Si può usare per un pittore la definizione di narratore visivo? Per Armando De Stefano la definizione risulta propria: De Stefano racconta storie, mette in scena commedie drammatiche, organizza rappresentazioni allegoriche. Dopo il ciclo figurativo dedicato (tra il 1967 e il 1968) a Jean-Paul Marat (il giacobino idolatrato dal popolo di Parigi), dopo il «Ciclo di Tommaso Aniello » (Masaniello, «l’inquieto e temerario pescivendolo di Napoli») del 1970-1975, dopo il «Ciclo di Odette» (del 1973-1977) dedicato a «Vita, persecuzione, morte e resurrezione di una giovane borghese innamorata di un proletario anarchico», eccolo proporci, con spregiudicato coraggio e coerente vitalità immaginativa, il «Ciclo del Profeta», iniziato nel 1978 e ancora aperto: i protagonisti del «Ciclo del Profeta» sono Giovanni Battista, Cristo e Maria sua madre, antieroi, secondo De Stefano, umanissimi e libertari che incarnano, come Marat, Masaniello e Odette, uno scandaloso (profetico) destino di riscatto morale.
I cicli di De Stefano sono romanzi scenici, affreschi teatrali, melodrammi costruiti attraverso sequenze pittoriche, che sfruttano la tecnica cinematografica dei piani e contropiani, i ritmi mimici del balletto e della danza, la funzione rituale che armonizza nello spazio del palcoscenico il gesto degli attori e la scenografia che svolge un ruolo di maschera. A proposito delle rappresentazioni pittoriche di De Stefano sono stati chiamati in causa il teatro liturgico-misterico di Lope de Vega e il cinema epifanico di Bergman e Bunuel: certo vi si rintracciano analoghi contrasti tra idealismo ed esistenzialismo, tra ieraticità simbolica e realismo fisico; ma la sacralità di De Stefano, non è, come in Lope de Vega o Bunuel, religiosa; un elemento libertino e liberty, sostanzialmente laico anche se non parodistico, richiama, nei suoi racconti per immagini, alla memoria più propriamente “Il fiore delle mille e una notte” di P.P. Pasolini e “L'opera del mendicante” di John Gay. Nell’ispano-napoletano De Stefano, che riprende la lezione del sulfureo espressivismo dello Spagnoletto, convivono pathos ed eros, innocenza e ambiguità, in una ritualità non liturgica, che usa, in un percorso di ascesi stoica, persino la perversa provocazione peccaminosa di Salomé.
Marat, Masaniello, Cristo: Armando De Stefano mostra una ferma predilezione per il ricupero del valore simbolico di certi personaggi storici anticonformisti, profeti dell’utopia dell’innocenza, della speranza e della convivenza. Ma De Stefano non celebra la Storia: tanto meno la glorifica. I suoi antieroi sono, anzi, vittime esemplari dei poteri storici formali; agnelli sacrificali, vittime di persecuzioni e crocifissioni. La storia autentica, moralmente educativa, è per De Stefano quella basata sulla catena di ribellioni, martirii e riscatti che lega i suoi poveri di spirito, interpreti di una riconsacrazione umana dell’esistenza. La Storia con la S maiuscola è, invece, la Peste di Napoli, il Giardino Morto di Odette, la Fuga di Giuda: un museo mortuario, un mausoleo della distruzione per uscire dal quale ci è d’aiuto solo il filo di Arianna dell’amore (anche corporale). La pittura di De Stefano celebra, dunque, la Resistenza del Privato contro la Storia.
Ogni vicenda dei suoi personaggi, anche quella di Cristo o di Maria, descrive un percorso di ricerca di identità personale: e i miracoli (di strazio o felicità) in cui sono coinvolti, non sono testimonianza del divino — non sono sublimazione — ma solo un riconoscimento o un’appropriazione di umanità. Il Cristo di De Stefano assomiglia molto all’«uomo di Nazareth» di Anthony Burgess e Maria ha molto in comune con la silenziosa e protettiva madre terrena di Gesù proposta da Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo”: protettiva come tutte le donne dei tazibao maieutici di De Stefano che sono madri anche quando sono amanti. De Stefano mette in scena le vicende dei suoi eroi per riviverle in una liberatoria drammaturgia mimica e mimetica: acutamente Testori ha parlato a proposito delle sue raffigurazioni, di «narcisismo giudicante e sacrificale».
Le parole che pronunciano e vivono i personaggi di De Stefano sono ardore, amore, furore, in alternativa ad orrore, terrore, dolore. Benché sia passato da Marat a Masaniello, personaggi mitopoetici della Rivoluzione, a Maria e Cristo personaggi mitopoetici della Redenzione, De Stefano non sottolinea ancora le parole gioia o grazia. Nel «Ciclo del Profeta» lo Scandalo dell’identità non è lo Scandalo della Verità, la Protesta non è Preghiera. Amore e Morte, Bene e Male conducono ancora, nei poemi visivi di De Stefano, un’irrisolta battaglia. Nei suoi quadri i fiori diventano spine, i broccati si trasformano in piaghe: e non viceversa. Le sue non sono sacre rappresentazioni, sono chansons des gestes, fastose ballate trobadoriche profane.