Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
La tradizione della cornice italiana incontra lo stile dello storico marchio Pierre Cardin ...

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La vita è come uno specchio: ti sorride se la guardi sorridendo!

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La Collezione Pierre Cardin by C.C.C. DE CONCILIO è sulla rivista CASA VIVA

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Ecco alcuni scatti della nuova collezione firmata Pierre Cardin:

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“Ho chiesto a me stesso: perché solo i ricchi possono accedere alla moda esclusiva? Perché non possono farlo anche l'uomo o la donna della strada? Io potevo cambiare questa regola. E l’ho fatto” [Pierre Cardin]
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Di Admin (del 15/10/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2674 volte)
{autore=nespolo ugo}


L'opera è firmata sul lato sinistro: "Nespolo". Al verso riporta titolo, tecnica, misura e timbro dell'artista. E' accompagnata da certificazione di autenticità su foto con firma del maestro e con numero di archivio Art'è.

Per Ugo Nespolo, multiforme e attivissimo artista torinese continua è l'attenzione che suscita in Italia fra gli appassionati del contemporaneo. Esploratore dell'arte in tutte le sue possibili applicazioni, dalle più colte (il periodo concettuale) alle più popolari (la televisione), dalla grafica pubblicitaria al cinema sperimentale, dalla scenografia teatrale alla produzione industriale, Nespolo si è sempre sforzato di considerare il campo estetico in un rapporto di stretta e imprescindibile integrazione con la vita moderna. In questo senso è stato considerato un erede della mentalità che nel corso del Novecento ha generato fenomeni come il Bauhaus, anche se lo spirito creativo di Nespolo è certamente ben lontano dalla progettualità razionalista di Gropius e allievi; risulta invece giusto l'accostamento di Nespolo e Fortunato Depero, anch'egli convinto assertore dell'arte come "applicazione", soprattutto per le evidenti reminiscenze neo-futuriste che la figurazione di Nespolo ha esibito generosamente. (Vittorio Sgarbi)
 
Di Admin (del 28/09/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2265 volte)
{autore=schetter francesco} Francesco Schetter (Napoli, 1955)

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pastello 50x70 cm

Francesco Schetter è nato a Napoli nel 1955; la pittura diventa la sua attività sin da giovanissimo e lo porta a frequentare l’Istituto d’Arte Filippo Palizzi e ad entrare in contatto con gli ambienti artistici partenopei del periodo, traendo forza e vivacità ma tenendosi sempre nella dirittura di una propria impronta rappresentativa. La sua prima mostra collettiva risale al 1969 a Napoli – Targa d’oro Mergellina – mentre, la sua prima personale nel 1972 è al Salone Ford di Portici. Nel 1986 si trasferisce a Trinitapoli in Puglia. L’anno dopo, a Barletta, riceve il primo premio “Giuseppe De Nittis” per le opere di piccolo formato.


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pastello 50x70 cm

Dopo gli anni iniziali improntati da una matrice espressionista – astratta, oggi la sua ricerca lo ha portato a considerare e studiare i grandi maestri del passato e ha spinto la sua arte verso la figurazione e verso una soggettistica più tradizionale. Continua a frequentare i maggiori agenti e le migliori gallerie d’arte della sua città natale che hanno contribuito ad esportare le sue opere in collezioni private estere negli Stati Uniti d’America, in Francia, in Spagna e nel nuovo mercato russo.


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pastello 50x70 cm

 “Il poderoso incombere, nella più recente produzione dello Schetter, di figure umane, atteggiate in posa di naturalezza estrema, parrebbe lasciarci indifferenti se non cogliessimo, dopo il primo distratto sguardo, un sentimento di profonda e sofferta drammaticità. Quel tanto che basta per fuorviare ogni sospetto di un virtuosismo artistico fine a se stesso. Alla base del suo operare, comunque, un limpido segno grafico e pezzature di poche tonalità dominanti di rossi affogati, turchini profondi, bianchi luminosi, verdi intensi e perfino favolosi viola. Il tutto per forme esaltate da una sinuosa e irrequieta vitalità!...


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pastello 50x70 cm

[…] Quella per la rosa è una sua passione viscerale, un interesse senza limiti per un fiore notoriamente stupendo. Questo, a prima vista, parrebbe giustificare l’exploit artistico davvero sorprendente dell’Artista […].

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pastello 50x70 cm

Un roseto che incanta con le sue mille tessere coloristicamente interessanti. Ecco, forse è questo che alla fine giustifica la ricerca e l’amore di un artista come Franco Schetter per la rosa. Mille sono infatti le sue varietà botaniche e mille le maniere a disposizione dell’Artista per rimirarla e fermarla con pennellate rapide e mai ripetitive: mille ancora i profumi che paiono inebriarci e sempre mille, per illusione, gli scenari che paiono celarsi ed aprirsi a un tempo dietro al roseto…” (Matteo de Musso)


schetter-maternità

pastello 50x70 cm
 
Di Admin (del 26/09/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 3415 volte)
{autore=scoppa tobia} Tobia Scoppa (Napoli, 1945)

tobia-scoppa-20x40

olio su tavola 20x40 cm

Le opere più significative di Tobia Scoppa sono quelle che rendono con immediatezza il vedutismo naturalistico, siglandolo a larghe e guizzanti pennellate e facendo vibrare i colori con aperta luminosità. Si nota una lunga dimestichezza con il linguaggio cromatico che, nei temi trattati, diventa raccordo stimolante fino a sollecitare l'attenzione. I paesaggi di questo artista hanno un'intonazione esistenziale che indica l'amore per la natura ed un innato romanticismo ecologico.


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olio su tela 50x70 cm

Scoppa è sollecito a recepire gli effetti più appassionati del brano naturale e, quando ne osserviamo la resa, ci rendiamo conto di come costantemente egli aggiorni la ricerca ed i mezzi espressivi. Il suo è un lavoro assiduo, impegnato, che è partito da una forte tensione per diventare negli anni mestiere e ispirazione. Perciò le sue opere non lasciano indifferenti, specie quelle in cui la luce si amplifica in liquidi riflessi e dove si consolidano spazi umani, familiari alla memoria o alla cronaca.


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olio su tavola 30x40 cm

Sono felicemente interpretati i suoi moli, i mercatini gli scorci di costiera, i tagli di rocce nel panorama, sicché tutto l'insieme si amalgama in un cromatismo che individua i volumi e nel contempo quel vero che innamora. D'altra parte questo genere pittorico che vanta nobili e fertili tradizioni, quando trova interpreti coerenti, consente fruitori di meditare sulla viva scena del quotidiano alle ore che fuggono, e sulla vasta gamma di sensazioni e sentimenti che germinano dal reale.


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olio su tavola 40x30 cm

Scoppa respira con felice intuito en plein air rendendo, tra impressione ed espressione, barche ed onde, campagne e case, preferendo il sole sugli spazi smaglianti, sugli oggetti bene individuati. Anche i suoi interni sono accattivanti, semplici, umani, schietti nei loro umori che acquistano significato proprio nel farsi di questa pittura in progresso verso mete sempre più armoniche di tecniche e contenuti estetici. (Angelo Calabrese, 1984)


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olio su tela 50x70 cm
 
Di Admin (del 22/09/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2344 volte)

Arnaldo De Lisio, nato a Castelbottaccio in provincia di Campobasso nel 1869, dove trascorre l’infanzia e l’adolescenza, si trasferisce a Napoli nel 1883. Mostrando una forte inclinazione per il disegno si forma alla scuola pittorica della tradizione napoletana, con gli illustri maestri quali Domenico Morelli, Ignazio Perricci e soprattutto Gioacchino Toma, dai quali apprende le tecniche più avanzate e il segreto dei migliori cromatismi. Determinante per la sua formazione artistica è anche la conoscenza del pittore Eduardo Dalbono. Nel 1899 si reca a Parigi, dove rimane quattro anni; in questa città è con gli amici Pietro Scoppetta, Raffaele Ragione e Antonio Mancini. L'esperienza parigina da nuova linfa alla sua produzione e gli permette di sganciarsi dalle influenze eclettico-morelliane presenti nelle opere giovanili: qui viene a conoscere ed apprezzare gli impressionisti francesi ma, anche intuendo la funzione rivoluzionaria di questa pittura, non ne subisce completamente l'influenza e sa piuttosto mediare la nuova corrente alla vecchia tradizione ottocentesca napoletana. Tornato a Napoli, De Lisio si sposa con Alfonsina Di Mauro dalla quale ha numerosi figli. L'artista ormai affermato, nel 1923 si trasferisce a Roma, ove rimane sino al 1925, qui esegue tra gli altri, i ritratti di Francesca Bertini e di Matilde Serao, e viene consacrato pittore di successo dalla committenza romana che fa a gara per farsi ritrarre. Artista versatile spazia dalla tecnica del pastello all'affresco, all'acquerello e all’olio, eseguendo anche piccole tele con scene di genere, ritratti, nature morte, paesaggi, scene di caffè, vedute di Napoli e Parigi con una spiccata nota di stile personale. Esegue anche parecchie decorazioni in edifici pubblici e privati e fa l’illustratore di riviste e spartiti musicali. Dal 1888 al 1911, espone alle mostre della promotrice Salvator Rosa di Napoli e partecipa ad eventi e a esposizioni nazionali. Arnaldo De Lisio, pur viaggiando spesso e ritornando più volte a Castelbottaccio, vive per lo più a Napoli, lavora guardando il mare di Mergellina che dipinge mirabilmente in alcuni tra i suoi quadri più significativi. Molte in collezioni private, le sue opere sono esposte nella Galleria d’Arte Moderna a Roma, nella Pinacoteca di Palazzo Reale a Napoli, al Museo di Bombay. Muore di notte, nel 1949, tra i suoi pennelli e i suoi colori, quasi ottantenne, lasciando molte opere incompiute ed un ultimo quadro in cui ritrae l’adorata nipotina.
 
Di Admin (del 31/08/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 6456 volte)
{autore=de martino alfredo} Alfredo De Martino (Napoli, 1928)

Esordisce nel mondo della pittura negli anni Cinquanta, anni in cui tutto il mondo culturale era in pieno fermento, teso a scrollarsi di dosso un passato necessariamente statico. De Martino viene in contatto con i pittori di quegli anni: Viti, Crisconio, Villani, Brancaccio, Bresciani, ecc. e con essi discute, dipinge ed espone. De Martino è uno dei più assidui frequentatori della galleria Forti, che rappresenta un vero e proprio tempio della pittura per quegli anni, partecipa a diverse mostre vincendo nel 1945 il premio di disegno alla mostra giovanile “Premio Forti”. Negli anni che seguono De Martino partecipa a numerose collettive e personali e le sue opere si trovano in collezioni private in Italia e all’estero. Un suo dipinto è conservato nella chiesa di S. Maria degli Angeli in Napoli.


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pastello su carta 50x35 cm


Scorie, non altro che scorie, gli strimpellatori, consumatori di materie coloranti di oggi. Di tale armata di perditempo non fa parte Alfredo De Martino, che è bene inquadrato nella pittura napoletana, che è e sarà gloria dell’arte italiana. Al pittore De Martino il mio riconoscimento. (Antonio Asturi)


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olio su cartone 20x28 cm


De Martino non ama le assenze. Egli non si è mai arruolato tra i cacciatori allo spasimo delle utopie. Né, tanto meno, si è irreggimentato tra i sottoscrittori e i fiancheggiatori di for­mule. Questi atteggiamenti ludico-estetici li ha lasciati agli altri. Egli semplicemente è un pittore, o meglio uno che si esprime attraverso il colore, intensamente, luminosamente, matericamente mediterraneo. Ha alle spalle l’Ottocento napoletano e particolarmente Portici. Ha avuto compagni di via occasionali e significativi, tra cui Crisconio. Fondamentalmente, però, è rimasto ed è un autodidatta. Che poi è una scelta fatta da ogni artista, che rivendichi autonomia e auten­ticità al suo lavoro. Questo, sempre. Ma oggi la scelta dell’autodidatta acquista più senso che mai, in rapporto all’imperante e stritolante unidimensionalità di atteggiamenti e di gu­sto, rigidamente controllati dall’occhio onnipresente dell’orwelliano Grande Fratello. Oggi, infatti, i prodotti come le idee scorrono preconfezionati su un nastro d’acciaio da catena di montaggio, programmata con tempi di efficienza e negli interessi della Ditta o del Sistema. Costituiti non più su cifre di approssimazione artigianale, ma su automatismi di Megatecnica o Megamacchina, come dice L. Mumford. Sotto la luce perentoria e unica dell’occhio solare della Megamacchina, ogni idea, anzi ogni gesto che presuma di regolarsi e orientarsi per pro­prio conto e di contrapporsi alle lucide, precise, metalliche, cellophanate serie degli oggetti industriali, più che una sfida, risulta uno sgarro di mancata omertà e quasi un sintomo di follia. Sembra che contro il gigante armato osi alzare la faccia impertinentemente e assur­damente un piccolo, indifeso, sprovveduto, minuscolo essere, deciso ad offrirsi come esempio d’insubordinazione anche per gli altri, che nel frattempo fanno parte delle schiere sconfina­te degli schiavi. De Martino, però, a questa stessa operazione non sottende uno zoccolo di enfasi, per ergervi sopra una statua tribunizia per l’agorà o per il foro. Nè vi immette il veleno dei “ragionieri” della pittura dei nostri giorni, dalle meningi logorate per le lunghe e tormentose vigilie pas­sate a meditare su lacerti di sociologia e di ermeneutica, di semiologia e di psicoanalisi. De Martino non è per le esibizioni, nè per le citazioni o le contaminazioni. La sua materia è tutta nel colore, che accende la vita, forma i corpi, racconta i fatti, stabilisce i rapporti nel tempo e nello spazio. Egli sa che inizialmente è stata la luce ad immergersi nel caos, a spro­fondare negli abissi e ad aprire le distanze o ad accoppiare le vicinanze. Ma subito, insieme con la luce, si è precipitato nel mondo il colore, che ha dato respiro ed energia all’universo, identità e fisionomia ai singoli aspetti. È il colore, infatti, per De Martino, che snida le pre­senze e le obbliga ad uscire allo scoperto e a dichiararsi inchiodandole definitivamente ai loro segreti magnetici e alle loro capacità espressive. Queste presenze non provengono dal nulla nè vanno verso il nulla. Il loro destino è dato nel momento in cui nella fisicità dello spazio si articola, come accade allo spettro dell’arco­baleno, una stretta connessione di campi cromatici. Nel coagulo e nello scatto delle interdi­pendenze dei colori si ferma per sempre e si raggruma un’apparizione, qualcosa che rivendica il diritto alla vita e ai “pascoli azzurri” del sogno. Accadere, dunque, significa trapassare attraverso le tendine trasparenti e fluide dell’atmosfe­ra e raccogliere improvvisamente intorno a sé un’intensa pioggia e un denso ventilare di soffi e spirali di colori. Si forma, così, la maschera dell’essere e si dà spiegazione di un fondamen­tale concetto junghiano, con una di quelle misteriose coincidenze che adeguano spunti e con­clusioni di specializzati e di non specializzati del lavoro mentale. Sostiene C. G. Jung intorno alla realtà della persona: “Essa è solo una maschera della psiche collettiva, una maschera che simula l’individualità, che fa credere agli altri che chi la porta sia individuale (ed egli stesso vi erede), mentre non si tratta che di una parte rappresentata in teatro, nella quale parla la psiche collettiva”. La psiche collettiva di De Martino è il colore, l’elemento originario da cui scaturisce e di cui si alimenta la maschera individuale. Questa, però, proprio come accade alle persone nel contesto esistenziale, non è neutrale e asessuato veicolo di tensioni e pulsioni. Essa soffre questo suo accadimento, questo essere transitata e manipolata da vivide accensioni, da barba­gli, riflessi, esplosioni di colori, irrimediabili e irreversibili come un’aurora che diluvia e dilaga sui mari del sud. E di un aurorale turbamento, anzi di un dramma che appena si accenna, ma che sta li pronto ad esplodere e comunque non potrà essere evitato o delegato ad altri, parlano le figure umane ritratte ad olio sulle tele di De Martino. Sintomaticamente prevale fra esse la flessuosa e sensuosa figura dell’adolescente, colta nel suo segreto di turbamento e assorto stupore. Egual­mente ci restituiscono, insieme con la loro sostanza e il loro spessore, la cifra di un dramma appena avviato, le giovani donne viste allo specchio, alla lettura, alla finestra, come sul punto di decodificare l’enigma dell’esistenza, ovvero quell’impasto fatto di lamento e di accettazione, di malinconia e di gioia di scaldarsi al riverbero di un fuoco acceso che brucia nell’umoroso grappolo della propria carne. Quest’interna accensione, che filtra tormentosamente dall’interno e si rispecchia sullo scher­mo dell’atmosfera circostante, instaurando con essa un rapporto dialettico di compromessa e compromettente coseità, si sprigiona non solo dalle persone, ma anche dalle carnose nature morte, di una mortale appetitosità, e dai paesaggi naturali, stillanti, quasi lacrimae rerum, so­litudine e malinconia. E, forse, a monte dell’esperienza e dell’esercizio pittorici di De Martino si colloca quella malinconia attiva di cui parla Van Gogh. “Invece”, egli scrive di sé prima di partire per il Mi­dì della Francia, “di lasciarmi prendere dalla disperazione, ho preso il partito della malinco­nia attiva, per quanto avevo potere di agire, o, in altri termini, ho preferito la malinconia che spera, che aspira e che cerca a quella che, triste e inattiva, dispera”. I nessi, però, della malinconia non formano lacci per la fantasia di De Martino, che, nella forte qualità cromatica e materica della sua pittura, cattura e segnala guizzi e riflessi di un fuoco antico che insieme divora la vita e la morte, palpiti e pulsioni di una forza oscura, che terrorizza e inebria.   (Ugo Piscopo)


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olio su tela 40x30 cm


Quando si passa da una marea di gente che dipinge più o meno bene (quanti artifici lin­guistici il critico deve usare per dire senza nulla dire dell’amico “pittore”, in modo che il pro­prio nome non rimanga compromesso anch’esso su quelle tele, mescolato ai colori!); quan­do si passa - dicevo - a un pittore, il cuore finalmente si allarga. Si apre, il cuore, al godimento puro, quello che da sempre lenisce il dolore e acquieta l’an­sia, trasvalutando la realtà e rivalutandone l’essenza più intima e noumènica delle forme, del­le parvenze coloristiche, dei rapporti accidentali. Così si pone l’opera di Alfredo De Martino, un continuo, dialogare con se stesso sulla real­tà, un ininterrotto interrogarsi sul peso apparente e la consistenza reale delle cose. Questo porta ad opere di assoluta bellezza, come la “Natura morta con macinino”, in cui tutti i singoli elementi compositivi, la conchiglia, il canestro, la bottiglia, il macinino, i pan­neggi, vivono una propria relazione segreta con le leggi dei volumi e della gravità. Nel di­scorso globale del dipinto, la bottiglia, trasparente contenitore di vuoto, di non-materia, fun­ge da tramite fra la corposità delle masse brune e la levità delle forme chiare. “Maria”, invece, le leggi della fisica le sfida. De Martino non dipinge qui realmente la sua modella preferita, una dolce creatura dal volto assolutamente raro, con tratti androgini affa­scinanti e insondabili, che hanno dato all’artista, in altro momento, occasione alla fattura del­la più bella testa classica - ora in una collezione privata - di ragazzo greco (o almeno rispon­dente a quell’ideale personalissimo di bellezza greca che ognuno di noi alleva in sé come la più radicata, nobile e immotivata cognizione della bellezza) che mi sia stato dato di vedere nella ritrattistica contemporanea; ma egli riesce a fissarne sulla tela l’impossibilità stessa di definizione, di comprensione, di possesso, pur rendendo l’idea migliore che si possa avere della femminilità. “Maria” è stupenda. Il senso di abbandono è tangibile ed è reso in termini di pura poesia; se ne subisce l’incanto però difficilmente si riesce ad analizzarlo; forse, come dicevo, è nell’incorporeità ectoplasmatica della figura - remota in regioni di pensiero tutte sue, che un a­bito colore del cielo, tutto luce ed aria, non delinea e non delimita - che pure ha di umano i più solleticanti sentori. Per verificare quanto un artista possa variamente rendere la realtà secondo la percezione dell’estro, basta raffrontare questa con l’altra sua “Maria”: stesso ambiente, stessa poltrona, stesso abito, eppure qui si è in una dimensione totalmente diversa. La donna è un individuo attivo, il suo corpo è in tensione, il suo sguardo, forse appena un po’ distaccato, è però attento, i suoi gesti, eleganti e contenuti, sono pur sempre un aggan­cio col mondo del sensibile, emblematizzato dal delicatissimo rosa di un cappello a larghe falde. Di pari raffinata grazia sono le due suonatrici di mandòla. Di angeli musicanti la nostra cultura pittorica offre esempi luminosissimi fra i quali, a buon diritto, vanno a inserirsi que­ste due figure, che alla classica compostezza del ritmo compositivo uniscono un moderno, inappuntabile, sapiente uso del colore. Il menestrello dal viso arguto ci dimostra che De Martino, come padroneggia il disegno, così spadroneggia col colore. Egli ne crea infinite gamme attraverso sfumature, sbavature, smagliature, presenze ed assenze (anche il non mettere colore è dipingere!), concentrazioni e diluizioni, grumi ed ombre, voragini e splendore. Si guardi “La lettura”: i colori confinano e sconfinano in un amalgama pastoso che fa del dipinto un frutto maturo succulento di u­mori sanguigni e sapidi. E nel “Vaso con rose” l’aura diventa decadente come in una poesia gozzaniana - “e non sono più triste ma sono stupito/ se guardo il giardino. Stupito di che? Delle cose/ I fiori mi paiono strani: vi sono pur sempre le rose/ vi sono pur sempre i gerani”- ­pur se la resa è di attualissima intuizione. Pittore evocativo nei paesaggi, mai scade il maestro nel genere “di maniera”, mai cede all’oleografico, al caratteristico; la partecipazione emotiva è sempre costretta nei limiti della sua misura intellettuale e colta. Anche laddove il tema è usuale in certa produzione parte­nopea, il piglio dell’artista ne dà interpretazioni di classe; basta considerare le varie versioni di “Barche al molo”: la resa del movimento lieve del mare è una bella prova di equilibrio; della sua immensa massa si intuisce la profondità e si subisce la potenza anche se non si increspa, non biancheggia, non si infrange, non rutila come nell’infinita “letteratura” pittorica in circolazione. E ugualmente rifuggono dal provincialismo opere quali “Via Caracciolo” e “Piazza Cavour” che assumono modi e valori di carattere europeo. Pittore evocativo e colto il De Martino, anche dal punto di vista filogenetico, per le influ­enze recepite e meditate dalle grandi scuole pittoriche e riflesse in tanti suoi paesaggi e ri­tratti e nature morte. Gli Olandesi coniarono, a meta del ‘600, il termine “Still-leven” (riverberato nell’inglese “Still life”) per quest’ultimo genere di pittura, termine che poi venne introdotto in Italia, al­lo scadere del diciottesimo secolo, nella infelice traduzione di “natura morta”. Che la prima versione sia quella più rispondente al vero, è chiaramente mostrato nella serie veramente co­spicua di “nature morte” del nostro pittore. La composizione “con pesci e limoni” è tutta un turgore di vita; i due frutti profumati e squillanti e le foglie tese nella loro consistenza coriacea illuminano l’intero spazio. In “Frut­ti d’autunno” si ha una sinfonia di colori di bosco novembrino che emana l’intenso afrore della terra umida. Non una piccola pennellata è dissonante: è un vero e proprio esempio di virtuosismo coloristico che assurge, per i tramiti eternamente misteriosi dell’arte, ad arte. Altrove un drappo scarlatto, vivida colata di magma in movimento, si contrappone alla ma­tericità biancheggiante di un vaso. E così dappertutto, fiori, canestri, strumenti musicali, vas­soi, statuine, vivono una loro intensa stagione di forme e di colori, mutevoli con la luce e con l’animo del riguardante, per cui variabili ne risultano il godimento e l’analisi. Naturalmen­te. Scrive Umberto Eco (Postille a “Il nome della rosa”) che “un romanzo è una macchina per generare interpretazioni” e che “nulla consola maggiormente un autore di un romanzo che lo scoprire letture a cui egli non pensava e che i lettori gli suggeriscono”. (Antonio Speranza)


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pastello su carta 50x35 cm


LA LEBENSWELT DI ALFREDO DE MARTINO.   Lebenswelt è il termine usato dai tedeschi per indicare il mondo della vita, il mondo della quotidianità, il mondo in cui gli oggetti e gli altri vanno incontro al soggetto, si danno a lui nella loro più spontanea immediatezza. Ed il soggetto li coglie per come essi si offrono, e li inscrive nei suoi progetti senza scomporli analiticamente, senza caricarli di alcun senso aggiuntivo, senza tematiz­zarli intellettualisticamente. Mondo e soggetto si integrano in un progetto unitario fondamentale, vivono quasi in un’irri­flessa simbiosi contro cui cozza e naufraga ogni tentativo di definire le sfere di appartenenza per delimitare e distinguere ciò che propriamente pertiene all’oggetto da ciò che, invece, dovrebbe essere considerato di stretta pertinenza del soggetto. Se è vero che il primo, originario impatto dell’uomo con il mondo è così come lo esprime la cultura fenomenologica tedesca, cade completamente il pregiudizio platonico contro l’arte rea­listica e la conseguente considerazione di essa come arte mimetica, come arte, cioè, puramente imitativa della realtà. Già quella che ad una prima e superficiale considerazione può sembrare una semplice riproduzione del reale, è frutto di un operazione spirituale originaria con cui il soggetto fornisce un sen­so ed un contesto significativo alla “cosa”. Il presunto dato oggettivo, infatti, è immediatamente ricondotto all’interno del circuito della ipseità, all’interno della sfera dell’emozione-comprensio­ne soggettiva e ne accoglie il senso primigenio. L’arte realistica, allora, più che pura e semplice operazione di registrazione, si qualifica come uno dei modi con cui l’uomo si rapporta al mondo ed agli altri uomini. Ed è proprio per questo, a parità con le altre forme di pittura, arte creativa. E va giudicata non per il semplice contenuto, per i soggetti che propone, ma per il risultato estetico complessivo scaturente dal complesso rapporto di forma e contenuto. Proprio su quest’ultimo terreno, l’arte di De Martino sollecita una riflessione ed un giudizio. De Martino si rivolge alla altrui sensibilità estetica con una grazia, una levità e soprattutto con una padronanza di mestiere che ben poco ha da invidiare ai celebrati maestri dell’arte classica napoletanaLe nature morte, le marine, gli scorci paesaggistici sono trattati con gusto personale, sono ca­ricati di un pathos immediato ed ammantati di un’aura di serena e diffusa malinconia. La pen­nellata forte, incisiva di De Martino è capace di creare volumi ed atmosfere di sentita poeticità senza appesantire la tela di inutile ed ingombrante materia. De Martino appartiene ancora a quel­la specie di pittori, in via di rarefazione, che sa disegnare con il colore e che non ha bisogno di ricorrere ad un presunto, non sentito astrattismo per nascondere la mancanza di tecnica, la ca­renza di mestiere. L’arte di De Martino si segnala, però, oltre che per le notevoli doti tecniche che la sottendono, anche per la capacità di penetrare il reale e di esprimerne l’essenziale. Una convincente testimonianza di ciò è fornita dai bei ritratti di donne e di fanciulle che occupano una parte non secon­daria nella produzione pittorica di De Martino. L’artista pur inquadrando il soggetto in una scena ampia e ricca di particolari, riesce a dare al viso e allo sguardo dei suoi personaggi una intensa carica espressiva, a veicolare attraverso il vol­to l’umana tensione emotiva, la vitalità spirituale o il senso di smarrimento o di abbandono che li pervade. Pittore tradizionale, certamente lontano dalle avventure di certa arte moderna, ma artista dotato di una naturale vena poetica e di una bravura tecnica non comuni. (Aniello Montano)


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olio su tavola 28x38 cm

Parlare della pittura di De Martino sembra superfluo, in quanto essa coinvolge anche l’osservatore poco attento; l’immediatezza, la spontaneità, la forza della pennellata creano atmosfere vivibili, penetrabili. Il tratto rapido, deciso, i rossi violenti, accesi, quasi un turbinio di emozioni, gli azzurri delicati ed eterei si estrinsecano in eleganti momenti pittorici. Il suo estro è continuamente sol­lecitato a creare e distruggere sulla tela, alla continua ricerca dell’attimo pittorico significante che continuamente sfugge. Il girovagare senza posa, cavalletto in spalla, alla ricerca del luogo, della suggestione, dell’emozione, della sintesi che consenta al particolare poi prescelto di essere motivo di interpretazione della realtà dalla quale è circoscritto, crea, di volta in volta, struggimento ed esaltazione, prostrazione ed euforia. De Martino è pittore eclettico e versatile capace di fissare sulla tela indefinite e contrapposte emozioni, di passare dalla serenità e dalla aura di quiete di un paesaggio alla drammaticità ed alla forte suggestività di una natura morta, mantenendosi comunque spontaneo ed incisivo. De Martino è pittore che non è in cerca di facili consensi, le figure con le quali si cimenta sono trattate in modo essenziale,senza inutili artifici pittorici, tese solo al raggiungimento del principio vitale che domina l’intiero. De Martino è pittore che ......; De Martino è pittore! (Sergio Riunno)


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olio su tavola 35x25 cm


  Il pronunciamento istintuale del colore usato con l’amore che si accredita alla sorgente primaria della pittura, parla assai chiaramente nelle tele di De Martino e gli assegna la veste nobilissima di epigono della scuola di Posillipo. Il De Martino ama il realizzo della pittura per la pittura, inserendosi forse inconsciamente, cioè per pura caratterizzazione istintuale, nella scia di Morelli prima e di Fattori dopo. Per quanto attiene invece al suo naturale talento e cioè la figura, possiamo dire che alla immediatezza fisionomica propria della Scuola napoletana, il De Martino assume la dialettica cromatica, confusamente felice, che ci richiama alla mente Van Gogh. (La Sicilia - 26 gennaio 1975)


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pastello su carta 50x35 cm


  Alfredo De Martino, uno degli ultimi validi esponenti della scuola pittorica napoletana del ‘900, ha reso un gran servigio all’arte figurativa con la sua donna eterea tipica del suo tratto. Dai suoi pastelli vengon fuori figure al limite dell’onirico apparentemente indefinibili ma nitide, vive e fortemente espressive. Le sue Madonne non hanno tempo; dinanzi alle sue opere la mente e lo spirito viaggiano attraverso un percorso spazio – temporale che va dal classico Raffaello al moderno Annigoni. La sua è un’arte contemplativa che spinge all’interiorità. La bellezza del suo tratto si accompagna all’estasi dello spirito di chi osserva, s’addentra nell’anima infondendo serenità. (Raffaele Visone)

 
Di Admin (del 28/08/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 6655 volte)
{autore=criscuolo renato}
renato-criscuolo-trionfo-di-rose-nel-giardino

RENATO CRISCUOLO (Napoli, 1954)
"TRIONFO DI ROSE NEL GIARDINO"
OLIO SU TELA
80 x 120 cm del 2012

Ha esposto in molte città. Referenze in Italia presso: Meeting Art (Vercelli), Gam (Catania), Galleria Tigullio (Rapallo), Marchese (Messina), Galleria San Marco (Stresa), La Ghirlandina (Modena), Sheffield (Palermo), Cantini (Catania), Verga (Varese), Visconti (Chianciano Terme), Galleria Ponte V. (Bassano), Antichità Caiafa (Napoli), Galleria Marciano Arte (Portici); e all’estero: C. Cook Designs (Londra), Greenbaum (New York), Altri Tempi (Santo Domingo), in Texas, Scozia, etc.
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RENATO CRISCUOLO (Napoli, 1954)
"NATURA MORTA CON PAESAGGIO"
OLIO SU TELA
60 x 80 cm del 2012

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RENATO CRISCUOLO (Napoli, 1954)
"ROSE ROSSE E ROSE BIANCHE"
OLIO SU TELA
50 x 40 cm del 2012

Ogni soggetto risulta impaginato con cura. I colori non gridano ma si insinuano lentamente caldi e appropriati da dare completezza al contesto generale del quadro. Per riuscire ad apprezzare pienamente l’opera di Criscuolo, bisogna soffermarsi ad osservare quanto sia importante per lui dare la giusta luce ad ogni piccola pennellata che anche quando si succede rapida e scattante, sottintende sempre un disegno sapientemente felice chiaro… Con lui la pittura cessa di essere modello e diventa stato d’animo. (P. Ilardi)

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RENATO CRISCUOLO (Napoli, 1954)
"ROSE"
OLIO SU TELA
50 x 40 cm del 2012

 
Di Admin (del 20/08/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 4083 volte)
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Salvatore Vitagliano: un perturbatore disarmato

Premetto che ho insufficienti rudimenti del taoismo, per avviare un discorso più confacente a lui. E d'altra parte, non si può parlare della sua opera senza questo fondamento filosofico. Ma parlare della sua opera significa anche parlare di lui, perché opera e uomo in questo caso sono inscindibili. Salvatore Vitagliano lo si incontra talvolta alle mostre, discreto, schivo, silenzioso. Se ne sta in disparte, il berretto calzato sulla testa rasata da bonzo e quegli occhi perforanti che cercano di afferrare ogni palpito, di percepire ogni lampo che filtra dalle convenzioni. Raramente mi è capitato di vedere un uomo così disarmato eppure così severo, agguerrito, sicuro. Nessuno, a guardarlo, indovinerebbe tanta forza in quell'aspetto esile: una fermezza che gli deriva dal suo senso di giustizia — che è rigore morale — davanti alla quale non esistono interessi personali né ambizioni. Non si piega davanti a nulla e nulla lo indigna più del compromesso o dell'ipocrisia. Come un antico Spartano, ha il culto dell'amicizia, per lui sentimento imperituro, che continua oltre la vita, e per la quale non esita a sacrificare rapporti che potrebbero rivelarsi vantaggiosi per la sua attività. É leale, generoso, disinteressato e passionale, qualità imperdonabili in un mondo di arrivisti, che premia la mediocrità cortigiana e riduce la verità in spazi sempre più angusti. In siffatto mondo Vitagliano è una presenza scomoda per il solo fatto di esistere. La sua opera, a Napoli, la conoscono tutti, e tutti ne parlano bene, ma come per esorcizzare l'autore, quasi si avvertisse minacciosa l'ombra che lo annuncia. E chiaro, quindi, che ha una vita difficile. Entro nel suo studio, in un antico edificio del Centro Storico di Napoli, che porta ancora i segni di un fasto passato, anche se attualmente dimesso. I miei occhi sono subito catturati da un'opera che copre tutta la parte (la parete di una casa antica!). Si tratta di un centinaio di piccole tele giustapposte a formare un tutto unico. Se avessi la possibilità di guardarlo a distanza adeguata, non esiterei a definire quest'opera un Klee dilatato. Ma a distanza ravvicinata è Vitagliano che parla. Al centro della composizione un'immagine umana e tutt'intorno noti e ignoti simboli - la croce, il candelabro ebraico, la mezzaluna, i geroglifici... Ciò che mi colpisce, però, è il colore sul quale riposano i simboli. Vi predominano l'azzurro e l'oro, i colori che i Bizantini riferivano alla spirito. Mi attrae maggiormente l'azzurro, prezioso, raffinatissimo, dalle infinite vibrazioni, come i cieli di Piero della Francesca. Nel suo saggio sul simbolismo funerario degli antichi, J.J. Bachofen osservò che i simboli dei rilievi funerari romani riposano in se stessi, il che significa che quei simboli sono in se stessi compiuti e non rimandano ad alcuna realtà che li trascenda. Come è possibile, ciò, se noi chiamiamo simbolo una immagine o una entità che per sua natura e struttura ne richiama un'altra? Quei simboli, pur non rimandando ad alcuna entità che li trascendesse, rimandavano alla morte, al Nulla della morte. Non alla morte in sé, ma al mito della morte, cioè una verità superiore che è Nulla. Il rimando al Nulla è un'esperienza eminentemente religiosa, oscura, che collega l'essere direttamente all'Assoluto, come l'hanno sperimentata i mistici di tutte le religioni, greci, buddisti, taoisti, ebrei, cristiani, musulmani. Allora, se il misticismo è il desiderio di sentire Dio, si comunicare con Lui nel modo più intimo e profondo, Salvatore Vitagliano è un mistico, come mistici sono, del resto, tutti i grandi artisti nel momento decisivo della creazione quando, posti di fronte all'oscurità dell'ignoto, a quel Mysterium tremendum assolutamente inaccessibile fatto di timore e speranza, di terrore e stupore, l'eccitazione sensibile cerca un'espressione e con essa quel carattere di assoluta eccezionalità, di rivelazione manifesta e nello stesso tempo nascosta, che è il carattere originario del sacro. La ricerca del sacro come unica fonte del reale. Ecco il nodo problematico dell'odissea di questo artista che, come un francescano o un monaco buddista imprime alla sua vita un'austerità quasi rituale per poter meglio transitare dal finito all'infinita onde evocare il mistero nella sua realtà più insondabile: quella metafisica, la realtà ultima, così estranea alle realtà empiriche delle nostre esistenze quotidiane. Il suo studio di scultura, un piccolo spazio ritagliato nel sottoscala dello stesso palazzo monumentale è il tempio degli antenati come egli stesso lo definisce.


Qui, accanto a farmene di terracotta come quelle degli antichi artigiani che fabbricavano colombari per le anime dei trapassati, mi vengono incontro ancora immagini simboliche di un passato sepolto dall'oblio. Anche qui si tratta di simboli che non rimandano a nulla se non a se stessi, ma si capisce come sia vivo il desiderio dell'artista di impadronirsi della morfologia del simbolo per meglio rendere cosciente a se stesso e a chi guarda la sopravvivenza di elementi arcaici. E un luogo di culto, questo antro sacro, e in principio il culto era legato alla corporeità materiale, poiché in essa, soprattutto in essa, si vedeva la conservazione dell'Io. Egli vi vede la conservazione del vero Io, un Io svincolato da qualunque forma di coercizione sociale nell'adesione alle cose umili della terra, al paziente e perseverante lavoro. Salvatore Vitagliano parla poco. Tantomeno delle sue opere, e tuttavia interrompe la mia concentrazione affrettandosi a dichiarare di non essere un simbolista, che i simboli non sono importanti per lui, ciò che conta è l'energia. vero, i simboli non sono importanti nella sua opera, ciò che conta è la pittura, fatta di fremiti, di vita, e immagino la mano del pittore all'opera, la vedo fremere e palpitare come la sua pittura. La sua anima e l'anima della cosa che dipinge diventano tutt'uno. Una figura pensa con i suoi pensieri, un albero respira con i suoi polmoni. Su tutto alita il soffio vitale dell'autore. Per giungere a una tale vitalità egli è costretto a riprendere continuamente il lavoro, a ridipingere quello che il giorno prima sembrava terminato. Per lui un quadro non è mai "finito". La forma non diventa mai quella famosa entelechia di cui parlava Aristotele. Se l'arte è la vita, la vita si conclude solo con la morte, col nulla, ma finché è vita, è cambiamento. Questo è un punto cruciale che l'esteta decadente non ha saputo risolvere, e che invece Vitagliano penetra fino alle estreme conseguenze. L'ebbrezza dell'arte — scriveva Baudelaire — è più adatta di qualunque altra a nascondere i terrori dell'abisso. Per scendere nel proprio abisso Vitagliano non si affida ad altra magia che le sue proprie immagini, né ad altri mezzi che la propria forza espressiva. E per penetrare in fondo il mistero della vita, lui non può accontentarsi di rivolgersi superficialmente alle filosofie orientali - come fanno gli adepti della new age. Deve viverle Tao. E la più alta concezione etica della vita e il principio ultimo della metafisica orientale. Il taoismo è virtù, inazione, natura, antiutilitarismo, non desiderio, non rivalità, mitezza, docilità ... e lui è mite, docile, virtuoso, disinteressato. Secondo il taoismo, solo liberandosi dell'Io sociale si diventa consapevoli del vero Io, e lui è svincolato da tutti i conformismi sociali perché vive in pace col suo proprio Io. Il Tao trascende il bene e il male, non si lascia giudicare da nessuna misura umana, e lui agisce in modo da non lasciarsi classificare o imprigionare in una categoria definita. Ma soprattutto, per il Tao, la natura non è un qualcosa, è un Tu. E il Tu è allo stesso tempo forma ed essenza, cosa e verità, è oggetto e soggetto, è il quadro che si dipinge o la scultura che si plasma e il suo autore nello stesso tempo. E qui il cerchio sembrerebbe chiudersi. La famosa energia di cui parlava è questo principio informatore inscritto nell'universo, la forza vitale che dal cosmo fluisce nel pennello dell'artista cinese, per il quale l'originalità non conta nulla: conta soltanto la perfezione, che è affiato con l'universo; perfezione che non è mai conclusa, perché non ha gradi, né toni, come un canto gregoriano che non ha ritmo, ma è il respiro dell'anima. L'importante è la sintonia che deve stabilirsi col Chi, in modo che l'anima dell'universo confluisca nell'opera. Solo così si potrà tendere alla perfezione, che non e mai assoluta, perché ci sarà sempre una nuova e più perfetta perfezione. Quando gli dico che, a un certo punto, il supporto non reggerà più lo strato di materia che vi si deposita sopra, e che si spaccherà, lui mi risponde che anche allora continuerà a lavorarci sopra: sono le rughe che il tempo deposita sugli esseri umani. E qui c'è un altro problema che la pittura di Vitagliano solleva: il tempo. E un tempo dilatato che, come la creazione, ha un inizio, ma non una fine, un tempo che si ripiega su se stesso, in un eterno ritorno che è nietzscheiano e taoista insieme. Ma tutto questo non si evince dall'opera, che rimane ermetica.


Spiritualmente rivolto al passato, Vitagliano è un artista d'avanguardia. Egli però non tende ad aggredire trasversalmente concezioni convenzionali acquisite, né a interrogarsi sulla realtà empirica dell'arte, sulle modalità dell'opera. L'immagine, per lui, non assume un significato puramente immanente. E si spiega: egli è rivolto al sacro, e il sacro non conosce la separazione tra un mondo dell'essere immediato e un significato indiretto, tra immagine e cosa, Quella che noi chiamiamo rappresentazione, per il sacro è un rapporto di identità reale. L'immagine non rappresenta la cosa, è la cosa, quella che i greci chiamavano eidolon. La statua di un dio e il dio in persona. La bambina raffigurata con l'abito della prima comunione è impressionante. Tutti i particolari sono al posto giusto: il velo, le mani guantate che reggono il libro di preghiere, le scarpe. È tutta bianca, anche il volto, solo una striscia di colore azzurro, appuntita come una spada, le pende dal fianco interrompendo la candida uniformità. Eppure, a guardarla bene, questo simbolo di innocenza non sembra affatto innocente. Quei suoi grandi occhi scuri, severi, solcati da profonde occhiaie azzurre (lo stesso colore della spada), turbano. Sono occhi inquisitori che ti rovistano l'anima, spietati e ostili. La si guarda con un senso di malessere, di paura, come si guardasse l'improvvisa apparizione di un demone. È un'epifania, ma un'epifania infernale. Perché e così inquietante quella bambina? Così insostenibile quella visione? Perché quella spada azzurra segna a un tratto una barriera? È un'opera fondamentale, questa, nel percorso artistico di Vitagliano, un capolavoro nel senso più esatto del termine, in quanto è da essa che scaturiscono le altre opere. È un indizio, forse una presa di coscienza, ma di che? Di una prima comunione con l'essere? Di un ricongiungimento? Da che deriva il turbamento che si prova guardandola? Da una simile terrifica esperienza il profano è escluso. Di forte adesione emotiva, invece —anche se del pari inquietante — è la grande tela raffigurante Uno che attraversa il mare. È una figura dall'ambiguità androgina e dai colori accesi. Vi predominano il rosso intenso e l'azzurro. La struttura è monumentale, architettonica, di grande consistenza plastica, e l'impasto compatto, forte e denso, come è nello stile di questo pittore che sa dominare la materia con straordinaria maestria. I colori si chiamano e si rispondono reciprocamente, la luce ha lo stesso valore dell'ombra e lo spazio è perfettamente integrato con la figura. Questa, infatti, pur nelle sue linee sfrangiate, vi si integra senza perdere la sua coesione. I rigidi confini dell'interno e dell'esterno, del soggettivo e dell'oggettivo non rimangono più tali, si fluidifica-no ma non riflettendosi l'uno nell'altro in un vicendevole rispecchiamento che ne riveli il contenuto: semplicemente diventano la stessa sostanza. Le parti del corpo hanno la liquidità dell'acqua, ma la figura non è una metamorfosi, è l'acqua stessa, il principio di tutte le cose. L'unità della vita è così raggiunta, ed è una unità qualitativa. Qui non esiste alcuna differenza tra il mondo dell'essere naturale e quello dello spirito, nessun dualismo in grado di stabilire la distinzione tra corpo e anima, sulla quale la coscienza metafisica stabilisce la certezza dell'immortalità. Una tale coscienza gli antichi la fondavano sull'interdipendenza di vita e morte, senza alcun prima e alcun dopo, ma come completa e indivisibile compenetrazione dei due processi. Quasi tutti i suoi volti hanno orbite cave al posto degli occhi, eppure il loro sguardo è intenso e ci scruta. Sono occhi pieni di vuoto e di silenzio. Alcuni di essi, pur non essendo mai semplici volti umani, possiedono una rigorosa compiutezza formale. Senza perdere nulla della loro identità, vengono subordinati al colore, che non è quello specificamente attribuito alla carne, perché il pittore rinuncia deliberatamente a imporre loro le associazioni abituali. In questo modo essi adottano qualità di trasparenza, di duttilità, fluidità, che sono le condizioni a cui esseri e cose vengono chiamati a una diversa esistenza. L'elemento dinamico e ritmico rimane il medesimo, non solo nella figura, anche nell'oggetto naturale che vi è commisto: lago, prato, mare, fuoco, cielo, vento...


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SALVATORE VITAGLIANO:
"CONCHIGLIA" Tecnica mista su cartone telato 18 x 24 cm

E questo il suo modo di conoscere, e non ci sorprende che si serva dell'aspetto umano per dare un volto alla natura. Passare di là e salvarsi non necessariamente comporta un abbandono del nostro corpo e del nostro volto, della nostra responsabilità morale, insomma di tutta quanta la nostra pesante e vischiosa umanità. In questo modo l'uomo, pur continuando ad essere il centro e la misura di tutte le cose, nel vivere e nel morire del mondo, della natura, non trova soltanto un'espressione indiretta e riflessa del suo proprio essere, ma coglie e conosce in esso direttamente se stesso, vive in esso il suo proprio destino, contenendo in sé una pluralità di elementi inietta nella materia un coefficiente di intensità. Il mondo — dice Bachelard — è intenso prima di essere complesso. Ogni figura di Vitagliano possiede questa intensa vitalità. Già in alcune sue opere precedenti, la composizione ruotava intorno a una sorta di oggetto bombato, come un grande ovolo. Si trattava piuttosto di una forma indotta ad ampliarsi, a sollevarsi, senza tuttavia rompersi, segno di una vera dilatazione dell'essere. Questa forma annunciava un'interiorità intensa dello stesso oggetto, diceva la spinta di una pienezza impaziente. E tuttavia essa non dava veramente sfogo a quel movimento di espansione. La ricchezza di questa forza bisognava andare a estrarla, e per estrarla era necessaria la solitudine meditativa. E così Vitagliano, con un gesto imprevedibile e folle incollò a due a due i suoi quadri col vinavil, e come un eremita si ritirò nel Beneventano. Coerentemente con i suoi principi, egli non poteva abbandonare il campo per evenienze non attinenti al suo modo di concepire la pittura. Forse influì su di lui anche la piega che stava prendendo l'arte in quel periodo burrascoso, che non attribuiva alcuna importanza al valore della pittura in sé. Durò quasi un decennio la sua meditazione solitaria. Poi ricomparve. Oggi queste stesse forme arrotondate sono le sue figure umane, e quale intensità esse possiedono, quale mobilità! Ma si tratta di una mobilità contenuta, quasi virtuale, come una venatura che riveli nell'involucro della materia una identità centrale spirituale. Nel volto di una donna, dove l'iridescenza del verde si ingolfa con infinite vibrazioni e sfumature — quasi si trattasse di una palude — si riverbera il ciclo vitale della vita fermentante dell'acqua che ristagna: non una sostanza morta, ma un brulichio di creature che vivono, La palude diventa così l’esca in cui abbocca la bellezza; ma solo per fare più profonda la profondità dello stagno. Un viola fiammante, invece, accende il volto di un fiume, un volto che rievoca la notte del tenebroso fondo, le sue ombre che risalgono dal silenzio e invadono gli occhi vuoti e dolorosi della figura. È un'immagine di dolore cosmico. Quale male insondabile si cela nella vita che scorre? È sempre ravvisabile, nelle opere di Vitagliano, qualcosa di altro, e non sorprende che egli si serva dell'aspetto umano per dare un volto alla natura. Attraverso le sue opere egli ci conduce a viaggiare nei grandi campi dell'universo, nella neutralità della luce, senza farci dimenticare il nostro nome. Le sue figure umane sono essenze riconoscibili, con i loro tratti particolari, le loro espressioni: conservano il carattere del modello al quale si può perfino dare un nome. Dall'umanità non si evade, non occorre nessuna fuga irresponsabile, l'essere è poroso, assorbe in sé la realtà oggettiva, e in questa porosità acquista vigore, consistenza e spessore. La fanciulla raffigurata in assorto raccoglimento, tutta bianca su uno spazio nero, si erge granitica come una montagna. La sua bianchezza assume una sfumatura di rosa, lieve come uno smarrimento verginale, senza di che il bianco non avrebbe coscienza del suo proprio candore. Ho visto ripetutamente Vitagliano lavorare a questo quadro, ogni volta la figura era sommersa da un nuovo spessore di colore; e ogni volta il pittore mi diceva che così era finita. Poi, un bel giorno l'ha finita davvero (o almeno così sembra fino a questo momento), e davanti ai miei occhi un nuovo mondo si è aperto. È difficile mantenere una distanza critica davanti al fremito dell'universo, perché in quest'opera si sente veramente l'universo che freme. La notte buia, punteggiata da mille bagliori — mille creature invisibili che nulla attendono dal respiro del tempo — è un silenzio che canta e riecheggia nell'anima come un interminabile tonfo. Nulla si muove nel quadro, eppure tutto è in movimento, tutto vibra. La notte è laboriosa, nemmeno i vertici dei monti e i baratri dormono. Ma via via che gli occhi si abituano al buio strane immagini affiorano. Al centro della notte c'è un uccello nero, un uccello emissario del vuoto accanto alla fanciulla avvolta nella sua solitudine, nel suo sogno di neve. Aspetto sacro di verginità, ella incarna un universo verticale contro il quale si infrange ogni tentativo di profanazione. Sulla fronte candida, però, un buco nero come un ferita, o come un sesso, ha lo stesso colore, lo stesso impasto dello spazio che l'abbraccia. È uno spiraglio. In questo punto di inserzione l'universo si è aperto un varco nell'essere, si è annunciato alla coscienza. Cosi, senza l'ausilio di nessuna cesura plastica, se non il contrasto della figura e il nero dello spazio, Vitagliano ci dà la stessa sensazione di ineffabilità — tanto più imperiosa quanto più segreta — delle grandi annunciazioni quattrocentesche.

 

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SALVATORE VITAGLIANO:
"CROCE" Tecnica mista su tavola e plastica trasparente 100 x 70 cm

Tutta la poesia delle sue immagini ci dice che la notte e le tenebre non sono evocate per la loro estensione, il loro infinito, ma per la loro unità, perché nella notte tutto si fonde. Ci dice che fuori del momento creativo, momento sacro, solenne, che immobilizza il tempo in un solo istante, non c'è che prosa e profano. Nel suo mondo nulla poggia con calma e saggezza, con pesantezza, sul rassicurante terreno delle convenzioni acquisite — la bellezza non è forse perturbante e perversa? I cieli sulfurei conservano tracce di presenze diaboliche, la terra è trasparente, l'aria è solida, l'acqua verticale. Eppure, non si tratta di un mondo capovolto; piuttosto di un mondo che rifiuta il conflitto degli opposti. Non c'è dialettica nel suo mondo poetico; o meglio, la dialettica è stata vinta dalla poesia, l'unica capace di trasportare l'essere al dì là della pura durata, di far sentire il tempo come un'ascesa, dove nulla è anteriore o posteriore, ma dove tutto si vive in un solo momento: la dolorosa gioia e il dolore che consola. Tuttavia, malgrado il disperato tentativo di una sintesi conciliatrice, non sembra esserci nel mondo poetico di Vitaliano alcuna possibilità di pacificazione: la materia è agita dall'interno, la sua interiore intensità risveglia immagini dinamiche. Quel senso di inquietudine che emanano le sue figure ci turba. E turbare vuoi dire introdurre disordine. È questo il culmine del suo messaggio: pervertire tutte le nostre false certezze e mostrarci un ordine diverso, le cui coordinate sanno imporre una direzione allo spirito, questa parte così obliata della nostra umanità. Se la grandezza di Picasso consiste nell'aver sovvertito la forma, cardine essenziale delle nostre convenzioni acquisite, la grandezza di questo pittore misconosciuto risiede nel perturbare i fondamenti stessi della nostra coscienza. E un danno per tutti, che forze avverse non gli consentano di raggiungere un pubblico più vasto. Ma egli non si dispera, perso come è nella sua pittura, unica fonte di consolazione. Una mutazione continua in cui ciascuna delle forme si scambiava i propri attributi. Non basta, dunque, l'ottusa volontà di cancellare il suo nome per precipitarlo nel nulla. Il nulla, per lui, conteneva il germe dell'essere, e a dispetto del becerume imperante egli vive nella sua opera, che è li, a sfidare il tempo e i pregiudizi del tempo.

 Maria Roccasalva


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Il volto seducente e ambiguo del «possibile»: Vitagliano, una pittura dolcissima e velenosa

C’è indubbiamente bisogno di molto coraggio per fare come Salvatore Vitagliano (San Martino Valle Caudina, 1950), che in questi ultimi anni ha voluto rimescolare le regole di una ricerca pittorica che egli veniva ormai conducendo con crescente sicurezza e con risultati di una qualità così alta da sembrare miracolosamente conquistata sui più ardui crinali della storia dell’arte: una qualità imperturbabile, anche quando lo scatto della fantasia, improvviso e violento, spingeva l’immagine nelle regioni abitate dalle strane creature della notte e del sogno. Anzi, proprio allora, mentre l’immagine esibiva vistosi processi di metamorfosi, risultava maggiormente evidente che la pittura di Vitagliano possedeva una sua interna spazialità, stabile ed omogenea, in cui la forma poteva di nuovo assestarsi, rivestendosi di un tessuto cromatico vibrante nell’intensità dell’impasto e nell’ampiezza del registro, ma sempre seducentemente integro.

Ora il giovane artista campano – che può a ragione essere considerato un autentico protagonista della pittura italiana dell’ultimo decennio, ben diversamente, s’intende, di quei tanto più noti suoi coetanei che gareggiano «selvaggiamente» sui circuiti del mercato, al seguito di spregiudicati manager – ha sconvolto le coordinate del suo precedente percorso, liberando lo sguardo sull’orizzonte del possibile. Ma per far ciò egli ha innanzitutto messo in questione quella «qualità» delle immagini che, proprio per la sua felice persistenza, accennava a surrogare, in funzione gratificante, la percezione del mondo delle cose.


Con le opere esposte nella galleria L’Ariete, Vitagliano ha voluto correre il rischio di una nuova avventura, poiché sapeva di aver tanto fiato da poter discendere entro gli strati oscuri della propria soggettività, nel cuore pulsante di vita da cui provengono i fantasmi dell’arte, spinti in alto dalla forza dei desideri, verso lo schermo luminoso della coscienza e dei sensi, che è poi la soglia da cui il nostro corpo s’affaccia sullo spettacolo del mondo e s’inoltra nella rete dei rapporti intersoggettivi. Lungo questo doppio tragitto, di vertiginosa immersione e di lento ritorno sulla superficie, l’artista non ha smarrito la consapevolezza della dimensione culturale dell’esperienza pittorica. Perciò questa, in Vitagliano, rimane anche oggi estranea ai luoghi comuni e banali della poetica surrealista, non è uno sprofondamento inconsulto nell’inconscio né essa s’affida all’automatismo del segno.


È piuttosto una rifondazione del senso di quella dimensione culturale, scandagliata oltre che lungo i suoi tramiti storici, nelle sue profonde radici esistenziali. Se è vero, perciò, che l’attuale pittura di Vitagliano provoca talvolta l’inquietante effetto di una fascinazione medianica o quello di una presenza enigmatica e sgradita, evocata da chi sa dove, ma nella quale infine sei costretto con disagio a riconoscerti, con le tue inconfessate ambiguità, non bisognerà meravigliarsi che essa riveli qualche singolare memoria dell’arte simbolista e romantica. Allo stesso modo, volendo ricordare, come è giusto, la più bella delle sorprendenti sculture presenti nella mostra, si dovrà osservare che questo «animale», di aggressiva eppure patetica vitalità, sembra sia uscito da un incubo dell’immaginazione, ma potrebbe arricchire i «bestiari» della scultura romanica.

Nelle opere in cui più evidente è la consonanza con i motivi simbolisti il colore passa da irregolarità e spessori materici da art brut a sottigliezze estremamente raffinate dove svariano i gialli, i verdi e gli azzurri, scambiandosi dolci tenerezze e acidi veleni. Si veda ancora come dietro le figure femminili dipinte su due grandi tele si scoraggiano misteriosi paesaggi che ora sfumano tra vapori ed umide esalazioni lacustri, ora sprondando nell’area diventata così densa, cupa e buia da provocare il ricordo, o la paura, di una morte per annegamento.


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SALVATORE VITAGLIANO:
"CIRO" Olio su carta applicata su tavola 30 x 21 cm

Ma vi sono altri quadri che, ad una prima considerazione, possono sembrare lontani da questa poetica che, riscoprendo un arco amplissimo e oltremodo vario di possibilità espressive, conferisce all’elemento iconico, su cui poggiano gli schemi compositivi e i ritmi formali, una grande ricchezza di significati ed eccita una risonanza psicologica nel cui cerchio è difficile non rimanere emotivamente coinvolti. In queste immagini la sostanza figurativa si direbbe svanire al di là dello schermo del quadro, dove non rimane che una fugace impronta, dove la forma appare rotta da una gestualità frenetica che esalta la luminosità del colore, facendola sprigionare dall’interno o suscitandola sulle stesse zone d’ombra, come un brillio e un fremito della pelle della materia.

Ma è facile capire che anche qui, in queste immagini che danno l’impressione di una più diretta e felice esposizione all’aria aperta, tanto da far pensare ad un ritorno alla natura e alle circostanze familiari del paesaggio campano, in realtà Vitagliano continua a comunicare il fascino di un sentimento della vita che non si esaurisce nell’emozione del presente, ma è capace di cogliere in questo gli ambigui e capziosi lineamenti del possibile.

Vitaliano Corbi


 
Di Admin (del 05/07/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 2969 volte)
{autore=guidi virgilio}
virgilio-guidi-acquerello

Autore: VIRGILIO GUIDI (1891 - 1984)
Titolo: TESTA
Tecnica e superficie: ACQUERELLO SU CARTA (Raffaello di Fabriano)
Dimensioni: 47,5 x 34,5 cm
Anno: 1968

L'opera è firmata in basso a destra "Guidi". Sempre in basso a destra è la dedica con data “A Stefano Manetto, Guidi cordialmente. 1968 Virgilio Guidi”. Dipinto autenticato dal Prof. Toni Toniato che conserva le foto dell'opera.

GUIDI, VIRGILIO (Roma, 1891 - Venezia, 1984)
 Prende parte alle maggiori rassegne figurative nazionali e estere, ottenendo importanti premi. Le sue opere sono in musei e collezioni private in Italia e all'estero. La suggestione poetica della pittura di Guidi potremmo definirla incorpore, di derivazione intellettuale, sottile e altissima, riducibile insomma, a un solo elemento: la luce. 
"La luce è la sensibile e autentica presenza poetica offerta dai dipinti di Guidi; anche adesso che il pittore ne lascia intendere quasi soltanto i motivi della sua evidenza, in opposizione al suo contrario e ad un suo irriducibile fattore fisico: quei pochi, a volte pochissimi, lampi di una materia allegoricamente diversa, che scartano, si torcono, guizzano, virgolano, sinuosi e scompaiono, oppure ritornano seguendo i medesimi percorsi sotto lo stimolo della luce. Una luce che è astratta, che spiove da cieli altissimi, e che proprio perché appartengono alla finzione d'una fantasia visionaria non potranno mai essere raggiunti... Una luce intatta e acuta e che tuttavia si posa come una luce di sera stemperata, disciolta, trasfusa interamente nella stesura cromatica, nella leggera velatura del colore e nella coltre così fragile della materia pittorica".
Luigi Carluccio

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Autore: VIRGILIO GUIDI (1891 - 1984)
Titolo: TESTA I
Tecnica e superficie: PENNARELLO SU CARTA (Raffaello di Fabriano)
Dimensioni: 46 x 34,5 cm
Anno: 1968

L'opera è firmata in basso a destra "Guidi". Sempre in basso a destra è una dedica con data “A Stefano Manetto cordialmente, Guidi 1968 (Virgilio)”. Dipinto autenticato dal Prof. Toni Toniato (tel: 0415238430) che conserva le foto dell'opera.

GUIDI, VIRGILIO (Roma, 1891 - Venezia, 1984)
 Dal 1911 segue il corso di Giulio Aristide Sartorio all'Accademia di Belle Arti di Roma; studia Cézanne e Matisse, frequenta l'ambiente del Caffè Aragno (dove conosce Longhi, de Chirico, Bacchelli, Ungaretti e Cardarelli) e, dal 1920, partecipa alle Biennali di Venezia. Nel 1926 e nel 1929 espone alle mostre di Novecento Italiano. Nel 1927 si trasferisce all'Accademia di Venezia, dove sostituisce Ettore Tito nella cattedra di Pittura. Nel 1933 è a Parigi e nel 1935, essendogli ostile l'ambiente veneziano, si trasferisce all'Accademia di Bologna. Premiato alla Quadriennale romana del 1939, ritorna definitivamente a Venezia nel 1944.

BIBLIOGRAFIA RECENTE: Vittorio Sgarbi (a cura di), Virgilio Guidi 1912-1948, cat. mostra, Milano 1987; Toni Toniato, Virgilio Guidi, Venezia 1991; Franca Bizzotto, Dino Marangon, Toni Toniato, Virgilio Guidi. Catalogo generale dei dipinti, Milano 1998.
REFERENZE: Tega, Milano.
SCHEDA ECONOMICA: le opere degli anni Venti sono stimate da 80 a oltre 200 milioni (se di grandi dimensioni); quelle degli anni Trenta-Quaranta, da 40 a 100 milioni.
(Novecento Italiano – De Agostini Ed. - 1999)
 
Di Admin (del 14/05/2012 @ 00:00:01, in Arte News, linkato 4901 volte)
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Autore: RENATO BARISANI (1918 - 2011)
Titolo: RITRATTO DI DONNA
Tecnica e superficie: OLIO POLIMATERICO SU TAVOLA
Dimensioni: 101 x 82 cm
Anno: 1964

L'opera riporta firma, titolo e data a tergo. Cartiglio galleria "Il Centro". Autentica dell'artista su foto
Pubblicata in b/n a pagina 216 su: "Renato Barisani. Opere 1940 - 1975" di Enrico Crispolti. Magma Edizioni. Roma, 1976. Edito in occasione della personale retrospettiva di Barisani nel Palazzo Reale di Caserta.

Scultore e pittore, nel 1937 termina gli studi di scultura presso l’Istituto d’arte di Napoli e frequenta per due anni, grazie ad una borsa di studio, i corsi dell’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza al termine dei quali consegue il relativo diploma. Rientrato a Napoli, frequenta l’Accademia di Belle Arti e si diploma in scultura nel 1941. Ha insegnato disci­pline artistiche negli Istituti d’Arte e nei Licei Artistici. Dal 1978 al 1984 ha insegnato design all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Nel Biennio ‘49-50 partecipa alle esperienze del Gruppo Sud di Napoli; dal 1950 al 1955, insieme a Renato De Fusco, Guido Tatafiore ed Antonio Venditti, dà vita a Napoli ai Gruppo Arte Concreta; dal ‘53 al ‘57 è presente nel Movimento Arte Concreta di Milano. Dal ‘50 al ‘53, poi, partecipa alle attività della Nuova Scuola Europea di Losanna e dal ‘75 all’8O a quelle del gruppo “Geometria e Ricerca”. Dal 1958 ad oggi ha parte­cipato, in Italia ed all’Estero, ad oltre 200 mostre collettive. Più di settanta le mostre personali. Nel 1993 è stato insignito a New York del premio Pollock-Krasner Foundation. Sue opere sono esposte, oltre che in importanti gallerie private, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, il Museo di Gibellina, la Civica Galleria d’Arte Moderna di Torino, la Civica Galleria d’Arte Moderna di Verona ed in numerose collezioni di enti pubblici. Hanno pubblicato monografie sulla sua opera Oreste Ferrari, Enrico Crispolti, Luigi Paolo Finizio, Arcangelo Izzo.

 
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