosivo, nucleare, contraddittorio, improbabile come il moto delle comete, sospettato inverso a quello di tutti gli altri pianeti; assegnare al colore l’esplosione erotica dei caldi, ai freddi l’esplosione degli spazi invisibili; capovolgere nel regime diurno le immagini e le figure del regime notturno; immergersi nel nero, che è massimo assorbimento della luce, nel bianco che è matrice ed assenza di ogni materia colorata; può ispessire sino ad essere pantagruelico divoratore di im-pasti, assottigliare e ridurre sino a preferire l’astinenza minimalista dei francescani; può indurre l’ebbrezza dionisiaca e l’ek-stasis apollinea.
Compie soprattutto il suo viaggio a Citera con i suoi ospiti, visitatori sospesi, compagni di avventura.
SAINT-NON JEAN CLAUDE RICHARD(De). Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile. Paris, (Clousier). 1781-86. 4 parti in 5 voll, in folio mass.: I vol. occh., front., carta di dedica alla Regina, XIII pp.. 1 cc. nn., 252 pp. num., 3 tavv. a doppia facciata inc. su rame, 48 tavv. inc. su rame, 4 tav. di medaglie. II vol. 2 cc. nn. XXVIII 283 pp. num. (1 cc. nn. fra le pagg. 78-79, e 3 cc. nn. fra le pp. 108-109), 1 tav. a doppia facciata inc. su rame, 3 tavv. sempre inc. su rame (compresa la famosa tavola del Fallo). 3 tavv. delle medaglie. III vol. 2 cc. nn. XL, 201 pp. num. (2 cc. tra le pp. 130-131, ed ancora 22 pp. num.), 65 tavv. inc. su rame, 3 tavv. di medaglie. IV vol., 2 cc. nn., XVIII pp., num., 2 cc. per l’indice delle tavole, 71 tavv. inc. su rame, 3 tavv. delle medaglie. V vol., 2 cc. nn., IV pp. 1 cc. nn. per l’indice delle Tavole, da pag. 267 a pag. 429, 21 tavv. inc. su rame, 2 tavv. di medaglie. Magnifico lavoro pubblicato in lussuosa veste editoriale dall’abate Saint-Non. La sontuosa opera è corredata di 542 incisioni eseguite dai più grandi artisti del suo tempo. Edizione originale di primissima tiratura su carta di lusso. Rarissimo a reperirsi completo della tavola del Fallo e delle 14 tavole delle medaglie che mancano sovente.
Jean-Claude Richard de Saint-Non (Parigi, 1727 – 1791), meglio conosciuto come Abbé de Saint-Non, è stato incisore, disegnatore, umanista, archeologo, mecenate e viaggiatore. L'intraprendenza e il fascino dell'abate di Saint Non, sembrano quasi in contrapposizione con la figura di ecclesiastico. Il famoso ritratto conservato al Louvre ed eseguito dal suo amico artista Honoré Fragonard rispecchia in pieno la sua personalità.
Jean Claude Richard de Saint-Non a vent’anni è già consigliere ecclesiastico del Parlamento di Parigi. Superata la trentina, si dimette dal proprio seggio di consigliere per dedicarsi ad una vita “da artista”, sempre in viaggio alla scoperta degli angoli “pittoreschi” d’Europa. La vendita delle stampe, e poi la grande impresa editoriale del Voyage saranno la sua principale fonte di sostentamento. Dal 1760 Saint-Non, con Fragonard, Hubert Robert e diversi altri artisti, visita tutta l’Italia. Raccoglie appunti scritti e grafici e comincia ad accumulare un vastissimo patrimonio di fogli di pittori, disegnatori, architetti, incisori. Nella raccolta di Saint-Non figurano ben venticinque pittori (tra i quali, Paris, Desprez, Volaire, TaravaleVernet) e quasi settanta incisori.
Saint-Non comincia a lavorare al grande progetto che resta uno dei documenti più importanti dell’epoca. Nel 1781 esce il primo dei cinque volumi (pubblicati annualmente) del Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile. Vastissima impresa tipografica, i libri raccolgono appunti di un diario di viaggio, corredati da un totale di 542 tavole all’acquaforte. È un successo. Le stampe dei volumi di Saint-Non sono lo specchio del gusto di un’epoca: da un lato, le vedute delle città, i paesaggi, le distese di rovine e gli “esterni” del Grand Tour; dall’altro, la “schedatura” dei dipinti delle chiese e dei reperti archeologi. Dalle tavole organizzate da Saint-Non emerge un’immagine dell’Italia del Sud che è al tempo stesso entusiasmante e malinconica. Osserviamo una sfilata di meraviglie dell’arte e della natura, eppure tutto è come avvolto da un’atmosfera di sottile decadenza, di agrodolce folclore; per esempio i templi di Paestum e di Agrigento sono entusiasmanti, ma anche coperti di rampicanti e di erbacce, da qui il termine “pittoresco”.
Di Admin (del 20/05/2010 @ 12:54:40, in Arte News, linkato 1743 volte)
{autore=schetter francesco}
Autore: FRANCESCO SCHETTER (1955) Titolo: PENSIEROSA Tecnica e superficie: PASTELLO SU CARTONCINO Dimensioni: 50 x 70 cm Anno: 2009
Dopo aver frequentato l'Istituto d'Arte con fervida passione, si dedica alla pittura, traendo forza e vivacità dagli ambienti artistici campani, ma tenendosi sempre nella dirittura di una propria impronta rappresentativa.
“Il poderoso incombere, nella più recente produzione dello Schetter, di figure umane, atteggiate in posa di naturalezza estrema, parrebbe lasciarci indifferenti se non cogliessimo, dopo il primo distratto sguardo, un sentimento di profonda e sofferta drammaticità. Quel tanto che basta per fuorviare ogni sospetto di un virtuosismo artistico fine a se stesso. Alla base del suo operare, comunque, un limpido segno grafico e pezzature di poche tonalità dominanti di rossi affogati, turchini profondi, bianchi luminosi, verdi intensi e perfino favolosi viola. Il tutto per forme esaltate da una sinuosa e irrequieta vitalità!... […] Quella per la rosa è una sua passione viscerale, un interesse senza limiti per un fiore notoriamente stupendo. Questo, a prima vista, parrebbe giustificare l'exploit artistico davvero sorprendente dell'Artista […]. Un roseto che incanta con le sue mille tessere coloristicamente interessanti. Ecco, forse è questo che alla fine giustifica la ricerca e l'amore di un artista come Franco Schetter per la rosa. Mille sono infatti le sue varietà botaniche e mille le maniere a disposizione dell'Artista per rimirarla e fermarla con pennellate rapide e mai ripetitive: mille ancora i profumi che paiono inebriarci e sempre mille, per illusione, gli scenari che paiono celarsi ed aprirsi a un tempo dietro al roseto…” (Matteo de Musso)