Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Admin (del 10/03/2011 @ 18:57:47, in Mostre ed Eventi, linkato 1628 volte)
{autore=emblema salvatore}
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Di Admin (del 14/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 4336 volte)
{autore=capaldo rubens}

RUBENS CAPALDO (Parigi, 1908 - Napoli, 1997)
"NUDO"
OLIO SU TELA
69 x 40 cm del 1967




RUBENS CAPALDO (Parigi, 1908 - Napoli, 1997)
"FIGURA"
CARBONCINO SU CARTA
96 x 50 cm del 1973

 Entrambe le opere sono firmate e datate in basso a destra.


Rubens Capaldo "alle origini della forma" di Paolo La Motta

 Osservando il panorama della pittura napoletana della prima metà del Novecento, e più precisamente analizzando l’opera dei pittori come Crisconio, Chiancone, Striccoli, Brancaccio, Casciaro, è evidente, nella formazione di tutti questi autori, la matrice novecentista che, nel periodo in cui hanno operato, accomunava pittori di tutta Europa ed oltre, secondo il rapelle al ordre di Waldemar George e i “Valori plastici” di Mario Broglio.

Ma osservando l’opera di Rubens Capaldo, che appartiene ad una generazione successiva ai pittori sopra citati, Guido Casciaro escluso, notiamo subito, nella prima fase giovanile, un forte debito nei confronti di Crisconio, pittore molto amato da Capaldo. Mentre non rileviamo tracce di “Novecento” nella sua formazione, se non in qualche opera. Ora c’è da domandarsi da dove mai venisse l'amore di Capaldo per quelle forme piene e scultoree, per quella pittura dove la figura umana, il nudo, assumono un ruolo centrale nella sua ricerca, dove un nutrito corpus di disegni rappresenta il cuore della sua poetica, esplicata da un fare monumentale. Leggendo alcuni cenni biografici sulla formazione dell’artista, scopro un elemento che credo determinante per spiegare quel gusto per la forma piena: è il termine “crastularo”, ovvero ceramista.

L’approccio all’arte del giovane Rubens, avviene attraverso l’uso della creta, materia che conosce ben prima del colore. Il lavoro sulla ceramica è principalmente un lavoro sulla forma: il termine “forma bombata”, che suona così scultoreo, è, tutto sommato, legato alla forma dei vasi (a tal proposito si guardino certe sculture di Maillol). È l’amore giovanile dell’artista per la linea curva, per la forma plastica, per l’ellisse, che darà luogo a quel linguaggio personale di Capaldo maturo. Ammirando gli straordinari nudi del maestro, prima di analizzare il linguaggio della pennellata che merita sicuramente uno studio a parte, noto subito qualcosa che ha poco a che fare con la nostra pittura napoletana, cioè quel modo tipico del Manierismo di allungare i corpi e rimpicciolire le teste (proprio di un Pontormo e di un Rosso Fiorentino) come anche la resa di incarnati lividi, molte volte ottenuti con toni freddi di straordinaria raffinatezza.

Potremmo paragonare la ricerca di Capaldo sul Manierismo a quella dello scultore Emilio Greco che in scultura sperimentava in quegli anni tale linguaggio.

Questo avvicinarsi al Manierismo è nato sicuramente da un’esigenza interiore, legata, come dicevo, alla sua formazione di matrice scultorea che consente di focalizzare il proprio lavoro sulla forma, essendo peraltro padrone di molteplici tecniche e profonde conoscenze di mestiere. La pennellata, come dicevamo, ha un forte rapporto con l’opera di Crisconio, il quale riesce a coniugare i toni cupi ereditati dal Seicento e appresi dall’opera del Cammarano, con una visone moderna e costruttiva che passa attraverso l’opera di Cèzanne. Capaldo capisce che la pennellata, il gesto nervoso e costruttivo, sono il compimento della sua ricerca sulla forma pittorica. Pennellata che risente dell’esperienza del ceramista, la materia brillante e luminosa di certe opere mature che fanno pensare alla lucentezza degli smalti tipiche delle maioliche. In questo modo il maestro non si accontenta solo dell’aspetto costruttivo e luminoso (la famosa sintesi cezanniana di forma-colore-luce), ma altri aspetti di natura simbolista e visionaria accompagnano il suo lavoro, dando un’originale impronta alla sua ricerca. In alcuni dipinti il fondo sembra compenetrare con i volumi che compongono la figura, andando a sfaldare i piani, creando un’atmosfera luminosa, suggestiva ed unica. Dunque Capaldo è un artista ricco di suggestioni, con una formazione del tutto originale e con una personalità complessa e raffinata. Grazie a queste caratteristiche, la sua pittura ha sicuramente un respiro europeo, conferma indiscutibile della nostra ricchezza culturale, che tante volte la nostra città purtroppo nasconde sotto l’ombra del provincialismo e dell’ignoranza.

(Paolo La Motta)

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Di Admin (del 18/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2428 volte)
{autore=cherubini andrea}


L'opera riporta firma, luogo e data in rosso in basso a sinistra: "A. Cherubini - Capri - 1901" e titolo sempre in rosso, in basso a destra: "Casa di Olconio - Pompei".

ANDREA CHERUBINI (Roma, 1831 - Capri, 1905)
Dopo aver studiato e fatto il suo apprendistato a Roma, dipinse nel Lazio e spesso in Campania sino a trasferirsi a Capri, nel 1880, sposando una giovane isolana. La sua produzione artistica è vasta e comprende sia oli che acquerelli. Il suo soggetto preferito è Capri ma di lui si conoscono anche nature morte e paesaggi ischitani. Esordì nel 1865 esponendo a Roma con la Società Amatori e cultori, paesaggi laziali: “Campagna romana con capre”, “Campo verde con anatrelle”, “Bufali con antico rudere”, “Nevata”, “Paesaggio con bovi” e “Veduta del Colosseo”; nel 1870 alcune nature morte; nel 1871 dipinti di genere e dal 1872 in poi motivi capresi; nel 1883 una marina ed in altre esposizioni figurò con otto vedute di Capri, con “Veduta dell’isola d’Ischia” e “Dintorni dell’isola d’Ischia”. La sua produzione si divide tra una più commerciale e una in cui l’artista sembra ricercare una dimensione onirica e quasi surreale del paesaggio. Eseguì anche dipinti a tema religioso e lavorò per la chiesa del Sacro Cuore a Castro Pretorio a Roma. Delle sue opere più significative possiamo ricordare: “Marina di Capri” del 1873, ”Il mare veduto dall’isola di Capri”, ”Grotta Azzurra” del 1879 e ”Salto di Tiberio” del 1885.
(Roberto Rinaldi – Pittori a Napoli nell’Ottocento)
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Di Admin (del 19/03/2011 @ 17:32:49, in dBlog, linkato 1553 volte)
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Di Admin (del 25/03/2011 @ 12:50:12, in Mostre ed Eventi, linkato 1548 volte)
{autore=godi goffredo}
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Di Admin (del 30/03/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2535 volte)
{autore=sannino ettore}


L'opera riporta firma e data in basso a sinistra: "E. Sannino - 1952" e sul retro della tavola c'è il cartiglio dell'autore col titolo: "Meriggio in giardino. Ettore Sannino - Portici".

ETTORE SANNINO (Portici, 1897 - 1975)
Dopo gli anni di guerra aveva potuto tardivamente iscriversi all’Accademia di Belle Arti, dove si sarebbe formato come scultore nel solco del magistero di artisti quali Achille D’Orsi e Luigi De Luca, conseguendovi il diploma nel 1922 e iniziando una intensa attività come scultore in marmo e bronzista, che si protrarrà con successo per venti anni. Nei mesi convulsi che portarono al tragico epilogo l’avventura bellica voluta dal fascismo, Sannino prenderà in mano pennelli, colori ad olio e tele dando il suo addio definitivo alla scultura. E alla pittura resterà fedele per il trentennio successivo. Al suo esordio come pittore, un sicuro punto di riferimento per lui fu certamente il magistero dell’amico Luigi Crisconio, che proprio a Portici aveva dedicato alcune tele di particolare suggestione. Che un artista attivo nel campo della statuaria passasse all’attività pittorica non era di per sé un evento raro. A rendere, tuttavia, peculiare e alquanto insolita la scelta compiuta da Ettore Sannino è il fatto che l’abbandono della scultura e la complementare passaggio alla pittura risulteranno nel suo caso scelte definitive e irreversibili. La pittura aveva enormi vantaggi, in particolar modo per la relativa “facilità” tecnica e per la “leggerezza” e duttilità espressiva, oltre che per l’economicità di tempi e costi realizzativi.
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Di Admin (del 06/04/2011 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 5710 volte)
{autore=de stefano armando}


L'opera è firmata e datata in basso a destra: "A. De Stefano 1976". A tergo sono: titolo, data, firma, tecnica e un numero di archivio apposti dall'autore: ""Il fauno '76", A. De Stefano, tempera, 5138". Il dipinto è corredato dall'autentica diretta dell'artista su foto (del fronte e del retro) in bianco e nero, dove il maestro specifica che, tra l'altro, la tecnica usata è quella dell'olio.

DE STEFANO, DENTRO LA VITA LA SOLITUDINE DEL LEONE.
Domenico Rea scrisse che Armando De Stefano ha "la capacità di scendere nel cuore delle cose e di riportarle in luce, in colore, senza rinunciare a nulla di napoletano". Pittore di confine, alla soglia degli ottant’anni De Stefano ha appena pubblicato un bel libro antologico, Continuità nel realismo, a cura di Arturo Fratta. E già quel titolo è una rivendicazione di resistenza alle mazze e piveze - così lui le definisce - che oggi invadono gli spazi dell’arte. «Sono nato al Borgo Orefici. Papà Luigi era cassiere di banca, mamma Assunta curava la casa e cuciva i vestiti per noi tre figli, io il terzo. Fu lei a chiamarmi Armando come l’Armand Duval dell’amata Signora delle camelie. Bella la vita in quel quartiere popolare. In piazza Mercato fittavavamo le biciclette, sorbivamo le rattate di ghiaccio tritato e colorato di sciroppo, ascoltavamo le anziane narrare le leggende della rivoluzione del 1799. Per loro Eleonora Fonseca Pimentel era una malafemmena». Quando cominciò a dipingere? «Alle elementari. Non ho mai fatto i disegni dei bambini, e mi dispiace. La matita nella destra, ritraevo la mano sinistra aperta e viceversa. Mio zio Francesco Parente, scultore, m’incoraggiava, ma papà non voleva, ne aveva visti troppi di artisti in miseria, nella sua banca. Però fu lui a far crescere la mia voglia. Mi parlava di Gemito, perché andava a casa sua ogni tanto a portargli un assegno di Mussolini. Gemito faceva il the, non glielo offriva, prendeva una carta gialla, di quelle usate per il sapone, e disegnava un cavallo, un pesce, un cervello. "Portatelo all’eccellenza", era il suo modo di disobbligarsi. Arrivato in quarta il direttore decise di usare la mia abilità. Invece di studiare, disegnavo a tempo pieno. Ritratti del generale Diaz, della regina che offre l’oro alla patria. All’esame di ammissione temevo di essere bocciato, ma mi aiutarono». Fece subito studi artistici? «No, m’iscrissero al magistrale Margherita di Savoia. Di pomeriggio si tenevano corsi di pianoforte e violino, così m’innamorai anche della musica. Ma non si possono fare tante cose insieme. Ho nutrito quasi un senso di colpa per aver lasciato la musica; per attenuarlo ho sempre tenuto un piano a coda nello studio e ho donato disegni di strumenti al conservatorio, quando lo dirigeva Roberto De Simone». Che ricordo ha della guerra? «Fame e paura. All’inizio era quasi divertente scendere nei ricoveri, vedevi le ragazze in abbigliamento più intimo. Ma poi uscivi, vedevi le case distrutte, e montava l’angoscia. Tornata la pace, passai al liceo artistico". E fece i primi quadri veri. «Ritraevano certi uccelli, soprattutto anatre. Usando lo specchio dell’armadio della padrona di casa feci il primo autoritratto, lo conservo. L’arrivo degli Alleati fu un vantaggio anche personale. Mio padre era amico di un certo Ciappa, copista della Tate Gallery di Londra, che mi consigliò di fare i ritratti agli ufficiali americani e inglesi. Andavo alle batterie contraeree munito di una tavoletta e di un blocco di carta. Ogni disegno, tre AM lire. Ne esposi uno, come pubblicità, nella libreria Lepre in via Costantinopoli. Funzionò, facevo fino a tredici ritratti al giorno. Fu una grande lezione e campammo tutti un po’ meglio. Ma poi Napoli si spopolò e addio affari». Suo padre comunque aveva cambiato idea. «Macché. In famiglia erano tutti ragionieri, gente quieta. Dopo la maturità mi disse: iscriviti almeno ad architettura, pure quella è un’arte. Resistetti un anno. Gli dissi: non ti preoccupare, me la vedo io. Magari andrò a Parigi o a Londra, e se va male laverò i piatti. All’Accademia feci l’incontro meraviglioso con Emilio Notte: grande pittore, grande didatta. Disse: "Ricordati che i leoni camminano da soli", questa frase mi ha accompagnato per tutta la vita, la lezione morale di Notte mi ha guidato in 42 anni di insegnamento. Al terzo anno di Accademia vinsi il Premio De Gasperi a Roma ed esposi alla Biennale di Venezia, dipinti di figure allungate. Grazie a una mostra al Grenoble conobbi Picasso, Braque, Matisse. Fu uno choc. Presi a fare cose discontinue, a cercare una mia strada». Erano anni di ricostruzione e di speranza. «Nel 1946 m’iscrissi al partito comunista. Papà era di sinistra, ma subii soprattutto l’influenza ideologica del pittore Raffaele Lippi, reduce dalla Russia. Dal 1950 tenni rapporti con i compagni di Roma, a partire da Renato Guttuso. Sperimentai un linguaggio di grande ricchezza, frequentai camere del lavoro e case del popolo, contadini calabresi e lavoratori delle risaie. Facevamo murales, grandi pannelli per le feste dell’Unità. E se prima non avevo il coraggio di dire una parola, imparai a parlare in pubblico. Mi sentivo un pittore con una funzione, oggi mi sento un isolato. Feci una mostra in America con il gruppo realista. Nel ‘54 fui premiato al Festival della Gioventù a Mosca, ero un ‘pittore del popolo’; presentai un nudo, quello della ragazza che vendeva sigarette sotto casa». Quanto durò quel periodo? «Il XX congresso del Pcus fu lo spartiacque. Il partito girò le spalle al realismo, convogliò intellettuali di pareri ben diversi. Guttuso si girò verso gli americani, la pop art. Fu un aborto. E venne una prima rottura tra noi artisti. Dopo l’invasione dell’Ungheria non rinnovai la tessera. C’era anche una crisi di linguaggio, un nuovo tipo di operaismo nell’arte ci esponeva al rischio di una iconografia di tipo fascista. L’apologia non ha niente a che fare con la realtà, ch’è complicata. Alla fine degli anni Cinquanta, alla Biennale di Venezia, entrai in contatto con un pittore che aveva capito le contraddizioni della realtà: Francis Bacon. Fu un arricchimento. Gli operai oramai volevano diventare borghesi. Per cogliere opposte sfumature occorrevano immagini meno ieratiche, perfino più ambigue». Ciò nonostante, lei seguì la continuità nel realismo. «Ma con strumenti diversi, ispirandomi al cinema e alla storia, quella valida per l’oggi. Cominciai con Masaniello, una grande mostra a Roma e poi a Firenze. Mi aveva colpito un libro di Vittorio G. Rossi, Miserere per i fichi; narrava di un rappresentante di detersivi che si trova nelle strade napoletane del ‘600. Misi un microfono in bocca a Masaniello, lo trasformai in tribuno di piazza. Come colonna sonora presi i canti popolari raccolti da De Simone. Fui affascinato da altre figure di uomini inghiottiti dalla rivoluzione, come Marat, come Lumunba. E le dipinsi». Poi venne il ciclo di Odette e il Jolly. «Fu presentato da Giovanni Testori, geniale amico. La mostra andò a Londra e in Spagna. Per me Odette era la Francesca Bertini dei film muti visti da bambino, una suffragetta a cavallo di due secoli che si innamora di un anarchico. In fondo, un romanzo a fumetti riscattato dalla presenza di un jolly che, come nelle carte, risolve i problemi, nel bene e nel male. Seguirono le Maschere, cui ho dato un senso diverso: utili non a mimetizzarsi bensì a essere se stessi, disinibirsi». E’ ricorrente l’uso di certi simboli rovesciati. «Forse. Ad esempio il ciclo del Mercato dei Miti. Dopo la guerra si vedevano sulle nostre bancarelle fez e pugnali fascisti; sulle bancarelle dell’Est cappelli e distintivi dell’Armata Rossa. Smitizzati. Ciò che fa paura può diventare oggetto di scambio da pochi soldi. E per Dafne stranamente m’ispirai a D’Annunzio più che a Ovidio. Fu un grido di critica sociale: pensavo al trasformismo, alla vergogna della gente che passa da un partito all’altro». Una vena libertaria, di sostegno agli sfavoriti percorre tutto il suo lavoro. «Feci gli Esclusi, l’idea mi venne da un magnifico libro di Sergio Piro con le foto di Luciano D’Alessandro. Ma gli esclusi non sono solo i pazzi, escluso è chiunque è tenuto in disparte perché non accetta le speculazioni. Li presentai a Napoli, a Palazzo Reale". E venne il ciclo del 1799. «Cominciai negli anni ‘70 con ritratti di Championnet, Nelson, Cirillo. M’ispirarono i racconti delle vecchiette di piazza Mercato. Feci una mostra a Palazzo Reale nel 1989, ho ripreso il tema per il bicentenario. Ho molte tele sulla rivoluzione napoletana, la decapitazione di Eleonora, i Francesi... Non le vendo, voglio donarle al comune di Napoli. Ne parlai con Guido D’Agostino quando era assessore, disse che voleva sistemarle in un museo da aprire in una chiesa del Mercato. Non ebbe il tempo. Ne ho parlato con la Furfaro, dice che quel progetto non esiste. Magari ne parlerò con Spinosa, il Museo di San Martino sarebbe la sistemazione adatta. Spinosa ha voluto due miei dipinti a Capodimonte, due spaventapasseri. E non ho rinunciato a salvare la statua di gesso di Jerace sul 1799. Gerardo Marotta la ripescò per esporla a Sant’Elmo, è finita nel cortile di Palazzo San Giacomo. Era passata la mia tesi di tradurla in bronzo, bastavano 50 milioni. Invece sta lì e può andare in pezzi al primo urto. E però nelle vie ci sono i tralicci di Kounellis». Non la convince, è noto, la politica napoletana dell’arte. «Ho l’impressione che Napoli abbia vissuto una sindrome delle avanguardie, eccessiva, correndo il rischio di cadere nel provincialismo della smania del nuovo. Diceva Carrà: ‘Di cose nuove è pieno il mondo, cioè diventano vecchie’. Non c’è cosa più vecchia e stantia di un’avanguardia superata. Non sono contro l’avanguardia in sé, vorrei solo una dialettica fra le varie tendenze. Se l’avanguardia diventa cultura di Stato, che avanguardia è? Diventa un termine militaresco, come eia eia alalà. Diceva Testori: ‘Non bisogna mai confondere avanguardia e modernità’, ossia tutto ciò che accade attorno a noi, filtrato senza civetteria, senza mode. Io sono un pittore moderno, non di avanguardia. Il Pan, il Madre, le opere in piazza Plebiscito: va tutto bene, però non si può portare una certa esterofilia all’esasperazione. E non parlo di napoletanità, e non lo dico perché non c’è un quadro mio sotto il metrò. Lo dico perché così si distrugge la cultura mediterranea, quella di Picasso per capirci. Non basta portare il mondo a Napoli, dobbiamo portare Napoli in tutto il mondo». Dica qualcosa che l’è piaciuto di recente. «All’ultima Biennale di Venezia ho incontrato il pittore Freud, nipote dello psicanalista. Bravissimo, trasgressivo, ambiguo. Nel mondo esistono fenomeni veri, perché mortificarli? Sto lavorando anch’io sulle trasformazioni dell’ambiguità. Ho avuto il ‘600, Cammarano, Gemito, i miei vecchi. Ho scelto questo mestiere perché amavo i pennelli, i colori, la tela, la puzza dell’acqua ragia, il corpo umano. Ma le passioni antiche, gli strumenti eterni dell’arte, devono sempre servire alla modernità». PIETRO GARGANO (da “Il Mattino” del 6 novembre 2005)
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Di Admin (del 18/04/2011 @ 13:00:00, in Arte News, linkato 2457 volte)
{autore=tafuri lucio}


L'opera è firmata e datata in basso a sinistra: "Lucio Tafuri 1972".

LUCIO TAFURI.
Da "Il Secolo XIX":  "...come una ventata di aria fresca, fa palpitare la tela dando alla figura, con naturale lirismo, l'analisi estetica che solo l'artista autentico sa discernere." 
"Oggi Tafuri si propone a noi con opere che dimostrano la scioltezza pittorica del suo operare: artista completo, ma soprattutto notevole ritrattista, i suoi lavori sono commissionati da istituzioni di rilievo e importanti famiglie."
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D'AMBRA RAFFAELE. "NAPOLI ANTICA illustrata con 118 tavole in Cromo-Litografia". Napoli, (Reale Stabilimento Litografico Cav. Raffaele Cardone). 1889.
In-folio (460 x 330 mm), pp. 316 non numerate, frontespizio litografico stampato a colori, tavola con Piazza del Porto dopo il Risanamento, pianta topografica di Napoli ripiegata più volte, e 114 tavole cromolitografiche da soggetti di Matteo Zampella e Francesco Aversano protette da velina fuori testo. Legatura non coeva mezza pelle rossa con angoli, tasselli fregi e dicitura in oro al dorso e al piatto. Esemplare in ottimo stato.
 


PROSPETTO DELL'OPERA
La moria colerica del 1884 che mostrò le condizioni edilizie ed igieniche di una gran parte di Napoli, esser tali da costituire un pericolo perenne per la salute pubblica, diè per così dire, occasione al bonificamento della nostra città. La magnanimità del Re, che lasciò i suoi castelli per recarsi qui fra noi dove si moriva ed il voto del Parlamento crearono la legge del 1885 con lo scopo di risanare questa città, assegnando la somma di cento milioni. Si diede subito mano ai progetti: un disegno di risanamento de' bassi quartieri, con abbattere casamenti, rialzare strade mediante colmate e con costruire vie larghe con nuovi edifici; un' ampliamento della città alla periferia; una completa ricostruzione della rete generale di fognatura.


[…] Per l'opera del risanamento che si estende su di un' aria di 980.686.76 metri quadrati, vengono ad essere abolite 144 strade vecchie e 127 allargate; si abbattono 56 fondaci e 422 isolati di case, di cui 391 totalmente e 136 parzialmente: si distruggono 17.000 abitazioni e 64 tra chiese e chiesette. […] La parte della città sulla quale si avventerà senza posa il piccone del risanamento è fra le più antiche, e comprende vie e piazze dove sopra alcune vetuste lingue di mare sonosi per tanti secoli serbati avanzi di opere dell' epoche greca e romana, del Ducato, e delle dominazioni normanna, sveva, angioina ed aragonese. […] Il Municipio dunque lascerà demolire ogni avanzo di architettura lombarda, normanna, sveva, angioina, aragonese, e dicasi pure del risorgimento, del borrominesimo vicereale, dell'accademico restauratore dell'arte.


[…] E pur sarà cosi. Il nostro è un parlare al vento. Nessun patto fu stipulato dall'inisipiente nostro Municipio con la Società del Risanamento a fine di conservare i tanti monumenti di grandissima e talvolta straordinaria importanza per la Storia nostra e per l'Arte, e v'è fortemente da temere, non andranno in tutto o per la massima parte perduti. Laonde noi ad ovviare a tanta jatttura, non potendo far di meglio, pubblichiamo quest'opera illustrata con tavole in cromolitografia, dal titolo Napoli Antica, affinché se non altro, rimanga ai posteri un ricordo ed un' immagine di tale e tanta ricchezza.



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Di Admin (del 25/04/2011 @ 00:00:01, in Mostre ed Eventi, linkato 2010 volte)
{autore=Emblema Salvatore}25 Aprile 2011. Oggi ricorre l'anniversario della nascita del maestro Salvatore Emblema. Lo ricordiamo con un'opera del 1980.



Nell'anniversario della nascita all'artista viene dedicata una strada di Terzigno: "Via Vecchia Campitelli" diventa "Via Salvatore Emblema"; e presso il Museo Emblema saranno premiati i vincitori della 1° edizione del Premio Artistico Salvatore Emblema.

"[...] una pittura coerente e di qualità dall'inizio alla fine, nella quale è evidente l'osmosi tra le sue radici, la terra vesuviana e le materie con le quali si esprime. E' la Napoli bella quella che vive dei suoi controsensi che crea il senso... quella Napoli vera sempre fine, pulita, aristocratica e quella terrosa, sporca, contadina. [...] (da L'EMBLEMA DI NAPOLI di Manuela Borrelli).
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