Note descrittive:
L’ombrosa luminosità della pittura di Giustino Calibe’. (Vitaliano Corbi - 2001).
L’ossimoro è la “figura” dell’arte di Giustino Calibé. Non a caso, anche in una sua breve poesia, pubblicata nel catalogo d’ una mostra del 1991, troviamo espressioni come “percorsi segnati dal pallido sole della notte” e “assenze temporaneamente definitive”. In quel occasione egli espose una serie di delicati oli su tavola, dove nello spessore compatto dei bianchi trascorreva, insieme con un mondo di forme e di colori appena sussurrati, un velo d’ ombra, un leggero appannamento della luce, come per effetto d’ un respiro che provenisse dall’ interno dell’immagine.
In seguito, la pittura di Calibé, passata attraverso vari svolgimenti, che rinnovavano in modo originale l’esperienza materica dell’ Informale, prese un andamento ciclico, alternando, per così dire, periodi chiari e periodi scuri, fasi caratterizzate dalla ricerca di una luminosità interna alla materia e fasi in cui questa sembrava sprofondare nel buio. Ma anche in questa scansione distribuita nel tempo, che arriva fino ad oggi, è riconoscibile il segno della “figura” che accosta paradossalmente termini opposti. Il giorno e la notte nell’ arte di Calibé non appaiono mai veramente separati. L’ artista non ama dividere e contrapporre, a tal punto che per lui non solo la luce e l’ombra accolgono e legano dentro di sé le cose, ma paradossalmente sono esse stesse amiche l’una dell’ altra. Il ciclo della luce è sempre attraversato da diffusi cedimenti d’ ombra e quello del buio conosce il palpito di inattesi bagliori. La pittura procede come il fiume della vita, che scorre rimescolando tutto ciò che porta verso la foce, in un “viaggio di sola andata”.
In questo senso la pittura è sempre un azzeramento. Di classificazioni e di gerarchie, di cose già dette e di valori prestabiliti. Calibé Io avvertì con chiarezza all’ avvio degli anni novanta, quando rinnovò radicalmente il suo modo di fare pittura, ripartendo, appunto, da zero. Non era un revival di altri azzeramenti (come quello, ad esempio, predicato dai teorici della cosiddetta “pittura-pittura” alcuni decenni fa). Non era di tipo mentale, non rifaceva il verso alle analisi metalinguistiche dell’ arte concettuale né al purismo delle innumerevoli varianti neominimaliste. Per Calibé il grado zero della pittura da cui bisognava partire riguardava piuttosto la sfera delle emozioni. Lo spopolamento della scena del quadro annunciava il silenzio necessario al nitido ascolto di una voce.
Da allora il valore di un quadro si misura, per Calibé non dalla sua pretesa di accogliere i colori e i disegni del mondo, ma dalla capacità di intercettarne i riflessi e le ombre e di avvertire tuttavia l’alone emotivo che accompagna ogni minimo indizio di presenza. A prima vista sembrerebbe che questa capacità si fondi, come s’ è già detto, sulla riscoperta dell’Informale, rivisitato nel suo strettissimo intreccio segnico e materico. Ma se non c’è dubbio che, riguardando in prospettiva storica gli avvenimenti artistici degli ultimi cinquant’anni, l’antefatto dell’ attuale ricerca di Calibé debba essere riconosciuto appunto nell’ esperienza dell’ Informale, è tuttavia altrettanto evidente come di quest’ultima grande stagione pittorica venga scartato proprio il carattere ultimativo, di estrema e spesso tragica testimonianza esistenziale. E sono scartati, conseguentemente, anche tutto il ciarpame prodotto dall’illusione dell’immediatezza espressiva - per intenderci la facile “gestualità” che crede di potersi sottrarre ad ogni filtro culturale e farsi tramite diretto e privilegiato della soggettività, se non specificamente delle pulsioni profonde dell’Es - e il torbido, dilettantesco pittoricismo che ha caratterizzato i numerosi ritorni all’Informale tentati dall’inizio degli anni ottanta ad oggi.
La ricerca di Calibé continua a svolgersi sotto il segno della misura e persino di un certo pudore espressivo. Forse l’artista vi è indotto dalla volontà - cui prima s’accennava - di dare ascolto, sulla soglia del silenzio, alle piccole voci, a quelli che egli stesso ha chiamato “languori di vita” e che la pittura può riuscire a registrare solo a patto che sappia mettere la sordina non solo al racconto delle grandi storie, ma anche all’accesso dei lamenti esistenziali. In questo modo, concentrando l’attenzione su ciò che di solito sfugge alle nostre prime impressioni, Calibé ha saputo conciliare l’aderenza alla purezza del linguaggio pittorico, indagato quasi al microscopio nella sua avventurosa tessitura materica e segnica, con una delicata ma tenace evocatività in cui, attraverso “il colore dell’anima”, risuonano le voci contrastanti del mondo.
|
Atre opere:
|