{autore=de stefano armando}
L'opera è firmata e datata in basso a destra: "
A. De Stefano 1976". A tergo sono: titolo, data, firma, tecnica e un numero di archivio apposti dall'autore: "
"Il fauno '76", A. De Stefano, tempera, 5138". Il dipinto è corredato dall'autentica diretta dell'artista su foto (del fronte e del retro) in bianco e nero, dove il maestro specifica che, tra l'altro, la tecnica usata è quella dell'olio.
DE STEFANO, DENTRO LA VITA LA SOLITUDINE DEL LEONE.
Domenico Rea scrisse che
Armando De Stefano ha "la capacità di scendere nel cuore delle cose e di riportarle in luce, in colore, senza rinunciare a nulla di napoletano". Pittore di confine, alla soglia degli ottant’anni
De Stefano ha appena pubblicato un bel libro antologico,
Continuità nel realismo, a cura di
Arturo Fratta. E già quel titolo è una rivendicazione di resistenza alle mazze e piveze - così lui le definisce - che oggi invadono gli spazi dell’
arte. «Sono nato al Borgo Orefici. Papà Luigi era cassiere di banca, mamma Assunta curava la casa e cuciva i vestiti per noi tre figli, io il terzo. Fu lei a chiamarmi
Armando come l’
Armand Duval dell’amata
Signora delle camelie. Bella la vita in quel quartiere popolare. In piazza Mercato fittavavamo le biciclette, sorbivamo le rattate di ghiaccio tritato e colorato di sciroppo, ascoltavamo le anziane narrare le leggende della
rivoluzione del 1799. Per loro
Eleonora Fonseca Pimentel era una malafemmena». Quando cominciò a dipingere? «Alle elementari. Non ho mai fatto i disegni dei bambini, e mi dispiace. La matita nella destra, ritraevo la mano sinistra aperta e viceversa. Mio zio
Francesco Parente, scultore, m’incoraggiava, ma papà non voleva, ne aveva visti troppi di
artisti in miseria, nella sua banca. Però fu lui a far crescere la mia voglia. Mi parlava di
Gemito, perché andava a casa sua ogni tanto a portargli un assegno di Mussolini.
Gemito faceva il the, non glielo offriva, prendeva una carta gialla, di quelle usate per il sapone, e disegnava un cavallo, un pesce, un cervello. "Portatelo all’eccellenza", era il suo modo di disobbligarsi. Arrivato in quarta il direttore decise di usare la mia abilità. Invece di studiare, disegnavo a tempo pieno. Ritratti del generale
Diaz, della regina che offre l’oro alla patria. All’esame di ammissione temevo di essere bocciato, ma mi aiutarono». Fece subito studi artistici? «No, m’iscrissero al magistrale Margherita di Savoia. Di pomeriggio si tenevano corsi di pianoforte e violino, così m’innamorai anche della musica. Ma non si possono fare tante cose insieme. Ho nutrito quasi un senso di colpa per aver lasciato la musica; per attenuarlo ho sempre tenuto un piano a coda nello studio e ho donato disegni di strumenti al conservatorio, quando lo dirigeva
Roberto De Simone». Che ricordo ha della guerra? «Fame e paura. All’inizio era quasi divertente scendere nei ricoveri, vedevi le ragazze in abbigliamento più intimo. Ma poi uscivi, vedevi le case distrutte, e montava l’angoscia. Tornata la pace, passai al liceo artistico". E fece i primi quadri veri. «Ritraevano certi uccelli, soprattutto anatre. Usando lo specchio dell’armadio della padrona di casa feci il primo autoritratto, lo conservo. L’arrivo degli Alleati fu un vantaggio anche personale. Mio padre era amico di un certo Ciappa, copista della
Tate Gallery di Londra, che mi consigliò di fare i ritratti agli ufficiali americani e inglesi. Andavo alle batterie contraeree munito di una tavoletta e di un blocco di carta. Ogni disegno, tre AM lire. Ne esposi uno, come pubblicità, nella libreria Lepre in via Costantinopoli. Funzionò, facevo fino a tredici ritratti al giorno. Fu una grande lezione e campammo tutti un po’ meglio. Ma poi Napoli si spopolò e addio affari». Suo padre comunque aveva cambiato idea. «Macché. In famiglia erano tutti ragionieri, gente quieta. Dopo la maturità mi disse: iscriviti almeno ad architettura, pure quella è un’arte. Resistetti un anno. Gli dissi: non ti preoccupare, me la vedo io. Magari andrò a Parigi o a Londra, e se va male laverò i piatti. All’
Accademia feci l’incontro meraviglioso con
Emilio Notte: grande pittore, grande didatta. Disse: "Ricordati che i leoni camminano da soli", questa frase mi ha accompagnato per tutta la vita, la lezione morale di
Notte mi ha guidato in 42 anni di insegnamento. Al terzo anno di Accademia vinsi il Premio De Gasperi a Roma ed esposi alla
Biennale di Venezia, dipinti di figure allungate. Grazie a una mostra al
Grenoble conobbi
Picasso,
Braque,
Matisse. Fu uno choc. Presi a fare cose discontinue, a cercare una mia strada». Erano anni di ricostruzione e di speranza. «Nel 1946 m’iscrissi al partito comunista. Papà era di sinistra, ma subii soprattutto l’influenza ideologica del pittore
Raffaele Lippi, reduce dalla Russia. Dal 1950 tenni rapporti con i compagni di Roma, a partire da
Renato Guttuso. Sperimentai un linguaggio di grande ricchezza, frequentai camere del lavoro e case del popolo, contadini calabresi e lavoratori delle risaie. Facevamo murales, grandi pannelli per le feste dell’Unità. E se prima non avevo il coraggio di dire una parola, imparai a parlare in pubblico. Mi sentivo un pittore con una funzione, oggi mi sento un isolato. Feci una mostra in America con il gruppo realista. Nel ‘54 fui premiato al Festival della Gioventù a Mosca, ero un ‘pittore del popolo’; presentai un nudo, quello della ragazza che vendeva sigarette sotto casa». Quanto durò quel periodo? «Il
XX congresso del Pcus fu lo spartiacque. Il partito girò le spalle al realismo, convogliò intellettuali di pareri ben diversi.
Guttuso si girò verso gli americani, la
pop art. Fu un aborto. E venne una prima rottura tra noi artisti. Dopo l’invasione dell’Ungheria non rinnovai la tessera. C’era anche una crisi di linguaggio, un nuovo tipo di operaismo nell’
arte ci esponeva al rischio di una iconografia di tipo fascista. L’apologia non ha niente a che fare con la realtà, ch’è complicata. Alla fine degli anni Cinquanta, alla
Biennale di Venezia, entrai in contatto con un pittore che aveva capito le contraddizioni della realtà:
Francis Bacon. Fu un arricchimento. Gli operai oramai volevano diventare borghesi. Per cogliere opposte sfumature occorrevano immagini meno ieratiche, perfino più ambigue». Ciò nonostante, lei seguì la continuità nel realismo. «Ma con strumenti diversi, ispirandomi al cinema e alla storia, quella valida per l’oggi. Cominciai con
Masaniello, una grande mostra a Roma e poi a Firenze. Mi aveva colpito un libro di
Vittorio G. Rossi, Miserere per i fichi; narrava di un rappresentante di detersivi che si trova nelle strade napoletane del ‘600. Misi un microfono in bocca a
Masaniello, lo trasformai in tribuno di piazza. Come colonna sonora presi i canti popolari raccolti da
De Simone. Fui affascinato da altre figure di uomini inghiottiti dalla rivoluzione, come
Marat, come
Lumunba. E le dipinsi». Poi venne il ciclo di
Odette e il Jolly. «Fu presentato da
Giovanni Testori, geniale amico. La mostra andò a Londra e in Spagna. Per me
Odette era la
Francesca Bertini dei film muti visti da bambino, una suffragetta a cavallo di due secoli che si innamora di un anarchico. In fondo, un romanzo a fumetti riscattato dalla presenza di un jolly che, come nelle carte, risolve i problemi, nel bene e nel male. Seguirono le
Maschere, cui ho dato un senso diverso: utili non a mimetizzarsi bensì a essere se stessi, disinibirsi». E’ ricorrente l’uso di certi simboli rovesciati. «Forse. Ad esempio il ciclo del
Mercato dei Miti. Dopo la guerra si vedevano sulle nostre bancarelle fez e pugnali fascisti; sulle bancarelle dell’Est cappelli e distintivi dell’Armata Rossa. Smitizzati. Ciò che fa paura può diventare oggetto di scambio da pochi soldi. E per
Dafne stranamente m’ispirai a
D’Annunzio più che a
Ovidio. Fu un grido di critica sociale: pensavo al trasformismo, alla vergogna della gente che passa da un partito all’altro». Una vena libertaria, di sostegno agli sfavoriti percorre tutto il suo lavoro. «Feci gli
Esclusi, l’idea mi venne da un magnifico libro di
Sergio Piro con le foto di
Luciano D’Alessandro. Ma gli esclusi non sono solo i pazzi, escluso è chiunque è tenuto in disparte perché non accetta le speculazioni. Li presentai a Napoli, a Palazzo Reale". E venne il ciclo del
1799. «Cominciai negli anni ‘70 con ritratti di
Championnet,
Nelson,
Cirillo. M’ispirarono i racconti delle vecchiette di piazza Mercato. Feci una mostra a Palazzo Reale nel 1989, ho ripreso il tema per il bicentenario. Ho molte tele sulla rivoluzione napoletana, la decapitazione di Eleonora, i Francesi... Non le vendo, voglio donarle al comune di Napoli. Ne parlai con Guido D’Agostino quando era assessore, disse che voleva sistemarle in un museo da aprire in una chiesa del Mercato. Non ebbe il tempo. Ne ho parlato con la Furfaro, dice che quel progetto non esiste. Magari ne parlerò con
Spinosa, il
Museo di San Martino sarebbe la sistemazione adatta.
Spinosa ha voluto due miei dipinti a
Capodimonte, due spaventapasseri. E non ho rinunciato a salvare la statua di gesso di
Jerace sul 1799.
Gerardo Marotta la ripescò per esporla a
Sant’Elmo, è finita nel cortile di
Palazzo San Giacomo. Era passata la mia tesi di tradurla in bronzo, bastavano 50 milioni. Invece sta lì e può andare in pezzi al primo urto. E però nelle vie ci sono i tralicci di
Kounellis». Non la convince, è noto, la politica napoletana dell’
arte. «Ho l’impressione che Napoli abbia vissuto una sindrome delle avanguardie, eccessiva, correndo il rischio di cadere nel provincialismo della smania del nuovo. Diceva
Carrà: ‘Di cose nuove è pieno il mondo, cioè diventano vecchie’. Non c’è cosa più vecchia e stantia di un’avanguardia superata. Non sono contro l’avanguardia in sé, vorrei solo una dialettica fra le varie tendenze. Se l’avanguardia diventa cultura di Stato, che avanguardia è? Diventa un termine militaresco, come eia eia alalà. Diceva Testori: ‘Non bisogna mai confondere avanguardia e modernità’, ossia tutto ciò che accade attorno a noi, filtrato senza civetteria, senza mode. Io sono un pittore moderno, non di avanguardia. Il
Pan, il
Madre, le opere in
piazza Plebiscito: va tutto bene, però non si può portare una certa esterofilia all’esasperazione. E non parlo di napoletanità, e non lo dico perché non c’è un
quadro mio sotto il metrò. Lo dico perché così si distrugge la cultura mediterranea, quella di
Picasso per capirci. Non basta portare il mondo a Napoli, dobbiamo portare Napoli in tutto il mondo». Dica qualcosa che l’è piaciuto di recente. «All’ultima
Biennale di Venezia ho incontrato il pittore
Freud, nipote dello psicanalista. Bravissimo, trasgressivo, ambiguo. Nel mondo esistono fenomeni veri, perché mortificarli? Sto lavorando anch’io sulle trasformazioni dell’ambiguità. Ho avuto il
‘600,
Cammarano,
Gemito, i miei vecchi. Ho scelto questo mestiere perché amavo i pennelli, i colori, la tela, la puzza dell’acqua ragia, il corpo umano. Ma le passioni antiche, gli strumenti eterni dell’
arte, devono sempre servire alla modernità».
PIETRO GARGANO (da “
Il Mattino” del 6 novembre 2005)