{autore=de martino alfredo} Alfredo De Martino (Napoli, 1928)
Esordisce nel mondo della pittura negli anni Cinquanta, anni in cui tutto il mondo culturale era in pieno fermento, teso a scrollarsi di dosso un passato necessariamente statico. De Martino viene in contatto con i pittori di quegli anni: Viti, Crisconio, Villani, Brancaccio, Bresciani, ecc. e con essi discute, dipinge ed espone. De Martino è uno dei più assidui frequentatori della galleria Forti, che rappresenta un vero e proprio tempio della pittura per quegli anni, partecipa a diverse mostre vincendo nel 1945 il premio di disegno alla mostra giovanile “Premio Forti”. Negli anni che seguono De Martino partecipa a numerose collettive e personali e le sue opere si trovano in collezioni private in Italia e all’estero. Un suo dipinto è conservato nella chiesa di S. Maria degli Angeli in Napoli.
pastello su carta 50x35 cm
“Scorie, non altro che scorie, gli strimpellatori, consumatori di materie coloranti di oggi. Di tale armata di perditempo non fa parte Alfredo De Martino, che è bene inquadrato nella pittura napoletana, che è e sarà gloria dell’arte italiana. Al pittore De Martino il mio riconoscimento”. (Antonio Asturi)
olio su cartone 20x28 cm
De Martino non ama le assenze. Egli non si è mai arruolato tra i cacciatori allo spasimo delle utopie. Né, tanto meno, si è irreggimentato tra i sottoscrittori e i fiancheggiatori di formule. Questi atteggiamenti ludico-estetici li ha lasciati agli altri. Egli semplicemente è un pittore, o meglio uno che si esprime attraverso il colore, intensamente, luminosamente, matericamente mediterraneo. Ha alle spalle l’Ottocento napoletano e particolarmente Portici. Ha avuto compagni di via occasionali e significativi, tra cui Crisconio. Fondamentalmente, però, è rimasto ed è un autodidatta. Che poi è una scelta fatta da ogni artista, che rivendichi autonomia e autenticità al suo lavoro. Questo, sempre. Ma oggi la scelta dell’autodidatta acquista più senso che mai, in rapporto all’imperante e stritolante unidimensionalità di atteggiamenti e di gusto, rigidamente controllati dall’occhio onnipresente dell’orwelliano Grande Fratello. Oggi, infatti, i prodotti come le idee scorrono preconfezionati su un nastro d’acciaio da catena di montaggio, programmata con tempi di efficienza e negli interessi della Ditta o del Sistema. Costituiti non più su cifre di approssimazione artigianale, ma su automatismi di Megatecnica o Megamacchina, come dice L. Mumford. Sotto la luce perentoria e unica dell’occhio solare della Megamacchina, ogni idea, anzi ogni gesto che presuma di regolarsi e orientarsi per proprio conto e di contrapporsi alle lucide, precise, metalliche, cellophanate serie degli oggetti industriali, più che una sfida, risulta uno sgarro di mancata omertà e quasi un sintomo di follia. Sembra che contro il gigante armato osi alzare la faccia impertinentemente e assurdamente un piccolo, indifeso, sprovveduto, minuscolo essere, deciso ad offrirsi come esempio d’insubordinazione anche per gli altri, che nel frattempo fanno parte delle schiere sconfinate degli schiavi. De Martino, però, a questa stessa operazione non sottende uno zoccolo di enfasi, per ergervi sopra una statua tribunizia per l’agorà o per il foro. Nè vi immette il veleno dei “ragionieri” della pittura dei nostri giorni, dalle meningi logorate per le lunghe e tormentose vigilie passate a meditare su lacerti di sociologia e di ermeneutica, di semiologia e di psicoanalisi. De Martino non è per le esibizioni, nè per le citazioni o le contaminazioni. La sua materia è tutta nel colore, che accende la vita, forma i corpi, racconta i fatti, stabilisce i rapporti nel tempo e nello spazio. Egli sa che inizialmente è stata la luce ad immergersi nel caos, a sprofondare negli abissi e ad aprire le distanze o ad accoppiare le vicinanze. Ma subito, insieme con la luce, si è precipitato nel mondo il colore, che ha dato respiro ed energia all’universo, identità e fisionomia ai singoli aspetti. È il colore, infatti, per De Martino, che snida le presenze e le obbliga ad uscire allo scoperto e a dichiararsi inchiodandole definitivamente ai loro segreti magnetici e alle loro capacità espressive. Queste presenze non provengono dal nulla nè vanno verso il nulla. Il loro destino è dato nel momento in cui nella fisicità dello spazio si articola, come accade allo spettro dell’arcobaleno, una stretta connessione di campi cromatici. Nel coagulo e nello scatto delle interdipendenze dei colori si ferma per sempre e si raggruma un’apparizione, qualcosa che rivendica il diritto alla vita e ai “pascoli azzurri” del sogno. Accadere, dunque, significa trapassare attraverso le tendine trasparenti e fluide dell’atmosfera e raccogliere improvvisamente intorno a sé un’intensa pioggia e un denso ventilare di soffi e spirali di colori. Si forma, così, la maschera dell’essere e si dà spiegazione di un fondamentale concetto junghiano, con una di quelle misteriose coincidenze che adeguano spunti e conclusioni di specializzati e di non specializzati del lavoro mentale. Sostiene C. G. Jung intorno alla realtà della persona: “Essa è solo una maschera della psiche collettiva, una maschera che simula l’individualità, che fa credere agli altri che chi la porta sia individuale (ed egli stesso vi erede), mentre non si tratta che di una parte rappresentata in teatro, nella quale parla la psiche collettiva”. La psiche collettiva di De Martino è il colore, l’elemento originario da cui scaturisce e di cui si alimenta la maschera individuale. Questa, però, proprio come accade alle persone nel contesto esistenziale, non è neutrale e asessuato veicolo di tensioni e pulsioni. Essa soffre questo suo accadimento, questo essere transitata e manipolata da vivide accensioni, da barbagli, riflessi, esplosioni di colori, irrimediabili e irreversibili come un’aurora che diluvia e dilaga sui mari del sud. E di un aurorale turbamento, anzi di un dramma che appena si accenna, ma che sta li pronto ad esplodere e comunque non potrà essere evitato o delegato ad altri, parlano le figure umane ritratte ad olio sulle tele di De Martino. Sintomaticamente prevale fra esse la flessuosa e sensuosa figura dell’adolescente, colta nel suo segreto di turbamento e assorto stupore. Egualmente ci restituiscono, insieme con la loro sostanza e il loro spessore, la cifra di un dramma appena avviato, le giovani donne viste allo specchio, alla lettura, alla finestra, come sul punto di decodificare l’enigma dell’esistenza, ovvero quell’impasto fatto di lamento e di accettazione, di malinconia e di gioia di scaldarsi al riverbero di un fuoco acceso che brucia nell’umoroso grappolo della propria carne. Quest’interna accensione, che filtra tormentosamente dall’interno e si rispecchia sullo schermo dell’atmosfera circostante, instaurando con essa un rapporto dialettico di compromessa e compromettente coseità, si sprigiona non solo dalle persone, ma anche dalle carnose nature morte, di una mortale appetitosità, e dai paesaggi naturali, stillanti, quasi lacrimae rerum, solitudine e malinconia. E, forse, a monte dell’esperienza e dell’esercizio pittorici di De Martino si colloca quella malinconia attiva di cui parla Van Gogh. “Invece”, egli scrive di sé prima di partire per il Midì della Francia, “di lasciarmi prendere dalla disperazione, ho preso il partito della malinconia attiva, per quanto avevo potere di agire, o, in altri termini, ho preferito la malinconia che spera, che aspira e che cerca a quella che, triste e inattiva, dispera”. I nessi, però, della malinconia non formano lacci per la fantasia di De Martino, che, nella forte qualità cromatica e materica della sua pittura, cattura e segnala guizzi e riflessi di un fuoco antico che insieme divora la vita e la morte, palpiti e pulsioni di una forza oscura, che terrorizza e inebria. (Ugo Piscopo)
olio su tela 40x30 cm
Quando si passa da una marea di gente che dipinge più o meno bene (quanti artifici linguistici il critico deve usare per dire senza nulla dire dell’amico “pittore”, in modo che il proprio nome non rimanga compromesso anch’esso su quelle tele, mescolato ai colori!); quando si passa - dicevo - a un pittore, il cuore finalmente si allarga. Si apre, il cuore, al godimento puro, quello che da sempre lenisce il dolore e acquieta l’ansia, trasvalutando la realtà e rivalutandone l’essenza più intima e noumènica delle forme, delle parvenze coloristiche, dei rapporti accidentali. Così si pone l’opera di Alfredo De Martino, un continuo, dialogare con se stesso sulla realtà, un ininterrotto interrogarsi sul peso apparente e la consistenza reale delle cose. Questo porta ad opere di assoluta bellezza, come la “Natura morta con macinino”, in cui tutti i singoli elementi compositivi, la conchiglia, il canestro, la bottiglia, il macinino, i panneggi, vivono una propria relazione segreta con le leggi dei volumi e della gravità. Nel discorso globale del dipinto, la bottiglia, trasparente contenitore di vuoto, di non-materia, funge da tramite fra la corposità delle masse brune e la levità delle forme chiare. “Maria”, invece, le leggi della fisica le sfida. De Martino non dipinge qui realmente la sua modella preferita, una dolce creatura dal volto assolutamente raro, con tratti androgini affascinanti e insondabili, che hanno dato all’artista, in altro momento, occasione alla fattura della più bella testa classica - ora in una collezione privata - di ragazzo greco (o almeno rispondente a quell’ideale personalissimo di bellezza greca che ognuno di noi alleva in sé come la più radicata, nobile e immotivata cognizione della bellezza) che mi sia stato dato di vedere nella ritrattistica contemporanea; ma egli riesce a fissarne sulla tela l’impossibilità stessa di definizione, di comprensione, di possesso, pur rendendo l’idea migliore che si possa avere della femminilità. “Maria” è stupenda. Il senso di abbandono è tangibile ed è reso in termini di pura poesia; se ne subisce l’incanto però difficilmente si riesce ad analizzarlo; forse, come dicevo, è nell’incorporeità ectoplasmatica della figura - remota in regioni di pensiero tutte sue, che un abito colore del cielo, tutto luce ed aria, non delinea e non delimita - che pure ha di umano i più solleticanti sentori. Per verificare quanto un artista possa variamente rendere la realtà secondo la percezione dell’estro, basta raffrontare questa con l’altra sua “Maria”: stesso ambiente, stessa poltrona, stesso abito, eppure qui si è in una dimensione totalmente diversa. La donna è un individuo attivo, il suo corpo è in tensione, il suo sguardo, forse appena un po’ distaccato, è però attento, i suoi gesti, eleganti e contenuti, sono pur sempre un aggancio col mondo del sensibile, emblematizzato dal delicatissimo rosa di un cappello a larghe falde. Di pari raffinata grazia sono le due suonatrici di mandòla. Di angeli musicanti la nostra cultura pittorica offre esempi luminosissimi fra i quali, a buon diritto, vanno a inserirsi queste due figure, che alla classica compostezza del ritmo compositivo uniscono un moderno, inappuntabile, sapiente uso del colore. Il menestrello dal viso arguto ci dimostra che De Martino, come padroneggia il disegno, così spadroneggia col colore. Egli ne crea infinite gamme attraverso sfumature, sbavature, smagliature, presenze ed assenze (anche il non mettere colore è dipingere!), concentrazioni e diluizioni, grumi ed ombre, voragini e splendore. Si guardi “La lettura”: i colori confinano e sconfinano in un amalgama pastoso che fa del dipinto un frutto maturo succulento di umori sanguigni e sapidi. E nel “Vaso con rose” l’aura diventa decadente come in una poesia gozzaniana - “e non sono più triste ma sono stupito/ se guardo il giardino. Stupito di che? Delle cose/ I fiori mi paiono strani: vi sono pur sempre le rose/ vi sono pur sempre i gerani”- pur se la resa è di attualissima intuizione. Pittore evocativo nei paesaggi, mai scade il maestro nel genere “di maniera”, mai cede all’oleografico, al caratteristico; la partecipazione emotiva è sempre costretta nei limiti della sua misura intellettuale e colta. Anche laddove il tema è usuale in certa produzione partenopea, il piglio dell’artista ne dà interpretazioni di classe; basta considerare le varie versioni di “Barche al molo”: la resa del movimento lieve del mare è una bella prova di equilibrio; della sua immensa massa si intuisce la profondità e si subisce la potenza anche se non si increspa, non biancheggia, non si infrange, non rutila come nell’infinita “letteratura” pittorica in circolazione. E ugualmente rifuggono dal provincialismo opere quali “Via Caracciolo” e “Piazza Cavour” che assumono modi e valori di carattere europeo. Pittore evocativo e colto il De Martino, anche dal punto di vista filogenetico, per le influenze recepite e meditate dalle grandi scuole pittoriche e riflesse in tanti suoi paesaggi e ritratti e nature morte. Gli Olandesi coniarono, a meta del ‘600, il termine “Still-leven” (riverberato nell’inglese “Still life”) per quest’ultimo genere di pittura, termine che poi venne introdotto in Italia, allo scadere del diciottesimo secolo, nella infelice traduzione di “natura morta”. Che la prima versione sia quella più rispondente al vero, è chiaramente mostrato nella serie veramente cospicua di “nature morte” del nostro pittore. La composizione “con pesci e limoni” è tutta un turgore di vita; i due frutti profumati e squillanti e le foglie tese nella loro consistenza coriacea illuminano l’intero spazio. In “Frutti d’autunno” si ha una sinfonia di colori di bosco novembrino che emana l’intenso afrore della terra umida. Non una piccola pennellata è dissonante: è un vero e proprio esempio di virtuosismo coloristico che assurge, per i tramiti eternamente misteriosi dell’arte, ad arte. Altrove un drappo scarlatto, vivida colata di magma in movimento, si contrappone alla matericità biancheggiante di un vaso. E così dappertutto, fiori, canestri, strumenti musicali, vassoi, statuine, vivono una loro intensa stagione di forme e di colori, mutevoli con la luce e con l’animo del riguardante, per cui variabili ne risultano il godimento e l’analisi. Naturalmente. Scrive Umberto Eco (Postille a “Il nome della rosa”) che “un romanzo è una macchina per generare interpretazioni” e che “nulla consola maggiormente un autore di un romanzo che lo scoprire letture a cui egli non pensava e che i lettori gli suggeriscono”. (Antonio Speranza)
pastello su carta 50x35 cm
LA LEBENSWELT DI ALFREDO DE MARTINO. Lebenswelt è il termine usato dai tedeschi per indicare il mondo della vita, il mondo della quotidianità, il mondo in cui gli oggetti e gli altri vanno incontro al soggetto, si danno a lui nella loro più spontanea immediatezza. Ed il soggetto li coglie per come essi si offrono, e li inscrive nei suoi progetti senza scomporli analiticamente, senza caricarli di alcun senso aggiuntivo, senza tematizzarli intellettualisticamente. Mondo e soggetto si integrano in un progetto unitario fondamentale, vivono quasi in un’irriflessa simbiosi contro cui cozza e naufraga ogni tentativo di definire le sfere di appartenenza per delimitare e distinguere ciò che propriamente pertiene all’oggetto da ciò che, invece, dovrebbe essere considerato di stretta pertinenza del soggetto. Se è vero che il primo, originario impatto dell’uomo con il mondo è così come lo esprime la cultura fenomenologica tedesca, cade completamente il pregiudizio platonico contro l’arte realistica e la conseguente considerazione di essa come arte mimetica, come arte, cioè, puramente imitativa della realtà. Già quella che ad una prima e superficiale considerazione può sembrare una semplice riproduzione del reale, è frutto di un operazione spirituale originaria con cui il soggetto fornisce un senso ed un contesto significativo alla “cosa”. Il presunto dato oggettivo, infatti, è immediatamente ricondotto all’interno del circuito della ipseità, all’interno della sfera dell’emozione-comprensione soggettiva e ne accoglie il senso primigenio. L’arte realistica, allora, più che pura e semplice operazione di registrazione, si qualifica come uno dei modi con cui l’uomo si rapporta al mondo ed agli altri uomini. Ed è proprio per questo, a parità con le altre forme di pittura, arte creativa. E va giudicata non per il semplice contenuto, per i soggetti che propone, ma per il risultato estetico complessivo scaturente dal complesso rapporto di forma e contenuto. Proprio su quest’ultimo terreno, l’arte di De Martino sollecita una riflessione ed un giudizio. De Martino si rivolge alla altrui sensibilità estetica con una grazia, una levità e soprattutto con una padronanza di mestiere che ben poco ha da invidiare ai celebrati maestri dell’arte classica napoletana. Le nature morte, le marine, gli scorci paesaggistici sono trattati con gusto personale, sono caricati di un pathos immediato ed ammantati di un’aura di serena e diffusa malinconia. La pennellata forte, incisiva di De Martino è capace di creare volumi ed atmosfere di sentita poeticità senza appesantire la tela di inutile ed ingombrante materia. De Martino appartiene ancora a quella specie di pittori, in via di rarefazione, che sa disegnare con il colore e che non ha bisogno di ricorrere ad un presunto, non sentito astrattismo per nascondere la mancanza di tecnica, la carenza di mestiere. L’arte di De Martino si segnala, però, oltre che per le notevoli doti tecniche che la sottendono, anche per la capacità di penetrare il reale e di esprimerne l’essenziale. Una convincente testimonianza di ciò è fornita dai bei ritratti di donne e di fanciulle che occupano una parte non secondaria nella produzione pittorica di De Martino. L’artista pur inquadrando il soggetto in una scena ampia e ricca di particolari, riesce a dare al viso e allo sguardo dei suoi personaggi una intensa carica espressiva, a veicolare attraverso il volto l’umana tensione emotiva, la vitalità spirituale o il senso di smarrimento o di abbandono che li pervade. Pittore tradizionale, certamente lontano dalle avventure di certa arte moderna, ma artista dotato di una naturale vena poetica e di una bravura tecnica non comuni. (Aniello Montano)
olio su tavola 28x38 cm
Parlare della pittura di De Martino sembra superfluo, in quanto essa coinvolge anche l’osservatore poco attento; l’immediatezza, la spontaneità, la forza della pennellata creano atmosfere vivibili, penetrabili. Il tratto rapido, deciso, i rossi violenti, accesi, quasi un turbinio di emozioni, gli azzurri delicati ed eterei si estrinsecano in eleganti momenti pittorici. Il suo estro è continuamente sollecitato a creare e distruggere sulla tela, alla continua ricerca dell’attimo pittorico significante che continuamente sfugge. Il girovagare senza posa, cavalletto in spalla, alla ricerca del luogo, della suggestione, dell’emozione, della sintesi che consenta al particolare poi prescelto di essere motivo di interpretazione della realtà dalla quale è circoscritto, crea, di volta in volta, struggimento ed esaltazione, prostrazione ed euforia. De Martino è pittore eclettico e versatile capace di fissare sulla tela indefinite e contrapposte emozioni, di passare dalla serenità e dalla aura di quiete di un paesaggio alla drammaticità ed alla forte suggestività di una natura morta, mantenendosi comunque spontaneo ed incisivo. De Martino è pittore che non è in cerca di facili consensi, le figure con le quali si cimenta sono trattate in modo essenziale,senza inutili artifici pittorici, tese solo al raggiungimento del principio vitale che domina l’intiero. De Martino è pittore che ......; De Martino è pittore! (Sergio Riunno)
olio su tavola 35x25 cm
Il pronunciamento istintuale del colore usato con l’amore che si accredita alla sorgente primaria della pittura, parla assai chiaramente nelle tele di De Martino e gli assegna la veste nobilissima di epigono della scuola di Posillipo. Il De Martino ama il realizzo della pittura per la pittura, inserendosi forse inconsciamente, cioè per pura caratterizzazione istintuale, nella scia di Morelli prima e di Fattori dopo. Per quanto attiene invece al suo naturale talento e cioè la figura, possiamo dire che alla immediatezza fisionomica propria della Scuola napoletana, il De Martino assume la dialettica cromatica, confusamente felice, che ci richiama alla mente Van Gogh. (La Sicilia - 26 gennaio 1975)
pastello su carta 50x35 cm
Alfredo De Martino, uno degli ultimi validi esponenti della scuola pittorica napoletana del ‘900, ha reso un gran servigio all’arte figurativa con la sua donna eterea tipica del suo tratto. Dai suoi pastelli vengon fuori figure al limite dell’onirico apparentemente indefinibili ma nitide, vive e fortemente espressive. Le sue Madonne non hanno tempo; dinanzi alle sue opere la mente e lo spirito viaggiano attraverso un percorso spazio – temporale che va dal classico Raffaello al moderno Annigoni. La sua è un’arte contemplativa che spinge all’interiorità. La bellezza del suo tratto si accompagna all’estasi dello spirito di chi osserva, s’addentra nell’anima infondendo serenità. (Raffaele Visone)