La pittura di Calibé è improbabile perché le verità assolute appartengono solo ai dogmi, mentre in arte non c’è soluzione per chi voglia anzitutto garantire il suo cammino o restare ad ogni istante giusto e padrone assoluto di se stesso ; perché in ogni singolo artista il modo di essere dell' uomo è ambiguo nel senso che non è né soggettivo, né oggettivo.
L' improbabilità allora non vuoi dire che la concettualità e l’action dell’artista siano confuse e incerte, ma vuoi indicare che ogni attività umana, e soprattutto la creatività, include necessariamente l’esperienza soggettiva, che ha in se l’oggetto, e l’apparire in un oggetto, che risulta costituito da operazioni soggettive, come più o meno suggerisce Merleau-Ponty, il quale fa rivelare, inoltre, come nessun lato dell’oggetto si mostra se non nascondendo attivamente gli altri, denunciandone l’esistenza nell’atto di nasconderli.
Perciò vedere è, per principio, vedere e far vedere più di quanto si veda; accedere e far accedere non ad una mancanza, ma ad una latenza. Tutto ciò comporta il coinvolgimento attivo dello spettatore che scopre le dimensioni, le linee di forza, gli scarti che segni e forme obliquamente suggeriscono in quanto alone di invisibilità presente.
In tal modo Calibé può tentare il meno probabile: porre nel corpo e nella carne della sua pittura due movimenti interni e trasversali; l’uno rettilineo, tendente all’ordine dell' eidos, l’altro circolare, esplosivo, nucleare, contraddittorio, improbabile come il moto delle comete, sospettato inverso a quello di tutti gli altri pianeti; assegnare al colore l’esplosione erotica dei caldi, ai freddi l’esplosione degli spazi invisibili; capovolgere nel regime diurno le immagini e le figure del regime notturno; immergersi nel nero, che è massimo assorbimento della luce, nel bianco che è matrice ed assenza di ogni materia colorata; può ispessire sino ad essere pantagruelico divoratore di im-pasti, assottigliare e ridurre sino a preferire l’astinenza minimalista dei francescani; può indurre l’ebbrezza dionisiaca e l’ek-stasis apollinea.
Compie soprattutto il suo viaggio a Citera con i suoi ospiti, visitatori sospesi, compagni di avventura.
Si può usare per un pittore la definizione di narratore visivo? Per Armando De Stefano la definizione risulta propria: De Stefano racconta storie, mette in scena commedie drammatiche, organizza rappresentazioni allegoriche. Dopo il ciclo figurativo dedicato (tra il 1967 e il 1968) a Jean-Paul Marat (il giacobino idolatrato dal popolo di Parigi), dopo il «Ciclo di Tommaso Aniello » (Masaniello, «l’inquieto e temerario pescivendolo di Napoli») del 1970-1975, dopo il «Ciclo di Odette» (del 1973-1977) dedicato a «Vita, persecuzione, morte e resurrezione di una giovane borghese innamorata di un proletario anarchico», eccolo proporci, con spregiudicato coraggio e coerente vitalità immaginativa, il «Ciclo del Profeta», iniziato nel 1978 e ancora aperto: i protagonisti del «Ciclo del Profeta» sono Giovanni Battista, Cristo e Maria sua madre, antieroi, secondo De Stefano, umanissimi e libertari che incarnano, come Marat, Masaniello e Odette, uno scandaloso (profetico) destino di riscatto morale.
I cicli di De Stefano sono romanzi scenici, affreschi teatrali, melodrammi costruiti attraverso sequenze pittoriche, che sfruttano la tecnica cinematografica dei piani e contropiani, i ritmi mimici del balletto e della danza, la funzione rituale che armonizza nello spazio del palcoscenico il gesto degli attori e la scenografia che svolge un ruolo di maschera. A proposito delle rappresentazioni pittoriche di De Stefano sono stati chiamati in causa il teatro liturgico-misterico di Lope de Vega e il cinema epifanico di Bergman e Bunuel: certo vi si rintracciano analoghi contrasti tra idealismo ed esistenzialismo, tra ieraticità simbolica e realismo fisico; ma la sacralità di De Stefano, non è, come in Lope de Vega o Bunuel, religiosa; un elemento libertino e liberty, sostanzialmente laico anche se non parodistico, richiama, nei suoi racconti per immagini, alla memoria più propriamente “Il fiore delle mille e una notte” di P.P. Pasolini e “L'opera del mendicante” di John Gay. Nell’ispano-napoletano De Stefano, che riprende la lezione del sulfureo espressivismo dello Spagnoletto, convivono pathos ed eros, innocenza e ambiguità, in una ritualità non liturgica, che usa, in un percorso di ascesi stoica, persino la perversa provocazione peccaminosa di Salomé.
Marat, Masaniello, Cristo: Armando De Stefano mostra una ferma predilezione per il ricupero del valore simbolico di certi personaggi storici anticonformisti, profeti dell’utopia dell’innocenza, della speranza e della convivenza. Ma De Stefano non celebra la Storia: tanto meno la glorifica. I suoi antieroi sono, anzi, vittime esemplari dei poteri storici formali; agnelli sacrificali, vittime di persecuzioni e crocifissioni. La storia autentica, moralmente educativa, è per De Stefano quella basata sulla catena di ribellioni, martirii e riscatti che lega i suoi poveri di spirito, interpreti di una riconsacrazione umana dell’esistenza. La Storia con la S maiuscola è, invece, la Peste di Napoli, il Giardino Morto di Odette, la Fuga di Giuda: un museo mortuario, un mausoleo della distruzione per uscire dal quale ci è d’aiuto solo il filo di Arianna dell’amore (anche corporale). La pittura di De Stefano celebra, dunque, la Resistenza del Privato contro la Storia.
Ogni vicenda dei suoi personaggi, anche quella di Cristo o di Maria, descrive un percorso di ricerca di identità personale: e i miracoli (di strazio o felicità) in cui sono coinvolti, non sono testimonianza del divino — non sono sublimazione — ma solo un riconoscimento o un’appropriazione di umanità. Il Cristo di De Stefano assomiglia molto all’«uomo di Nazareth» di Anthony Burgess e Maria ha molto in comune con la silenziosa e protettiva madre terrena di Gesù proposta da Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo”: protettiva come tutte le donne dei tazibao maieutici di De Stefano che sono madri anche quando sono amanti. De Stefano mette in scena le vicende dei suoi eroi per riviverle in una liberatoria drammaturgia mimica e mimetica: acutamente Testori ha parlato a proposito delle sue raffigurazioni, di «narcisismo giudicante e sacrificale».
Le parole che pronunciano e vivono i personaggi di De Stefano sono ardore, amore, furore, in alternativa ad orrore, terrore, dolore. Benché sia passato da Marat a Masaniello, personaggi mitopoetici della Rivoluzione, a Maria e Cristo personaggi mitopoetici della Redenzione, De Stefano non sottolinea ancora le parole gioia o grazia. Nel «Ciclo del Profeta» lo Scandalo dell’identità non è lo Scandalo della Verità, la Protesta non è Preghiera. Amore e Morte, Bene e Male conducono ancora, nei poemi visivi di De Stefano, un’irrisolta battaglia. Nei suoi quadri i fiori diventano spine, i broccati si trasformano in piaghe: e non viceversa. Le sue non sono sacre rappresentazioni, sono chansons des gestes, fastose ballate trobadoriche profane.
Salvatore Emblema appartiene a pieno titolo ai grandi della pittura del Novecento. Della sua arte, apprezzata in tutto il mondo, ebbe modo di scrivere diffusamente uno dei più prestigiosi critici italiani, Giulio Carlo Argan. Ai giorni nostri si sono occupati di lui Amnon Barzel e Vittorio Sgarbi. Salvatore Emblema nacque a Terzigno, in provincia di Napoli, nel 1929.
Il suo itinerario artistico iniziò nel 1948 quando eseguì una serie di Collages usando foglie disseccate e costruendo ritratti attraverso le modulazioni cromatiche. Una ricerca materica sviluppata impiegando anche pietre e minerali raccolti alle falde del Vesuvio. Spinto dalla conoscenza delle correnti artistiche a lui contemporanee si recò in Francia, Inghilterra, Spagna incontrando i più grandi artisti dell’epoca. Trascorse due anni della sua vita a New York dove sviluppò una salda amicizia con Mark Rothko, fondamentale per gli sviluppi successivi della sua arte. Al suo rientro in Italia portò avanti la sua ricerca personale fino a raggiungere la conquista più propria dell’artista napoletano: la trasparenza. Messa in atto alla fine degli anni ’60, dopo un nuovo lungo soggiorno a New York, la trasparenza verrà canonizzata da Giulio Carlo Argan nel 1979 con uno scritto apparso sull’Espresso in cui lo porrà in rapporto ai Tagli di Lucio Fontana e al dibattito sul valore spaziale e ambientale dell’oggetto quadro. Emblema lavora diradando la tela e rendendola suscettibile alla luce, alle infinite variazioni della realtà che dalle spalle della tela ora si affacciano sulla bidimensionalità del piano pittorico, con l’unico filtro di una detessitura esile e geometrica che la guida nel passaggio da linguaggio quotidiano a linguaggio artistico di cui l’artista con gesto paziente, dilatato, modula il tono, il ritmo e la punteggiatura. Salvatore Emblema fu invitato a numerose e prestigiose rassegne, partecipò alla XL Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Nel 2005 furono allestite due importantissime mostre antologiche in sud America: a San Paolo del Brasile nel Museu de Arte Contemporanea da Universidade e a Rio de Janeiro nel Museo de Arte Moderna. Il suo lavoro è ormai presente nei principali libri di storia dell’arte tra cui i libri scolastici di Giulio Carlo Argan su cui generazione dopo generazione ci formiamo tutti. L’artista ha condotto per anni una ricerca coerente sulla luce e il colore fino a giungere alle "trasparenze” riconosciute da Argan come punto di arrivo. Oggi viene accostato da Sgarbi a Fontanae a Burri nelle soluzioni di spazialità e presenza materica della tela. La sua prima esposizione personale si tiene a Roma alla Galleria San Marco, in seguito, per citare solo le mostre più importanti, espone alla Galleria Christian Stein a Torino, a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, al Museo Pignatelli a Napoli e alle Gallerie degli Uffizi a Firenze. Dopo essere state viste alla XL Biennale veneziana, le sue opere arrivano al Metropolitan Museum di New York,per poi tornare a Napoli a Palazzo Reale e a Vicenza, nella Basilica Palladiana. Negli ultimi anni della sua vita sono state allestite tre importantissime mostre in sud America a Rio de Janeiro, a San Paolo e a Città del Messico: i consensi dei critici, degli studiosi e del pubblico lo hanno consacrato ad una grande fama.
Sue opere in collezioni pubbliche: Galleria degli Uffizi - Firenze Museo Villa Pignatelli - Napoli Musei Vaticani - Roma Metropolitan Museum - New York Rockfeller Center - New York Ludwig Museum - Koblenz Baymans Museum - Rotterdam
Gennaro Villani era stato allievo di Esposito, Volpe e Cammarano. Inseritosi ben presto da protagonista nelle vicende artistiche napoletane, partecipò alla «secessione» del ‘23, andando poi a dirigere l’Accademia di B.A. di Lucca e tornando successivamente ad insegnare paesaggio all’Accademia di Napoli. Ma, nel corso della sua laboriosa vita, era stato anche a Parigi: aveva dipinto lungo la Senna, aveva capito la bellezza dei grigi, di certi toni smorzati; e nella sua memoria cantavano con i ritmi di una poesia di Verlaine i paesaggi di Claude Monet. Si era aggirato per la «ville lumière», osservando, dipingendo nei luoghi dove avevano operato i grandi impressionisti francesi, dai quali, pur mantenendo inalterato il suo temperamento di pittore napoletano procive al sentimento e alla sensualità, aveva tratto non pochi insegnamenti, affinando la sensibilità e il gusto.
Passeggiando lungo le spiagge assolate, s’incantava a guardare i nudi bruciati dal sole o gli effetti di luce sulle acque. i suoi occhi, dietro le lenti, fissavano lo spettacolo insolito. D’improvviso piantava il cavalletto sulla sabbia, apriva la cassetta dei colori ed incominciava a dipingere con una foga impressionante. Da quelle poste sulle spiagge nascevano di giorno in giorno i suoi mirabili paesaggi vibranti di luce.
Dipingeva come in trance, imprigionando la luce dei pomeriggi estivi. Parigi gli aveva insegnato molte cose, ma egli non si lasciò mai influenzare dalle mode. Restò napoletano. Le sue «impressioni» sono caratterizzate da un tono elegiaco, da una vena sentimentale: i cieli grigi, la luce dorata dei pomeriggi invernali, le marine autunnali, la campagna durante la vendemmia, i porti ingombri di velieri nel giuoco della luce che squarcia le nuvole, i cortili rustici, la prima neve. Poteva considerarsi uno degli ultimi bohemiens, un romantico per il quale la natura era il gran libro da cui trarre le parole e le immagini del suo poetare. (P. Girace)
Di Admin (del 04/03/2010 @ 13:42:39, in Arte News, linkato 1476 volte)
{autore=marzo miguel}
Autore: MIGUEL MARZO (Sec. XIX) Titolo: Teatro Municipale "San Josè" di San Paolo del Brasile (in scala 1/100) Tecnica e superficie: Acquerello su cartoncino Dimensioni: 54 x 70 cm
L'opera, del XIX secolo, è firmata "Miguel Marzo, Architecto - Constructor, Rua Capitao Salamao 42, S. Paulo." in basso a sinistra.
Nasce a Napoli nel 1903 in un ambiente che favorisce la sua naturale propensione artistica, anche se frequenta l’Accademia solo per poco tempo. Inizia, quindi, a dipingere prestissimo e, a differenza del padre e dei fratelli maggiori, si dedica soprattutto allo studio di figura, esponendo fin dal 1920. Attorno al 1925 è evidente nella sua opera uno spostamento d’indirizzo: dalla rappresentazione degli interni di ascendenza manciniana, verso un’innovativa predilezione per l’interpretazione della figura senza sfondo. Nel frattempo si dedica anche all’illustrazione: nel 1922 esegue due disegni per un racconto della sorella Eva. Nel 1926, insieme a Eva e Paolo, compie un viaggio che la porterà a Roma, per visitare le collezioni Vaticane, in Romagna, per far visita ai parenti del padre, e infine a Venezia, dove visita la Biennale. Sempre nel 1926 Ada espone, insieme al fratello Paolo, alla “Compagnia degli Illusi”: incoraggiata dalla critica positiva nei suoi confronti, solo due anni dopo, l’artista presenta trentuno dipinti in una mostra personale, sempre nelle sale del circolo napoletano. Nello stesso 1928 si prepara per un’altra personale presso la Galleria Pesaro di Milano, ma viene colpita da una grave malattia che causa la sua scomparsa nel marzo dell’anno seguente. Cinque opere di Ada vengono comunque esposte, insieme a quelle del padre, alla Mostra degli Artisti Napoletani alla Pesaro nel 1929: la stampa sottolinea la prematura scomparsa dell’artista, unica donna rappresentata nell’esposizione. (da www.archiviopratella.it)
Pittore a ponte fra le spinte di rinnovamento e i richiami della tradizione, Mario Cortiello ha provato a conciliare queste opposte tensioni, riuscendo spesso a risolverle felicemente. Dotato di fertile invenzione e di notevole capacità rappresentativa, ha lasciato una produzione ricca e varia. “Tra appunti cromatici e narrazioni fantastiche Mario Cortiello raggiunge un surrealismo chagalliano che spesso va al di là di ogni pittorica immaginazione per approdare a quelle favole mediterranee, a quel mondo già nostro vissuto tra mito e leggenda”. (Salvatore Di Bartolomeo)
“Tutti i quadri di Cortiello raccontano fasti, storie e miraggi della immortale maschera del teatro dell’arte (Pulcinella). E non si tratta del contaminato e snervato Pulcinella ottocentesco, bensì del Pulcinella classica capocomica di un balletto sull’orifizio di un inferno, personificazione della fame, spirito esplosivo a livello istintivo, di una grandiosa amoralità. Sulle fantastiche, movimentatissime, persino forsennate scene di Cortiello, egli non compare da solo ma in compagnia di innumerevoli scatenati gemelli a cui per la verità mancano l’abiezione, il servilismo e la grassa volgarità dei progenitori secenteschi. E infatti i suoi dipinti esprimono una grande libertà di spirito, una gloriosa carica di fantasia, un fondo di complessivo ottimismo. Proprio tutto ottimismo? No. Queste pazze sagre, raccontate da un pennello guizzante ed estroso, sono troppo trionfali e felici per poter essere vere o quanto meno accessibili a un possibile sogno”. (Dino Buzzati)
Di Admin (del 27/01/2010 @ 19:15:24, in Arte News, linkato 3887 volte)
{autore=biondi nicola}
Autore: NICOLA BIONDI (1866 - 1929) Titolo: LA TROTTOLA Tecnica e superficie: OLIO SU TELA Dimensioni: 25,5 x 32,5 cm
L'opera è firmata N. Biondi in basso a destra. Un'opera simile dal titolo "La trottola" è pubblicata in bianco e nero a pagina 23 sulla monografia "L'arte di Nicola Biondi" di Alfredo Schettini edizione Editorialtipo, Roma 1971.
Alieno al formalismo accademico imperante all'epoca, ma non indifferente alle esperienze delle scuole napoletane di Posillipo e Resina, disegnò,dipinse, sperimentò senza tregua e con ogni tecnica, olio, carboncino, seppie, tempera, pastello, rappresentando quella natura tanto amata, la figura umana, i bambini, in chiara e vigorosa espressione naturalistico - impressionista.
Esordì giovanissimo nel 1883 alla Promotrice di Belle Arti Salvator Rosa. Una sua opera, "l'ora del pasto" nell' '85 fu acquistata dal Re Umberto I, ed un'altra "Bacco fanciullo" fu premiata al Salone di Parigi. Le "Ombre cinesi" presentata nel 1906 alla Mostra internazionale d'arte di Milano fu acquistata dal Bey del Cairo. Partecipò con successo alle maggiori rassegne in Italia ed all'estero, Parigi, Pietroburgo, Monaco. Grande rilievo ebbero la retrospettiva personale dell'aprile 1930, del 1943 a Roma, insieme al figlio Paolo ed ancora a Roma nel 1971 unitamente a Pietro Scoppetta. Presente, con inalterato consenso, alla Mostra dell'arte nella vita del Mezzogiorno d'Italia, Roma, palazzo delle Esposizioni, 1953, della pittura napoletana del secondo ottocento, Napoli, 1958 ed altre.
Schivo, eppur compagno di noti artisti coevi, Casciaro, Pratella, con essi dal suo eremo al Vomero inseguì disperatamente quel verde, quei colori, quella luce che la dilagante urbanizzazione andava travolgendo. Visse d'arte, partecipò con successo alle più importanti Rassegne dell'epoca. Sue opere adornano il Salone dellaBanca d'Italia di Campobasso ed, insieme ai più famosi Maestri dell'epoca, le sale del Caffè Gambrinus di Napoli. Numerosi i riconoscimenti, ad onta della sua ritrosia, ultimo la cattedra di pittura dell'accademia di BB.AA di Napoli, cui solo la morte oppose remora....
Di Admin (del 27/01/2010 @ 11:07:16, in Arte News, linkato 1554 volte)
1) Nasce la rubrica “Il quadro della settimana”. Qui Marciano Arte ogni settimana circa proporrà la novità della galleria, presentando ai propri affezionati visitatori l’opera inedita della sua collezione in vendita.
3) Il sito imaginepaolo.com invita a votare il sito più interessante tra quelli proposti. Se vuoi votare marcianoarte.com trovi il bannerino “Vote for me” in alto a sinistra nella nostra homepage, oppure cliccando qui. Grazie
Allievo di tre grandi maestri, Esposito, Volpe e Cammarano, Gennaro Villani ha insegnato pittura prima all’Accademia di Belle Arti di Lucca e poi a quella di Napoli. A Villani non è mancato neppure un proficuo soggiorno a Parigi, nel quale ha modo di affinare non poco le sue doti di colorista sensibile e raffinato. Questo senza mai venir meno al richiamo del paesaggio e della luce di Napoli, alla cui rappresentazione dedicherà il meglio della sua attività.
Dopo essersi inizialmente rifatto alla maniera del proprio maestro Antonino Leto (che gli mediò anche il quasi esclusivo amore per l'isola di Capri), Felice Giordano si conquistò una propria cifra espressiva, con riferimenti da Pratella a Irolli. Firma assai ricercata a Napoli e anche sul mercato nazionale, dove le sue impegnative prove paesistiche (Capri, Napoli, Venezia, Parigi, e l'Umbria), le nature morte marinare di spigole, cozze e polpi, incontrano piacevole assorbimento a prezzi compresi tra i 2.000 e i 7.000 euro; possono superarli i quadri di maggiore impegno: soprattutto alcuni animati, vivaci, vibranti notturni urbani, tra le cose più tipiche ed efficaci della sua produzione.
Il fatto che spesso un’opera venga indicata indifferentemente come gouache o tempera non deve essere oggetto di meraviglia o scandalo, perché con la prima definizione si suole indicare soltanto una variante della pittura a tempera. La tecnica della pittura a tempera consiste nello sciogliere nell’acqua invece che nell’olio i colori ricavati dalla macinazione di alcune terre, e nel farli agglutinare mediante l’aggiunta di colle di origine animale. Si adotta la tecnica del guazzo quando al posto delle colle di origine animale vengono usate alcune varietà di gomme, quali quella arabica o la gomma-lacca. La suddetta distinzione potrà risultare grossolana anche perché ogni pittore aveva una sua ricetta, ora aggiungendo del miele, ora del bianco d’uovo o del lattice di fico ai componenti di base.
Per Scuola di Posillipo si intende un gruppo costituito da vedutisti e paesisti, in gran parte allievi dell’olandese Antonio Pitloo, che nel terzo decennio dell’Ottocento si riunirono a Posillipo dove, con deliberato rifiuto dei canoni accademici della pittura neoclassica, instaurarono la consuetudine della pittura all’aria aperta, a diretto contatto con la natura, e dipinsero quadri caratterizzati da notevole freschezza e vivacità. Del gruppo fecero parte: Luigi e Salvatore Fergola, Raffaele Carelli, Achille Vinelli, Gabriele Smargiassi, Teodoro Duclére e Consalvo Carelli, ma la personalità dominante fu Giacinto Gigante che, con le sue interpretazioni liriche e soggettive del paesaggio, segnò il passaggio dalla veduta documentario-topografica a quella “poetica”.