Note descrittive:
(da “Gouaches napoletane nelle collezioni private” di Lucio Fino; Grimaldi Ed.)
Tempere e gouaches.
Il fatto che spesso un’opera venga indicata indifferentemente come un guazzo o una tempera, anche da parte di studiosi e collezionisti particolarmente esperti, non deve essere oggetto di meraviglia o scandalo, perché, sebbene guazzo e tempera siano due termini che in campo strettamente tecnico devono essere riferiti a due diverse modalità di dipingere, con la prima definizione si suole indicare solitamente soltanto una variante della pittura a tempera, sicché è certamente consentito fare genericamente riferimento al solo più ampio campo delle tempere. La tecnica della pittura a tempera, già ben nota fin dall’epoca dei Romani, consiste nello sciogliere nell’acqua invece che nell’olio i colori ricavati dalla macinazione di alcune terre, e nel farli agglutinare mediante l’aggiunta di colle di origine animale. A queste colle, inoltre, è anche affidato il compito di realizzare un migliore fissaggio degli stessi colori ai diversi possibili supporti, di carta o cartone, di pergamena, di seta o altro. Questa tecnica non richiede nè trattamenti finali di verniciatura, nè alcuna idonea preparazione del sottofondo salvo che per i dipinti su seta, dove, invece, è assolutamente indispensabile procedere preliminarmente a una imprimitura del supporto per renderlo più robusto, immergendolo per qualche ora in una soluzione di allume di rocca in acqua tiepida. Si adotta la tecnica del guazzo, invece, quando al posto delle colle di origine animale vengono usate alcune varietà di gomme, quali quella arabica o la gomma-lacca. Ovviamente, la suddetta distinzione potrà risultare piuttosto grossolana per gli addetti ai lavori, perché in realtà ogni pittore aveva una sua ricetta, ora aggiungendo del miele, ora del bianco d’uovo o del lattice di fico ai componenti di base: Hackert, per esempio, scrisse nelle sue memorie che solitamente sopra le tempere applicava un poco di acqua di vita, o spirito di vino, e che altre volte, molti quadretti con figure, paesi o arabeschi ad uso di tempera o di guazzo, appena ben asciutti, furono da lui coperti con cera bianca liquefatta, brusciati e lustrati. L’uso, quali additivi, di gomme invece che di colle conferisce all’inizio caratteristiche indubbiamente diverse ad un dipinto: i guazzi, infatti, appena dipinti rivelano effetti pastosi e vellutati, o gradi di opacità e delicatezza dei toni cromatici che non sempre si ritrovano nelle tempere propriamente dette. Ma a distanza di tempo, per l’inevitabile alterarsi dei colori, specialmente per la continua esposizione alla luce delle opere, tempere e guazzi appaiono quasi sempre molto simili tra loro, pur se la maggiore intensità cromatica delle gouaches risulta sempre apprezzabile da parte dei più esperti. Spesso, come per esempio in quasi tutti i dipinti di Saverio Della Gatta, le due tecniche addirittura convivono in una stessa opera, oppure sono utilizzate unitamente alla tecnica dell’acquerello: in tali casi, più opportunamente, si usa parlare di tecniche miste. Dunque, solo un occhio veramente esperto può ben distinguere in un dipinto di antica fattura la tecnica del guazzo da quella della tempera: quanti, per esempio, sono in grado di distinguere tra le celeberrime incisioni delineate e colorate a mano che illustrano i Campi Phlegraei di Sir Hamilton quelle dipinte a guazzo da quelle acquerellate o dipinte con tecniche miste? Eppure, sia nel volume principale del 1776 che nel Supplemento del 1779 alcune incisioni sono colorate semplicemente all’acquerello, altre a guazzo, altre ancora a tempera. Sono questi, pertanto, i motivi per cui in questo volume vengono illustrati indifferentemente sia tempere che gouaches, facendo attenzione solo nelle situazioni più importanti alle differenze tra esse esistenti.
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Atre opere:
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