Note descrittive:
Allievo dello scultore Lelio Gelli, si è diplomato in scultura presso il Magistero d’Arte di Napoli nel 1958 . Dal 1960 è presente attivamente nella vita artistica nazionale ed internazionale. Ha lavorato a Vetralla (VT), a Napoli e a Monaco Di Baviera. Achille Bonito Oliva: “Fino al Manierismo l’ideologia dello spazio pittorico viveva sotto il segno dell’assoluto prospettico. Lo spazio, cioè, era organizzato secondo le leggi della prospettiva assunta quale « forma simbolica »: la geometria euclidea diveniva canone e misura della storia e le complessità del mondo venivano ridotte a norma di ragione, nel senso che I’uomo gestiva il proprio raziocinio come potere e possibilità di organizzare gerarchicamente il rapporto con la realtà. Cosi la prospettiva era, in concreto, la riduzione del mondo a spazio fissato lungo una profondità ottica, illusoria e allusiva. Alludeva cioè alla coscienza che l’uomo aveva di gestire, rispetto al mondo animale al mondo vegetale, lo strumento privilegiato della ragione. Anche la dimensione temporale veniva risucchiata e assorbita nelle leggi della prospettiva rinascimentale: paradossalmente la terza dimensione, la profondità, acquistava la capacità di rendere unidimensionale la realtà, uno spazio senza tempo, una realtà fissata e ormai resa univoca dalla ideologia antropocentrica, l’uomo, appunto, al centro dell’universo. E’ dal Manierismo dunque che inizia lo smantellamento sistematico di tale ideologia e della susseguente organizzazione dello spazio pittorico, passando attraverso la bidimensionalità dell’Impressionismo, I’estroversione del collage cubista, la pura esibizione dell’oggetto dadaista, fino ad arrivare all’assunzione della temporalità nell’evento artistico dell’happening, e ai giorni nostri dove le dimensioni di spazio e tempo vengono assunte non nella loro schematicità metaforica bensì nella loro complessità metonimica: il tempo e lo spazio come dimensioni reali. Bruno Galbiati organizza lo spazio secondo una nozione aperta e flessibile che introduce, in luogo del concetto riduttivo e schematico di spazio, quello di campo. Per campo s’intende un sistema di relazioni complesse ed articolate su un processo che ne varia l’estensione e i confini. Egli presenta una zona in cui sono fissati una cellula fotoelettrica, una telecamera ed un videoregistratore. Intorno alcuni pannelli ad altezza d’uomo, riproducenti a diversa distanza da un vetro smerigliato la sagoma infantile del figlio. Ogni volta che lo spettatore entra nella zona captante della cellula fotoelettrica, scatta in collegamento con la telecamera che riprende lo spettatore e lo duplica sul video. Superato lo sbarramento segnaletico della cellula fotoelettrica, ecco cessare ogni meccanismo, la ripresa e la conseguente trasmissione sul monitor. Così lo spazio non preesiste alla presenza dello spettatore, ma si costituisce, in estensione, con l’avvento dello spettatore stesso che, attraverso il tempo della propria presenza, si relaziona ad esso. Ora è la temporalità, espressa in termini di immissione concreta del pubblico nello spazio estetico, che connota lo svolgersi dell’opera. Anzi, è lo svolgersi dell’opera, il suo movimento, che le fa fare un salto in avanti rispetto ad un’ideologia immobile e non dialettica dello spazio. Storicamente tale ideologia corrisponde allo spazio dell’ideologia capitalistica, della produzione cioè programmata secondo la rigida legge del profitto e dell’accumulo, una produzione che richiede ruoli specializzati e frantumazione del ciclo del lavoro. Inizialmente Bruno Galbiati sembra rispettare la divisione del lavoro e la ripartizione dei ruoli: artista e fruitore, opera e pubblico. Dove l’opera funziona da spazio di coagulamento e di relazione dei rispettivi ruoli. Ma Galbiati sa bene che tale unità è fittizia e consolatoria e che nella società borghese ogni rapporto si muove sotto il segno della gerarchia e dell’ordine costituito. Qui la gerarchia è data dal feticistico rispetto che la società ha verso la cosiddetta opera d’arte e l’ordine dalla paralisi che generalmente esiste nella fruizione dell’opera, che riduce sempre lo spettatore al passivo ruolo di voyeur. Nell’opera di Galbiati invece, tutto questo viene capovolto mediante una tattica che sostituisce, appunto, alla nozione statica di spazio, quella dinamica di campo e introduce, come interferenza reale, la temporalità. Questa dimensione è data e segnalata dal movimento e dall’ impatto dell’osservatore con la cellula fotoelettrica che permette alla telecamera la ripresa e la trasmissione della sua presenza sullo schermo.
Perché, anche questo lo sappiamo bene, lo spazio della produzione capitalistica tende alla fine a darsi come autoproduzione e a trasformare la società in società dello spettacolo. La società dello spettacolo è l’uomo che diventa ombra di sé stesso, produzione di ciò che produce, in definitiva egli diventa, attraverso l’oggetto di consumo, il proprio doppio. L’alienazione consiste proprio nel sentirsi esistere solo attraverso la duplicazione; l’uomo che si dà come attore, mentre paradossalmente egli non è attivo ma passivamente mosso dai centri del potere. Galbiati smaschera l’ineluttabilità di tale posizione in una società come la nostra e, invertendola come comportamento, la evidenzia. Ora lo spettatore misura sullo schermo l’immagine della propria presenza e del proprio movimento. Ma in questo caso l’immagine sullo schermo diventa anche la coscienza che solo il movimento rende esistente lo spazio e dunque l’opera. Nulla preesiste a lui, se non un vuoto meccanismo e una morta apparecchiatura, che in quanto tale, è meccanica e senza contenuti. Qui viene ribadito che l’unico contenuto è l’uomo. Serrato sotto l’occhio della telecamera e riprodotto come spettacolo sullo schermo. Ma il movimento non consiste nella ripresa o nell’apparire, come ombra, sul monitor, bensì è la gestione globale della situazione. Le mute fotografie del figlio ora sono poste di fronte, quasi didatticamente, ad uno spettacolo, dove si tenta l’inversione di segno dell’ineluttabile alienazione che segna quotidianamente la vita. Non più gerarchie e proprietà, nel senso dell’appropriamento tesaurizzante, dello spazio ma possesso come esperienza ed esperimento in atto. Il mass-media, la televisione, viene dirottato ed espropriato, se si può dire così, al potere centrale e lontano che regge tutti i rapporti e la storia: il potere della borghesia. Ma Galbiati sa bene che non è possibile creare un’opposizione diretta e frontale al monopolio della classe egemone, bensì solo indicare la possibilità e l’esercizio di un modello di comportamento alternativo. La didattica qui consiste nell’esibire un rovesciamento del diritto esclusivo di proprietà, di uno spazio o di un’immagine, in esercizio di un possesso pubblico che, in quanto tale, promuove un uso comunitario e dinamico dello spazio e l’instaurazione di rapporti, retti non più da confini ma relazionati da un movimento minimale da compiere, quello della porta aperta.” (www.adrart.it)
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Atre opere:
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