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Autore:

RICCIARDI GIOVANNI

N - M:

Castellammare di Stabia, 1977

Titolo:

Il tetto, quel giorno...

Tecnica:

Olio polimaterico su tela

Anno:

2002

Misure:

120 x 100 cm

Note descrittive: L’inganno dei sensi. Napoli 11-12-2002 Negli ultimi decenni il ventaglio delle alternative che si aprono alla ricerca artistica sembra essersi enormemente allargato. Il quadro dei linguaggi e delle tecniche tradizionali, per quanto sconvolto all'inizio del Novecento dall'irruzione delle cosiddette avanguardie storiche, ha continuato ancora a lungo a presentarsi, agli occhi dei conservatori e degli innovatori, come l'unico sistema di riferimento, come un banco di prova storicamente insostituibile. Terreno comune di confronto, dunque, anche quando se ne negava la centralità o si avanzavano propositi di sovversione. Tuttavia, già qualcuna delle prime avanguardie - e segnatamente il Futurismo e il Dadaismo - aveva indirizzato il raggio della propria ricerca oltre i confini di quel sistema e aveva aperto un varco al passaggio dallo spazio "separato" dell'arte allo spazio della vita. E' stato, però, solo con la seconda metà del Novecento che le varie pratiche di "sconfinamento" e di esteticità diffusa hanno dato vita a una vastissima e multiforme produzione di performance e di happening, di interventi negli spazi urbani e nel paesaggio, confluendo, infine, in un unico evento spettacolare entro cui sfuma la distinzione tra dimensione virtuale e mondo reale. Confinate in una condizione di marginalità rispetto ai circuiti dei mass media e alla diffusione invasiva delle immagini prodotte dalle nuove tecnologie, le arti visive tradizionali si sono illuse di poter superare tale condizione, aprendosi al flusso dell'immaginario elettronico e della spettacolarità e accogliendolo come totalità indistinta, come realtà ridotta ad apparenza assoluta e perciò stesso "mondo vero", divenuto nietzscheanamente favola, entro l'orizzonte di una civiltà esposta senza ripari alle leggi del mutamento e del consumo. In una società che "è diventata una mostra, un'esposizione pubblicitaria che è impossibile non visitare, perché comunque ci stiamo dentro"(G. Anders), il sogno delle avanguardie di liberare l'arte dalla sua storica "separatezza" e riconciliarla con la vita si è banalmente tradotto nell'estetizzazione universale delle merci, nell'offerta, distribuita attraverso i circuiti del mercato e della pubblicità, di una qualità estetica per tutti o, se si preferisce, di un nuovo genere di "bellezza aderente". Non è certamente questo il luogo per tentare una trattazione approfondita ed articolata di un argomento così complesso. L'accenno che se n'è fatto vuole suggerire come proprio la fluida, mobilissima ed illimitata ampiezza d'orizzonti in cui sembrano muoversi oggi i percorsi della ricerca artistica costituisce in realtà un dato estremamente problematico e indurre a considerare, perciò, con grande interesse quei giovani che, rifiutando le ormai noiose chiacchiere sul nomadismo postmoderno, con la sua disinvolta pratica di attraversamento dei linguaggi dell'arte, e diffidando degli inviti ad accettare le regole del carnevale mediatico in cui saremmo tutti irrimediabilmente immersi, cercano, invece, di dare alla propria esperienza artistica un ancoraggio più stabile. E' questo il caso di Giovanni Ricciardi. Nelle opere che egli espone nella sede dell'associazione Movimento Aperto c'è il segno della compattezza d'insieme raggiunta mediante un lavoro paziente di aggiunte e di passaggi, di modulazioni e di arricchimenti condotti con esplicita curiosità sperimentale, ma sempre gravitando intorno ad un saldo nucleo espressivo iniziale. Ne risulta la sensazione di una coerenza che non è astratta identità formale né generica uniformità di modi linguistici, ma passa attraverso diversi gradi di eterogeneità, riuscendo infine a saldare nell'unità dei nessi percettivi e semantici la pluralità delle materie, degli oggetti e dei segni che l'opera chiude nel suo perimetro. Il pregio maggiore dei lavori di Ricciardi, strettamente legato al rapporto tra la qualità sensibile dell'immagine e l'alone di senso che intorno ad essa s'addensa, sta forse nel modo in cui l'ariosa geometria dello spazio, interrotta da improvvisi sussulti timbrici, s'accorda con la visione di orizzonti lontani, di paesaggi mediorientali e di allarmati segnali di guerra, e le luci e le ombre, tra la città e il deserto. Le icone, però, si possono assottigliare fino a toccare la trasparenza del simbolo o acquistare l'opaca consistenza dell'oggetto. Ma la materia, modellata sempre con un amore vivissimo per la definizione preziosa del particolare, trapassa subito nella leggerezza della forma. Si sente anzi circolare, in queste opere, una singolare atmosfera fiabesca, che sembra nascere dal fascino discreto di alcune figure floreali e dalla delicatezza di assottigliate stesure cromatiche. Ricciardi predilige le cadenze piane, distese, e rivela una naturale disposizione alla lineare chiarezza delle strutture. Queste, infatti, non rimangono nascoste al di sotto del livello iconico, ma, portate alla luce, coincidono col rapporto, tutto dichiarato sulla superficie, che i vari elementi della composizione intrattengono tra di loro. Si può dire, allora, che nelle opere di Ricciardi non c'è divaricazione tra figuratività e astrazione, poiché questa altro non è che il respiro unitario della varietà delle cose, il segno dell'ordine cui esse aspirano. Ricciardi, come s'è detto, non ama abbandonarsi alla deriva dell'estetismo consumistico né lasciarsi coinvolgere nel flusso della spettacolarità. Egli intende l'arte come il momento in cui dalla discontinuità dell'esistente si vede affiorare la misura di una regola, sospesa tra l'ideale trasparenza della geometria e l'enigma apparente della scena onirica. Vitaliano Corbi

Atre opere: